Fake news e democrazia

“I fatti hanno la testa dura”, diceva Lenin.

E qualche anno dopo, Pietro Nenni ribadiva che “ un fatto, anche il più modesto, conta più di una montagna di ipotesi”.

Nella loro diversità, entrambi appartenevano ad un mondo che rispettava la dimensione oggettiva, fattuale. Anche l’ideologia più ardita o l’interpretazione più estrema, presto o tardi, ci avrebbe fatto i conti, perché era un metro per separare il vero dal falso, per distinguere il posticcio dall’autentico. La rocciosità dei fatti fungeva da strumento di verifica delle ipotesi, da mezzo di accertamento della validità di una teoria.

Da almeno un paio di decenni, quel mondo non esiste più e le conseguenze sono importanti.

In realtà, è da molto più tempo che l’idea di “verità” è stata sottoposta ad una critica, sfociata in una vera e propria decostruzione. In ambito filosofico, già Nietzsche affermava che “non esistono fatti, ma soltanto interpretazioni di fatti”. E successivamente il pensiero postmoderno – da Lyotard a Baudrillard fino a Vattimo -ha sviluppato una vera e propria demolizione dell’ oggettività, riducendo il mondo a scontro tra interpretazioni e narrazioni alternative senza alcun ancoraggio oggettivo che possa valere come metro di valutazione.

Quando, negli anni’10 di questo secolo, hanno cominciato a circolare concetti ed espressioni come post-verità o “fatti alternativi” o “pensiero laterale” il processo di decostruzione sviluppato dalla filosofia alta nei decenni precedenti si è trasformato in fenomeno pop, assumendo una dimensione di massa, di senso comune che prima non aveva. E’ uscito dalla ristretta cerchia dei filosofi di professione per raggiungere un numero alto di persone. Da qui il dilagare delle teorie del complotto o, come le chiamano gli anglofoni, delle conspiracy theory.

Si tratta di un sia pur importante fenomeno culturale da studiare in ambito specialistico o è qualcosa di più? Rientra nella pura battaglia delle idee o coinvolge ambiti ben più allargati della semplice riflessione teorica?

Purtroppo pare vera la seconda ipotesi, perché la “crisi” della verità ha a che fare con quella delle democrazie, intrecciandosi profondamente con le torsioni degenerative che stanno attraversando i sistemi liberal-democratici.

La “verità” di cui parliamo va considerata nella sua dimensione più concreta: lontani da astrazioni filosofiche, stiamo parlando di semplice aderenza delle narrazioni ai fatti, del racconto delle cose alle cose stesse.

Naturalmente, il gioco politico e la stessa democrazia sono anche, se non soprattutto, scontro tra narrazioni diverse, tra interpretazioni differenti della realtà. Ma la rinuncia ad ogni ancoraggio oggettivo, e ad ogni criterio di verifica è un’ importante novità. Rappresenta un salto qualitativo, perché non può esistere democrazia senza tensione verso la verità.

Quando la realtà non è interpretata, ma abrogata, e sostituita da una narrazione immaginaria, la fisiologia democratica sfocia nella patologia.

Ciò che sta accadendo è che il racconto ideologico del mondo sta sostituendo il mondo stesso. E la negazione del principio di realtà a favore di una sua ricostruzione immaginaria introduce nei sistemi democratici un virus che può essere letale.

Per questo, la battaglia sulle narrazioni è essenziale per la salute delle democrazie.

Per fortuna, la realtà oggettiva resiste alla sua abrogazione: la striscia di Gaza ci ricorda che morte e distruzione non sono ancora stati aboliti da Gaza beach e dai suoi resort per milionari in cerca di abbronzatura; i bombardamenti su Kiev ci rammentano che lo scambio di ruolo tra aggredito ed aggressore non è ancora universalmente persuasivo. E che la vergognosa umiliazione di Zelensky subita nello Studio Ovale non è soltanto “una magnifica pagina di televisione”.

E tuttavia, la lotta tra narrazione immaginaria e dato oggettivo è in corso. Questa tensione è cruciale per la tenuta delle democrazie come sono state concepite nel corso degli ultimi secoli.

I nemici delle democrazie occidentali , i fautori delle democrazie illiberali lo sanno da tempo molto bene e si sono attrezzati per agire di conseguenza. Sanno perfettamente che inondare l’ecosistema informativo di fake news, di falsità, di “fatti alternativi” inquina profondamente le opinioni pubbliche, a loro volta essenziali per la salute delle democrazie.

La storia dell’ultimo decennio è ricca di esempi.

Prendiamo la campagna elettorale per la Brexit del 2016: nel Regno Unito, la narrazioni false sui soldi che gli inglesi versavano mensilmente all’UE si sono completamente sostituite alla realtà dei sostegni europei ricevuti. La capacità di amplificazione del Web e dei social le ha rese potenti e terribilmente efficaci. La prima elezione di Donald Trump è stata fortemente favorita da racconti immaginari sulla sua avversaria Hillary Clinton. Narrazioni complottiste come il Pizzagate o QAnon l’hanno trasformata nell’affiliata ad una potente setta di pedofili, persuadendo milioni di americani della loro verità.

Oggi, ad un decennio di distanza, siamo andati molto oltre: il ribaltamento narrativo della realtà oggettiva ha sfondato ogni limite. L’aggredito diventa aggressore; l’autoritarismo diventa baluardo della libertà e le democrazie diventano le soffocatrici del libero pensiero. E la svolta nella Presidenza USA ha potenziato fortemente questa tendenza

Si tratta di un gioco molto più raffinato di quanto possa sembrare a prima vista. Il “falso” non è dispensato a casaccio. E’ ben calibrato, plasmato su quelle strutture culturali e psicologiche di massa che gli conferiscono un’aura di verità.

Il grande storico Marc Bloch aveva studiato il fenomeno delle “false notizie” circolanti nelle trincee della prima guerra mondiale, cui aveva partecipato direttamente. Scrive in proposito: “Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita”.

Ciò che rende credibile una falsa notizia, che la fa passare per verità è già presente nell’immaginario collettivo prima ancora che sia diffusa. La sua capacità di catalizzare odio, risentimento, aspirazioni la potenzia. E a monte c’è il desiderio, condiviso da molti, che la falsa notizia sia vera.

Le considerazioni di Bloch risalgono ad un secolo fa, ma sono preziosissime ancora oggi. L’infowar contemporanea si basa proprio su questa conoscenza del nostro immaginario collettivo. I nemici della democrazia sanno benissimo chi noi siamo, quali sono le nostre frustrazioni, i nostri risentimenti, i nostri desideri. Ed è esattamente su questa base che introducono nel nostro spazio pubblico le loro narrazioni.

Per questo, la dimensione simbolica e narrativa è diventata il vero campo di battaglia, il terreno di scontro cruciale. L’infowar – che ha attraversato la storia – è oggi centrale come mai prima e, soprattutto, appare decisiva per la tenuta delle liberal-democrazie, sottoposte ad un attacco mai così violento nell’ultimo ottantennio.

E’ indispensabile che chi ha a cuore il destino delle democrazie ne sia consapevole: il gioco in cui siamo immersi è feroce, sofisticato e non si combatte solo con le armi da fuoco per l’occupazione di territori, come in Ucraina.

Altrettanto decisiva è la conquista del nostro immaginario, la colonizzazione delle nostre menti.

Massimo Rostagno

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*