Sarà certamente scorretto, o apparirà come tale ai più, che un non iscritto al Partito Democratico, e non simpatizzante da sempre per tale forza politica, commenti l’ultima sconfitta elettorale di tale compagine in una competizione elettorale nazionale, e faccia osservazioni sul suo relativo travaglio interno. Tuttavia, chi si ritiene, come si ritiene il sottoscritto, un militante impegnato nella vita politica della sinistra, non può restare indifferente agli accadimenti politici più importanti, e la sconfitta del PD alle politiche di settembre non può che essere ritenuto che come un evento caratterizzante, da qualsiasi posizione politica si osservi il fenomeno. Non volendo, chi scrive, dilungarsi oltre e evitare i nodi problematici, mi affretto subito ad affermare che una sconfitta delle dimensioni e del significato politico verificatosi nelle urne del 25 settembre scorso, non può essere affrontata con una discussione stancamente rituale o come se si trattasse di un semplice incidente di percorso. Il risultato elettorale ci consegna un paese disaffezionato alla politica, in cui una destra, minoranza nel paese ma dominante nei voti validi e culturalmente egemone, riduce a poca cosa l’alternativa democratica e il suo campo, diviso fra varie forze, più spostate a sinistra o contrariamente al centro, fra le quali il Partito Democratico non è che una componente fra le altre del mondo progressista, per consistenza elettorale non nettamente prevalente e profondamente divisa nella direzione politica e nelle identità di fondo. Ecco, quindi già esplicitata, la ragione di fondo per la quale è impossibile affrontare il momento politico attuale per il PD con un approccio che minimizza gli eventi e i rischi della fase, utilizzando gli strumenti consueti che questa compagine è solita porre in campo dopo un rovescio elettorale. Ne deriva la necessità di un congresso vero, rifondante, da svolgersi non come un inutile votatoio che elegge il solito leader, ma semmai utilizzando tutti gli strumenti partecipativi che un tempo consentivano il più ampio coinvolgimento del corpo militante.
Tuttavia, la direzione democratica della settimana scorsa, fatte lodevoli eccezioni, ha denotato un partito ripiegato su sé stesso, dedito ha ricercare scusanti per ogni mancanza nell’azione politica e poco avvezzo a comprendere le vere ragioni di un continuo calo di militanti e di voti in vari settori della società. Chi scrive ha maturato nel tempo la piena convinzione che i problemi del PD sono insiti nella creazione stessa del partito, vizi di origine che possono essere corretti con una discussione che pone in questione le ragioni fondative della compagine. Mi riferisco alla cultura politica di fondo del Partito Democratico e alla sua natura organizzativa. Partendo da quest’ultima, le analisi veramente encomiabili di Antonio Floridia hanno messo in luce come i meccanismi statutari del PD siano espressione di una cultura del leader e del capo solo al comando, che impediscono di consolidare un gruppo dirigente che sia espressione delle varie anime del partito e che dia solidità alla azione politica unitaria. In sostanza, la elezione diretta del segretario, in primarie aperte in maniera indiscriminata a tutto l’elettorato, sono un esempio di una visione presidenzalista e leaderistica della politica, a tratti vicina alle culture populiste che il PD tanto contesta in altre sedi. In sostanza il PD è una forza politica che si è sempre definita ‘scalabile’ e ‘contendibile’, come se queste espressioni, mutuate dal codice verbale economico aziendale, delineassero il profilo di una organizzazione posta sul mercato a disposizione del miglior offerente, dato che ciò che importa non pare sia l’obiettivo sociale prescelto strategicamente, ma semmai il bisogno tattico di allargare a dismisura il consenso per essere il ‘partito del governo’ e di conseguenza sempre al governo. Un partito ‘pigliatutto’, come lo definisce la moderna politologia, o un partito del sistema per dirla in altri termini. Ma se così è, vanno allora fatte due considerazioni: una relativa strettamente ai meccanismi congressuali, ovvero che il congresso svolto con le primarie non consentirà mai a questo partito di discutere veramente sé stesso e di riformarsi, ma semmai lo trascinerà stancamente alla ripetizione di vecchi riti fino alla consunzione delle proprie forze.
La seconda considerazione è relativa alla natura di partito ‘pigliatutto’ di cui sopra; un partito che vuole il consenso di tutti i ceti sociali per essere centrale nella formazione di tutti i governi non può che entrare in crisi se il consenso continua a calare fino a spingerlo alla periferia del sistema politico, ovvero, a svolgere un ruolo subalterno.
La natura organizzativa del PD è il riflesso dei suoi problemi di cultura politica mai risolti e mai veramente esplicitati. Il PD è nato sulla considerazione storica che non solo il movimento comunista, ma anche il movimento socialista e operaio in senso lato erano destinati ad essere archiviati dopo l’89’. Ciò che restava sul terreno, secondo i maggiori fondatori del partito, ( Prodi, Veltroni, Rutelli), era la società liberale di mercato, e l’esigenza di rendere più giusta la distribuzione del sovrappiù creato dalla globalizzazione economica. Vi erano solo problemi di rispetto delle forme istituzionali della democrazia rappresentativa, e problemi di equità sociale, relativi al problema di non lasciare troppo indietro gli ultimi. Nessun conflitto di classe, nessun ripensamento sul capitalismo, solo un attenta manutenzione del sistema dato. I fatti degli ultimi quindici anni hanno smentito via via questa impostazione ideologica. Impostazione ideologica che si sposava con la forma partito scelta, interclassista nel rivolgersi alla società, che superava il modello del classico del partito di massa del movimento operaio per diventare il partito di ‘tutti gli elettori’ e del capo che veniva delegato dal popolo delle primarie. Una visione pienamente populista e presidenzialista della democrazia che cancellava la esperienza dei partiti di massa di classe ritenuti residuo inutilizzabile del Novecento.
Tuttavia, questa visione lineare dello sviluppo delle società di mercato, come sopra accennato, si è scontrata con una realtà più complessa, che rimette in gioco l’esigenza di modificare il funzionamento del capitalismo in settori non secondari, di ripensare il modello di democrazia rappresentativa e i rapporti fra le classi che ne è alla base, e infine, il rapporto fra l’Occidente e il resto del mondo, dovendo scegliere fra un posizione politica che accetta una condivisione delle risorse a livello mondiale e delle responsabilità rispetto ad un ordine mondiale, e un’altra che tende, attraverso lo strumento indiscriminato della guerra, a ripristinare un dominio delle grandi potenze anglosassoni sull’intero globo.
Credo sia chiaro, da tutto ciò espresso sopra, che il Partito Democratico non deve sostituire un segretario e il suo staff con un altro segretario seguito da relativo staff, e non deve semplicemente discutere del suo assetto tattico del momento, come comunque ha chiesto meritatamente l’ex ministro Orlando, purtroppo risultando voce isolata in direzione di giovedì sei ottobre scorso, ma semmai ha l’esigenza di ridiscutere le ragioni stesse della sua fondazione politica, i fondamentali si sarebbe detto un tempo. Riuscirà il PD ad andare a fondo della sua crisi? Nelle cronache dei prossimi mesi avremo una risposta a questo quesito.
Alessandria 16-10-22 Filippo Orlando.
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