Filosofia e pandemia

Ho letto con vivo interesse il saggio dell’amico Giuseppe Rinaldi Novax. Gli ultimi eredi della filosofia occidentale (20 gennaio), e anche la breve replica di un’altra mia vecchia amica, un tempo mia allieva, Patrizia Nosengo, Piove, filosofia ladra! (22 gennaio). Ma non intendo essere terzo nella diatriba tra amici perché ho sempre sostenuto che tra noi “assidui” di Città Futura (da quando la fondammo vent’anni fa), le polemiche personali non siano quasi mai costruttive, e che se uno legge un articolo e non concorda, è meglio che intervenga sugli stessi temi dicendo puramente e semplicemente come la pensa lui (o lei) in proposito. L’ho detto molte volte e lo ribadisco. Perciò proverò a ragionare sugli stessi temi a modo mio.

Io pure affermo che vi sia un forte legame tra filosofia e Storia (intesa proprio come Storia évenementelle). Ma ritengo che si debbano evitare come la peste le eccessive semplificazioni, come ad esempio il connettere la filosofia ai novax. Una cosa è la critica più o meno rigorosa allo scientismo e un’altra la fede nelle panzane. A volte i due piani si contaminano, ma è accaduto in tutte le tendenze del pensiero e in ogni tempo. In proposito si potrebbero fare molti esempi.

Il nesso tra ogni grande filosofia e la vita sociale è forte, ma guai a isolarlo da tutto il resto. Certo le filosofie contano, e infatti molti tra noi sarebbero diversi, e anzi diversissimi, da quel che sono, se nella loro vita non avessero incontrato certi filosofi che hanno inciso come sulla cera sul loro pensiero: un pensiero che non è stato solo modellato da questo o quel filosofo, ma che interagendo col vissuto ha un enorme ruolo, È valso e vale per innumerevoli persone.

La filosofia, del resto, non è una cosa solo per addetti ai lavori. Ce l’aveva ben detto Gramsci nei Quaderni del carcere, quando aveva affermato: “Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono ‘filosofi’, definendo i limiti e i caratteri di questa ‘filosofia spontanea’, propria di ‘tutto il mondo’, e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, modi di vedere e di operare che si allacciano in quello che generalmente si chiama ‘folclore’.”[1]

Ma se è vero che tutti – ciò posto – si formano una concezione del mondo, per quanto rozza (una filosofia), bisogna poi capire come e perché la cosa avvenga in un modo piuttosto che in un altro. Il dire che accade solo perché hanno letto un libro invece che un altro sarebbe banale; in realtà ci si ferma, interiorizzandoli per anni e anni o per sempre, solo su libri che corrispondano ai bisogni: individualmente e tanto più collettivamente. Il credito che vien dato a un’idea più che a un’altra collettivamente, e pure individualmente, va insomma spiegato. Se noi non cerchiamo l’origine pratica delle idee – le quali o derivano dalla prassi sociale (Marx) o “in ultima istanza” ne sono sempre profondamente condizionate – trasformiamo la relazione delle teorie con la prassi in partenogenesi. Non so se abbia senso chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina (anche se io “tengo per la gallina”, il “soggetto” che fa l’uovo), ma certo c’è un profondo legame tra motivazioni dottrinarie (“ideali”, filosofiche) della prassi, motivazioni pratiche (pratico sociali) delle dottrine (“ideali”, filosofie), e pure tra motivazioni antropologiche (psicologico profonde) e dottrinarie (“ideali”, filosofiche) e motivazioni pratiche. Ora, se lo si faccia, a mio parere emergono soprattutto le seguenti cose.

Intanto, se la paura collettiva fa 90, emergono credenze che il razionalista puro direbbe magiche, come quando gli uomini in mezzo alla tempesta si mettevano tutti a pregare a gran voce, e come vediamo anche osservando le immaginette di padre Pio nelle stanzette dei malati di tumore maligno. Così, quando la situazione appaia gravissima, tornano credenze “irrazionali” o, correlativamente, ricerche del capro espiatorio, ma pure del salvatore carismatico. Chi ha fatto scoppiare la peste a Milano? Rileggiamo I promessi sposi (1827) di Alessandro Manzoni[2] a proposito dei “monatti”. Lì c’era persino un sarto, preteso filosofo, che riteneva la peste impossibile mente i cittadini morivano in gran numero. Ma queste assurde credenze in condizioni di improvvisa disperazione sociale sono tante. Chi ci mette in miseria? “Saranno i banchieri ebrei”, hanno pensato molti poveracci in tali circostanze, innescando fenomeni sociopolitici terribili. O “quelli di Wall Street”, credono certi “marxisti”, senza pensare o citare più la razza delle sanguisughe della banca mondiale. Perché ci sono tutti questi scioperi? “Non è perché la gente stia male, ma perché i comunisti, o i marxisti, pescano nel torbido”. Perché arrivano gli immigrati? “Per rovinare la civiltà”. E così via di scemenza in scemenza, alla ricerca di cause immaginarie e di colpevoli immaginari di un male di vivere fattosi insopportabile o comunque davvero fastidioso, per lo più contrapposto a un buon tempo anteriore, che poi magari non era stato neanche migliore per davvero. Correlativamente viene pure inventata, non dal “duce”, ma dal popolo improvvisamente oppresso, che in tal caso “lo investe”, la figura del capo carismatico, profeta salvatore, come ha mostrato bene Max Weber in Economia e società (1922).[3]

Se la situazione è catastrofica, tanto che le idee razionali non funzionano più, almeno per quel che si può capire, l’uomo normale invece di rassegnarsi e aspettare, e continuare a cercare la soluzione razionale, che pure sarebbe preferibile perché funziona solitamente di più, ricorre al pensiero irrazionale. Secondo me facciamo necessariamente tutti così, sapendolo o non sapendolo, volendolo e non volendolo, naturalmente in modo più rozzo o più mediato, raffinato e motivato. Una soluzione bislacca è preferita a una non-soluzione, se si sia davvero in condizione durevolmente spiacevole, specie se questa condizione spiacevole arrivi all’improvviso, dall’esterno, e paia irrisolvibile, o comunque sia a lungo irrisolta: perché l’uomo disperato se non trova la risposta razionale ne sceglie una irrazionale.

Questa tra l’altro, secondo me, è la vera ragione per cui le religioni ci sono state e ci saranno sempre, e quando fallisce una religione uno, senza saperlo, se ne fa un’altra. Infatti si basano su una catastrofe irrisolvibile, che è pure la prima fonte dell’interrogazione filosofica: la morte. Le religioni sperano di porvi rimedio. E quindi aveva torto Freud nell’Avvenire di un’illusione (1927)[4] a vedere la religione come un’illusione senza avvenire, e Marx nell’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1844)[5] a vedere la religione come “oppio dei popoli”, da superare per accedere ad una vita beata senza classi e senza Stato: nel senso che non foss’altro perché “si muore” la religione rinascerà sempre: perché l’uomo preferisce l’immaginario all’assenza di risposte; e fa bene perché le cose non sono mai sicure come appaiono, almeno sui problemi ultimi. Ci sono religioni persino senza Dio, come il buddhismo, ma all’idea di una mente che vince la morte l’uomo “religioso” non può rinunciare (e forse non può rinunciarvi l’uomo tout court). Spesso lo fa, ma non fa un grande affare da un punto di vista psicologico. La morte è una catastrofe individuale fatale, e ciascuno spera che dopo “ci sia qualcosa”. Sembra che cresca in materia di religioni il “fai da te”, la religione a propria misura, strutturata o anche solo intuitiva: ma non l’ateismo. Lo sostiene ad esempio Ulrich Beck[6].

Ma la cosa funziona così anche per le catastrofi collettive. Quando ci sono grandi catastrofi collettive si generano le idee più strane. Ma questo – ecco il punto da non perdere mai di vista – accade in modo minimamente significativo alla scala storica solo se le catastrofi siano per lungo tempo veramente senza soluzioni razionali. Siamo da sempre meno irrazionali di quel che si creda, anche se abbiamo pure forti sentimenti ed emozioni che giocano sempre a palla con la ragione.

Qui io introdurrei una distinzione. C’è sempre un 10% di gente di assai corta visuale nelle società umane, Senza cadere nell’elitismo o aristocraticismo o superomismo spinti, credo che lo si possa riconoscere. Oltre sessant’anni fa lessi per la prima volta i Saggi sulla concezione materialistica della storia di Antonio Labriola (del 1895-1901), che conteneva un saggio di Benedetto Croce intitolato Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia.[7] Croce vedeva in Antonio Labriola, da cui pure verso il 1898 si era staccato, un suo grande maestro. Ma pensando alla vis polemica di Labriola verso i primi, tra l’altro grandissimi (ma dilettanteschi e un po’ pasticcioni), socialisti, diceva che Labriola “non aveva il flegma filosofico necessario a comprendere il ruolo degli imbecilli nella storia”. (Sto citando a memoria, ma credo esattamente). Ora questi “rozzi” ci sono e saranno sempre. Sono quelli di cui parla Rinaldi, che credono che la terra sia piatta, o che non siamo mai sbarcati sulla luna, o che le torri gemelle di New York siano state fatte saltare in aria dagli americani stessi per avere la scusa per invadere il “povero” Afghanistan (ci credeva nientemeno che un importante inviato della “Stampa” in Russia, amico di Gorbaciov, e certo non stupido, di Acqui Terme, Giulietto Chiesa), oppure che la pandemia sia stata creata ad arte per poi iniettare diavolerie nel sangue del genere umano. Certo anche qualche filosofo alla scala storica minore può bersi panzane (in realtà non proprio come quelle citate, ma “contigue”); e anche questo è sempre accaduto, come ad esempio in certi grandi protosocialisti come Proudhon con gli ebrei e le donne[8], oppure in de Maistre verso la Rivoluzione francese o i giacobini nel 1796[9], o Julius Evola verso tutta la Modernità (1934 e 1953).[10] Anche noi di sinistra abbiamo “i nòster”. Questo è sempre accaduto ed è fatale, come la presenza dell’esigua minoranza svitata (ci sono sempre stati svitati pure di grido, oppure geniali che talora hanno fatto gli svitati in questo o quel momento della loro vita, come capita pure nelle migliori famiglie).

Ma questi “svitati”, minorance négligeable della storia, diventano pericolosi solo quando si danno catastrofi che sembrano irrisolvibili, tipo le guerre mondiali o il loro immediato dopoguerra, o la grande crisi del 1929. Allora l’uomo del sottosuolo può talora diventare uomo del destino. L’accattone d’anteguerra dei bassifondi di Vienna può allora diventare il grande dittatore della Germania. E persino in America avrebbe potuto capitare senza il New Deal di Roosevelt. La cura contro la catastrofe è evitarla o risolverla. Altrimenti, se fallisce il medico o lo scienziato, arriva “il mago”; fallendo la risposta razionale l’uomo la cerca “irrazionale”. Forse accade così in ciascuno di noi, compresi i tipi più “tosti”, che pure non l’ammetterebbero mai. Tra l’altro Rinaldi dimostra che questo non accade solo a destra, come per il Lukàcs della Distruzione della ragione (1954)[11], ma anche a sinistra, pure oggi. Naturalmente le idee che possano generalizzare tali orientamenti sono non già quelle dei veri filosofi: di solito si danno in forma di intrugli, ossia imbastardendo le filosofie quanto basta, e anzi molto di più.

Questo però non è oggi lo stato dell’arte, né in materia di Covid né nell’economia reale. C’è una crisi della ragione un po’ più forte del solito (il predetto 10% sarà magari diventato 12%, per così dire).

Prendiamo il caso dell’Italia. Il 90% si è vaccinato, magari un po’ strattonato come sempre accade quando è necessario avviare “i più” su una nuova strada necessaria. Quindi gli irrazionali sono più o meno i soliti, appena un po’ più rumorosi. Non solo: la scienza nel mondo, a proposito del Covid, ha ottenuto una straordinaria vittoria collettiva perché questa volta – ovviamente in modo imperfetto come uno che debba correggere il risultato di continuo – la scienza inventa soluzioni al male mentre esso si manifesta.

Non solo. Avevamo, e in parte abbiamo, un’Unione Europea molto molto malata. Ma da un momento all’altro ha messo sul piatto mille miliardi di euro di prestiti disponibili, tramite la BCE, da restituire in cinquant’anni per far fronte al disastro economico del Covid (mica noccioline: più che nel Piano Marshall dopo il 1945). E allora perché fasciarci la testa?

Invece ritengo “quasi catastrofica” la relazione mondiale tra le potenze, in cui effettivamente una nuova destra con basi di massa, detta “democratura”, sta dilagando, tanto che Trump era andato al potere; e senza inadeguatezza verso il Covid, che lo colse in contropiede, sarebbe ancora alla Casa Bianca (e forse tornerà, lui o chi per lui); e poi c’è Putin, una specie di Mussolini russo; c’è l’Ungheria, c’è la Polonia, c’è la Turchia, c’è una destra democratica, ma populista e sovranista, virtualmente maggioritaria in Italia.

Ma la soluzione non è quella di spiegare a tutti “questi qua” e ai loro seguaci che sono dei neo-nazionalisti spudorati, o dei semiautoritari deplorevoli, o dei liberisti assatanati e così via (anche se lo sono): non perché non sia “giusto”, ma perché non funziona. Consiste, invece, nel risolvere i problemi che li hanno resi tali in così gran numero.

La soluzione è la difesa del lavoro nel mondo, aggredito nel suo valore e nella sua stabilità dalla globalizzazione dell’economia mondiale, che pone tutto e tutti, nell’era dell’elettronica e delle comunicazioni, in concorrenza con tutto e tutti: il che porta le sue vittime reali o possibili, come all’inizio di ogni svolta epocale del genere dalla prima rivoluzione industriale o da Napoleone ai giorni nostri, a voler tornare indietro: oggi ai vecchi Stati nazionali sovrani, coi loro vecchi Welfare “cattosocialisti”, messi in crisi dalla Storia del mondo-uno in cui siamo stati gettati: mentre realisticamente si dovrebbe andare a “Stati di Stati”, federalisti, grandi come continenti e un giorno come il mondo: però più facili da teorizzare che da fare.[12]

E, per fermare o diminuire fortemente gli immigrati, si dovrebbe investire davvero in Africa, come solo i cinesi, con una sorta di “Compagnia dell’Africa” (invece di quella “delle Indie” di una volta del capitalismo inglese), fanno: perché in mancanza di arresto della folla degli immigrati, che l’immaginario ingigantisce ulteriormente, grandi masse di cittadini di vecchia data dei paesi più sviluppati, che si ritengono “invasi”, si chiudono a riccio e pretendono che si sbarrino i confini della “patria”: ossia diventano di destra populista. Si dovrebbe distribuire equamente tra Stati dell’Unione Europea il flusso degli immigrati, che non si potrà mai fermare.

Si dovrebbero rinnovare le idee dei partiti di sinistra perché senza partiti veri la democrazia moderna è fatalmente soppiantata come minimo dalla “democratura”.

E si dovrebbe affrontare in termini riformisti l’ineludibile problema della governabilità degli Stati.

E si dovrebbe soprattutto operare per il compromesso tra grandi potenze invece di scherzare col fuoco, come fanno Putin e Biden sull’Ucraina a rischio di scatenare una grande guerra europea.

Se non si riesce – più o meno – a fare tali cose “progressive”, non bisogna stupirsi che prevalgano idee detestabili, regressive, irrazionali e miracolistiche, che però non si affermano al di là del solito 10% di “teste frasche” perché la gente sia rincretinita (a causa di cattivi maestri “irrazionalisti”), ma perché essa non trova soluzioni razionali praticabili o praticate in campo, che pure preferirebbe (almeno per quieto vivere, e perché essere più liberi piace a tutti). E infatti quando queste soluzioni le trova, come su vaccini e ripresa economica, i “ragionevoli” prevalgono di gran lunga sugli “irrazionali” e “balenghi” d’ogni ordine, grado e schieramento.

Non è il sonno della ragione a generare mostri, come nel famoso quadro di Goya, ma è l’impotenza della ragione nel risolvere i problemi drammatici a generare mostri. Abbiamo bisogno di una ragione “potente”; se no “gli altri” prevalgono, per quanto siano alti i lai degli illuministi amici della ragione e delle sue – loro sì – “magnifiche sorti e progressive”. Tanto che persino nella CGIL sembra che ci siano molti iscritti leghisti. Se non passano “i nostri”, infatti, passano gli altri. Ma perché passino i “nostri” bisogna vincere “la prova del budino”, che, come dicevano gli operai inglesi al tempo di Marx, “consiste nel mangiarlo”. Ma qui spesso non c’è neanche il budino.

Tuttavia dobbiamo anche cercare le motivazioni non solo figlie della disperazione, ma pure della ricerca della buona soluzione, negli ambiti concettuali di cui ci stiamo occupando. E ciò per ragioni storico-pratiche di enorme rilievo, in vista di finalità niente affatto irrazionali. Insomma, nella ricerca ed espressione di idee che in base al modello di scienza dominante appaiono più o meno distorte, non dobbiamo solo cercare il frutto dell’idiozia, o fosse pure della paura, ma anche vedervi dieci, cento e mille tentativi di trovare soluzioni a problemi effettivamente terribili che in base al paradigma, oltre che sistema, dominante – illuminista, neo-illuminista, matematico sperimentale, o meccanicistico, o come ci piace – paiono insolubili. Dobbiamo insomma cercare pure la motivazione razionale forte di idee che poi razionali non risultino, o meglio non ci appaiano, o non appaiano o non siano ancora tali. Altrimenti diventiamo troppo “ingiusti” col nostro prossimo, credendo di avere la verità in tasca mentre la nostra “scarsella” è totalmente vuota (o quasi).

Il modello di scienza da Galileo in poi è stato di matematizzazione del reale e meccanicistico. Il risultato è stato un approccio non dico immorale, ma amorale. Persino nel campo delle scienze sociali la non “valutatività”, a partire da Max Weber, è parsa un valore.

Questo modello scientifico dominante ha tanti aspetti eccellenti. Ad esempio non è che i vaccini o domani la medicina contro il Covid siano venuti o verranno in un altro modo. E se in bocca non abbiamo più orride dentiere sappiamo chi ringraziare. Se è possibile cambiare tanti pezzi del corpo – persino le gambe – come fossimo un’automobile, è perché quel modello meccanicistico funziona e “porta bene”.

Ma questo modello, connesso strettamente con l’economia dominante, che non solo lo usa (col famoso “uso capitalistico della tecnica”), ma sembra connettervisi intimamente, ha pure generato il contesto per cui fare guerre con milioni di morti (cinquanta milioni nella seconda guerra mondiale), che quasi certamente a un dato punto potrebbero essere di miliardi di morti, diventa normale o comunque possibile; o lo è distruggere specie viventi in continuazione; o devastare la terra come fosse un mucchio di spazzatura; o distruggere foreste per fare pascoli; o rendere irrespirabile l’atmosfera; o riempire di plastica i mari; o bucare lo strato di ozono creando l’effetto serra. E oggi, quando ormai si capisce quel che sta accadendo, questa catastrofe risulta essere una cosa difficilissima da fermare davvero in mancanza di uno Stato mondiale, anche minimo, che possa punire i paesi che non rispettano gli impegni in materia di diminuzione progressiva dell’inquinamento. Secondo me tra un secolo avremo uno Stato mondiale, direi “necessariamente”, proprio per tali ragioni, ma probabilmente accadrà dopo catastrofi inimmaginabili. Solo uno Stato mondiale potrebbe essere legislatore universale. Ma se ciò accadrà tramite il federalismo democratico prima continentale e via via mondiale oppure tramite chissà quali stati-impero autoritari, e dopo chissà quali eventi apocalittici, non si sa. Certo operare per il federalismo democratico sarebbe la via della ragione. Ma se fallisce o fallisse, dove si andrà a finire? Su ciò io provai a interrogarmi pochi anni fa nel mio romanzo distopico Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo.[13]

Ora molti, e quasi tutti questi problemi, hanno dato luogo sin dall’inizio alla ricerca di una scienza che non tenesse fuori dalla porta sensazioni, sentimenti, intenzioni e così via (ossia che non fosse “senza soggettività”, senz’anima). Negli ultimi anni Fritjof Capra, sempre alla ricerca di un altro paradigma di scienza, che sia spirituale oltre che – o invece che – meccanicistico, ha provato a rivalutare Leonardo da Vinci, il cui sapere scientifico aveva tratti per così dire animistici, opponendolo, come un’altra via possibile ma interrotta, al modello meccanicistico galileiano (e poi newtoniano e einsteiniano), in: La scienza universale. Arte e natura in Leonardo da Vinci[14].

Ma tutta questa linea di pensiero ha come punto di partenza vero Goethe, tra fine del XVIII e primi tre decenni del XIX secolo, che si considerava scienziato, oltre che poeta, tanto che dieci volumi dell’Opera omnia sono di tal genere, e che scoprì persino l’osso intermascellare, ed elaborò un’interessante teoria dei colori. La sua visione della natura che si svolge come organismo da idee archetipiche, e la sua teoria dei colori, e la visione sotterraneamente animistica[15] sono riprese non solo da Schopenhauer, ma da Schelling e da Hegel. Suo grande amico era il massimo botanico ed esploratore del suo tempo, Alexander von Humboldt, cui è intitolata l’Università di Berlino. I due erano fieramente contro la visione meccanicistica del mondo di Newton.

Analogamente si muoveva, nel XX secolo, Henri Bergson, che aveva una testa da scienziato di primo livello, nell’Evoluzione creatrice[16], nel 1907 e nei decenni successivi. Si può dire che Goethe stia a Newton come Bergson sta a Einstein. E infatti Bergson ebbe un vero confronto con Einstein al College de France nel 1922, come risulta dal suo Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein[17]. Questa posizione è stata poi ripresa da Teilhard de Chardin – gesuita, teologo, filosofo e in particolare paleontologo, tra gli scopritori dell’”uomo di Pechino”, la cui opera fondamentale è Il fenomeno umano (1936/1940, ma 1955)[18]. Di questo grande gesuita, cui la chiesa di Pio XI e XII chiuse letteralmente la bocca per tutta la vita e che dopo il concilio Vaticano II è diventato autore di cui si pubblica l’Opera omnia, anni fa mi sono occupato qui nel 2010[19].

Di lì si arriva poi ai filosofi e scienziati dell’ecologia profonda, come il norvegese Arne Naess, il poeta e buddhista americano, uomo di punta della Beat Generation, Gary Snyder, figura interessantissima, e come il fisico delle particelle Fritjof Capra, a partire dal suo Tao della fisica (1975, Adelphi, 1982)[20]. Su ciò rinvio pure al mio libro del 2000 Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo.[21]

Ora tutti questi pensatori non sono “cani morti”. Io credo sì che la loro ricerca non sia riuscita, o non sia ancora riuscita – nonostante le molte cose che Capra documenta stupendamente tramite il racconto di grandi conversazioni con quelli che considera “uomini straordinari” già esponenti di un nuovo paradigma razionale, o di una nuova scienza, “en marche”, in Verso una nuova saggezza (1988 e Rizzoli 1988) – a darci un nuovo modello di scienza: per cui – a quel che penso – ritengo saggio attenerci all’altro sin qui prevalso; ma a mio parere questa ricerca non va minimamente scoraggiata, tanto più dopo la scoperta dell’indeterminismo da parte di Heisenberg, che ha messo in crisi l’unicità del modello anteriore. Questa ricerca del resto ha senso sin dal tempo dell’empiriocriticismo della fine del XIX secolo, per cui si può leggere il pionieristico libro di Massimo Cacciari Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Einstein (1976)[22].

Ma a parte ciò ci sono le scienze umane più contigue alla filosofia, come la stessa psicologia analitica, che io particolarmente apprezzo. Esse ci portano a un universo “altro” da quello scientifico puro, in cui scienza e saggezza si scambiano la stecca, e che ha un carattere soprattutto interiore, attinente la sfera più interiore dell’essere umano. Lì fenomenologia (di Husserl), filosofie dell’esistenza (da Kierkegaard e Nietzsche a Heidegger e oltre), fenomenologia delle religioni (da Rudolf Otto a Mircea Eliade o Philippe Riès), per non parlare delle filosofie e pratiche meditative orientali, sembrano connettersi e avere un grande senso quantomeno per la nostra vita interiore, personale e anche collettiva. Riconosciamo pure che tutte queste tendenze sono esposte al rischio concettuale di porsi con la scienza dura e pura in una relazione di aut aut invece che di “et et”, come io auspico e ritengo totalmente possibile. Ma nei tanti casi in cui ricercano e sperimentano, ininterrottamente e a mio parere creativamente mantenendo ben distinto l’ambito motivazionale, percettivo profondo, interiore, morale spirituale ed eventualmente religioso, dal resto (ossia dalla sfera più oggettiva o oggettivabile sperimentalmente), perché dovremmo guardarli con grande sospetto invece che con grande interesse?

E qui mi fermo perché il ragionare mi ha un poco preso la mano, ma, tanto per farmi la réclame, rinvio pure al mio libro uscito un mese fa: Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale, che con tutto ciò ha molto a che fare[23].

di Franco Livorsi

  1. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, II. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. A cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, II vol., “Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, Quaderno 11 (XVIII), 1932.1933, p. 1375.
  2. A. MANZONI, I promessi sposi (1827, a cura di E. Ghidetti, Feltrinelli, Milano, 2003
  3. Comunità, Milano, 1968.
  4. S. FREUD, L’avvenire di un’illusione (1927, e Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
  5. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), in: Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, pp. 125-142.
  6. U. BECK, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Laterza, Roma-Bari, 2009.
  7. Laterza, Bari, 1930.
  8. J. PROUDHON, Pornocrazia, dopo il 1868, a cura di C. Caldarola e R. Licinio, Dedalo, Bari, 1979.
  9. J. de MAISTRE, Considerazioni sulla Francia (1796), e a cura di G. Vignelli, Il Giglio, Roma, 2010.
  10. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano, 1934; Gli uomini e le rovine, L’ascia, Roma, 1953.
  11. G. LUKÀCS, La distruzione della ragione (1954 e Einaudi, 1959)
  12. Su ciò si vedano soprattutto: C. MALANDRINO – S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storie e prospettive, Carocci, Roma, 2020; L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2006.
  13. Moretti & Vitali, Bergamo, 2014.
  14. Rizzoli, Milano, 2007.
  15. W. GOETHE, Teoria della natura, a cura di M. Montanari, Bollati Boringhieri, Torino, 1958. Si confronti con: AA.VV., Goethe scienziato, a cura di G. Giorello e A. Grieco, Einaudi, 1998.
  16. A cura di F. Polidori, Cortina, Milano, 2002.
  17. A cura di F. Polidori, Cortina, 2004.
  18. P. TEILHARD de CHARDIN, Il fenomeno umano (1936/1940, ma 1955), a cura di F. Mantovani, Queriniana, Brescia, 1995.
  19. F. LIVORSI, Il gesuita “proibito” e il gesuita “rimosso”, Riflessioni su un libro di Teilhard de Chardin, “Città Futura on-line”, 11 marzo 2010.
  20. 1975 e Adelphi, Milano, 1982.
  21. Giuffré, Milano, 2000.
  22. Feltrinelli, Milano, 1976.
  23. Golem Torino, 2021.

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