Elezioni americane: la vera posta in gioco del 5 novembre

Nel novembre 2008 John McCain, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali, telefonò a Barack Obama per complimentarsi per la vittoria elettorale. Un gesto dal senso chiarissimo: abbiamo combattuto aspramente secondo regole accettate da entrambi. Riconosco che tu hai vinto e ti auguro di essere all’altezza del nuovo compito che ti sei assunto.

Erano soltanto sedici anni fa, ma nel frattempo la politica americana, gli Stati Uniti d’America e il mondo intero si sono trasformati radicalmente. Un esempio di fair play istituzionale come quello di McCain oggi sarebbe lunare. Abbiamo ancora davanti agli occhi ciò che è successo il 6 gennaio 2021, quando non soltanto il presidente sconfitto non ha riconosciuto la vittoria dell’avversario, ma ha sostenuto attivamente un assalto violento al cuore stesso della democrazia americana. Anche in quel caso il significato era ben chiaro: il nostro candidato ha perso secondo le regole del gioco, che noi rifiutiamo perché le consideriamo truccate.

Quella drammatica vicenda, che rasentò il vero e proprio colpo di stato e che lasciò sul campo morti e feriti, è soltanto l’esempio più eclatante di un processo di radicalizzazione in corso da anni,

L’espressione corrente per esprimere questa nuova situazione è polarizzazione.

La politica americana riflette una spaccatura che è presente non soltanto nelle istituzioni e nel mondo della politica, ma nella stessa società americana, che è a sua volta polarizzata.

Gli analisti più attenti ci offrono indicatori oggettivi che esprimono questa contrapposizione frontale. Un esempio persino divertente è il numero dei matrimoni tra repubblicani e democratici, che si è drasticamente ridotto negli ultimi anni. Oggi è infinitamente più improbabile che una ragazza trumpiana sposi un fidanzato democratico e viceversa. I seguaci dell’uno o dell’altra sembrano vivere in due bolle autonome e separate, che evitano reciprocamente ogni contatto. Questo è in parte accaduto anche in passato, ma la misura in cui accade oggi appare inedita.

Ne risulta, ovviamente, che nessuno dei due schieramenti considera l’altro legittimato a governare gli Stati Uniti. Ed è proprio per questo motivo che dovremo guardare con estrema attenzione non soltanto alla giornata del 5 novembre, ma anche – se non soprattutto- ai giorni successivi, dove si testerà davvero la solidità dell’assetto costituzionale americano.

Eppure fino a pochi decenni fa – potremmo dire fino a Donald Trump? – il sistema americano era emblematico per la saldezza delle sue istituzioni. Le regole del gioco non facevano parte della contesa, perché comuni e condivise. Per quanto aspro fosse lo scontro, la struttura costituzionale era al di sopra delle parti.

Perché oggi non è più così? Perché il timore non è soltanto quello legittimo legato alla vittoria dell’uno o dell’altro, ma riguarda proprio la tenuta complessiva del sistema, con implicazioni facilmente immaginabili per tutto il mondo occidentale?

Le risposte sono naturalmente molteplici, ma già alla metà degli anni ’60, Richard Hofstaedter, importante storico e politologo, ci fornì una possibile chiave di lettura attraverso la contrapposizione tra interest politics e status politics.

La prima – la interest politics – considera l’azione politica come tutela e rappresentanza degli interessi sociali ed economici delle diverse classi sociali. Il New Deal, ad esempio, tutelava gli interessi dei lavoratori, degli operai e delle classi medio basse. Per molti, la politica si identifica completamente con questo: intercettare interessi materiali e bisogni sociali, a cui rispondere attraverso leggi e riforme.

Secondo Hofstaedter, invece, la politica non si esaurisce affatto nella dimensione economico-sociale e nella cura razionale degli interessi materiali. Il messaggio politico parla alle identità, alle appartenenze. Esprime una concezione del mondo, uno stile di vita, un sistema di valori. Parla molto più alle passioni e agli istinti che alla ragione. E’ quella che chiama status politics, nella quale la dimensione simbolica, evocativa conta ben di più di quella materiale ed economica.

Banalizzando, potremmo dire che l’interest politics migliora le condizioni materiali della tua esistenza, laddove la status politics ti fornisce un senso, ti conferisce un’identità. Protagonista della interest politics è il calcolo razionale degli interessi, mentre la status politics pone al centro le rabbie, le passioni e le frustrazioni.

La chiave di lettura di Hofstaedter ha più di mezzo secolo, ma pare funzionare anche -se non soprattutto- oggi ( e non soltanto in America).

Come spiegare altrimenti il fatto che larghe fette di proletari americani si identifichino con un multimiliardario da cui si sentono rappresentati? O che, nonostante gli ottimi risultati economici della presidenza Biden, i consensi democratici stentino? Eppure, l’economia americana è fortemente cresciuta, milioni di posti di lavoro sono stati creati, gli investimenti pubblici si sono moltiplicati. Certo, c’è stata la violenta fiammata inflazionistica, ma anche quella si sta riducendo visibilmente, ridando potere d’acquisto ai salari e agli stipendi.

E allora? Allora probabilmente il vecchio detto ‘It’s the economy, stupid’ non è più vero come un tempo. Non è più soltanto o prevalentemente l’economia a determinare il consenso, che invece deriva dai richiami identitari, dalle appartenenze, dai sistemi di valore. E’ il peso crescente della status politics: ad orientarmi non è più la mia condizione economico-sociale, ma la mia concezione del mondo.

La dimensione socio-economico lascia il campo a quella simbolica e valoriale. E dunque la lotta politica diventa guerra culturale, Kulturkampf. Diventa scontro senza quartiere tra concezioni alternative del mondo.

Il punto è proprio questo: se la politica diventa scontro tra universi valoriali totalmente contrapposti, cessa di essere politica, perché salta ogni mediazione possibile. Ogni cedimento è considerato tradimento.

La polarizzazione è figlia di questo processo culturale che ha investito negli ultimi decenni l’opinione pubblica americana e – pericolosamente – anche quella di altri paesi occidentali.

Certo negli Stati Uniti è particolarmente visibile: da un lato il multiculturalismo delle élite liberal concentrate sulle due coste; il radicalismo estremista della cultura woke; dall’altra, il patriottismo americano, i valori tradizionali del paese, incarnati dal Mid West, che si spingono fino al suprematismo bianco. Tra questi due universi contrapposti non c’è mediazione possibile. E la sconfitta della propria parte è la sconfitta di tutto il paese.

La polarizzazione è tutto questo.

La campagna elettorale è stata spia di questa tensioni: un candidato sostituito in corsa, disarcionato dai suoi stessi compagni di partito; un sostituto trovato a tamburo battente, per la necessità di non perdere i finanziamenti; un attentato alla vita dell’avversario, fallito per un soffio; un secondo sospetto attentato sventato all’ultimo momento dalle forze dell’ordine. Per non parlare dello scontro giudiziario, intrecciato con quello politico, in cui uno dei due candidati rischia non soltanto la sconfitta, ma anche la galera.

Ce n’è abbastanza per parlare di sfida finale per la democrazia in America e in Occidente? Probabilmente no. Forse ha ragione Federico Rampini, che vive negli Stati Uniti da oltre un ventennio, ad abbassare i toni, a relativizzare la portata storica dell’evento.

Però certo il 5 novembre sarà una data di immensa importanza. Innanzitutto per i sanguinosi conflitti internazionali che possono evolvere in un senso o in un altro a secondo di chi siederà alla Casa bianca. Ma anche per verificare se la struttura democratica del Paese leader del mondo occidentale reggerà alla guerra culturale, alla polarizzazione, allo scontro tra universi simbolici radicalmente contrapposti.

Comunque vada, sarà un segnale epocale, fornirà un timbro di fondo al nostro tempo incerto, destinato a risuonare ben oltre i confini americani,

La strada che ci porterà a quell’esito sarà, temiamo, tutt’altro che lineare, Viste le premesse, turbolenze e scossoni sono da mettere in conto,.

Dal canto nostro, occhi puntati su Washington, certo, ma con le cinture ben allacciate.

Massimo Rostagno

 

1 Commento

  1. Sarà così fino a che l’Europa rimarrà solo il sogno di un amore irraggiungibile ed è forse per questo che i nostri amici d’oltre oceano, ma anche i loro amici aldilà della manica, hanno sempre fatto di tutto perché di quell’amore ne conservassimo solo il sogno, senza mai riuscire a poterla accarezzare.

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