Il futuro presidenziale della leadership

All’elenco di riforme annunciate da Mario Draghi, ne manca soprattutto una: il tempo istituzionale per realizzarle. Pochi dubitano – per il momento – delle qualità, tecniche e politiche, dell’italiano rinascimentale capace di incantare il paese, e forse addirittura di cambiarlo. Ma – per un mix di pudore, scaramanzia e paura – nessuno sembra avere il coraggio di chiedersi quanti mesi e anni occorrano per mettere in cantiere – non diciamo per realizzare – il programma così accuratamente snocciolato davanti al Parlamento, e agli italiani.

Prescindendo da trappole suicide che i partiti possano, perfino inconsapevolmente, improvvisare, il percorso dell’esecutivo dovrebbe arrivare alla scadenza fatidica dell’elezione del nuovo Capo dello stato. Ciò che avverrà dopo, è un’incognita. Nessuno è in grado oggi di prevedere che terremoto si scatenerà tra le macerie di un ceto politico ridotto – soprattutto a sinistra – allo stremo di risorse e di idee. E, quel che è peggio, di leadership. Sappiamo solo che sarà il nuovo Presidente ad avere in pugno le chiavi di quando e come sciogliere la legislatura. E non si tratta di chiavi da poco, visto l’attaccamento alle poltrone che deputati e senatori hanno mostrato, e mostreranno fino all’ultimo. Sarà Draghi stesso a salire al Colle? Molti, senza dirlo, se lo augurano. Ma in quel caso, a maggior ragione, il suo esecutivo avrà termine e uno nuovo avrebbe soltanto il compito di gestire rapidamente le urne. Se non andasse Draghi al Quirinale, essendo – per riconoscimento unanime – oggi a Palazzo Chigi su mandato esplicito di Mattarella, rimetterebbe molto probabilmente il suo incarico nelle mani del nuovo inquilino. E, al di là delle migliori intenzioni, si aprirebbe un’altra crisi al buio.

Perché in Italia succede tutto questo? Perché sembriamo condannati a cicli – sempre più brevi – di commissariamento del parlamento per opera di un Capo dello stato costretto a intervenire? Suo malgrado e ai limiti delle proprie prerogative costituzionali, svolgendo – nei fatti – un ruolo assimilabile a quello semipresidenziale su cui si fonda la Quinta repubblica francese. Lo schema inaugurato con Giorgio Napolitano e Monti, si è ripetuto, meno di dieci anni dopo, con Mattarella. Succederà di nuovo tra un anno, coi partiti costretti a ingoiare di nuovo una Enorme Coalizione per l’incapacità di esprimere – da destra o da sinistra – un premier legittimato dal popolo? La risposta a questa domanda è – terribilmente – semplice. La democrazia contemporanea si fonda, in tutto l’Occidente, su una forte investitura del leader. Che si tratti di Presidenti o Premier, leadership partitica e leadership istituzionale si fondono in un’unica figura. Ed è questa fusione a conferire quel minimo di stabilità che consente – pur nella strutturale volatilità delle opinioni che segna la nostra epoca – di programmare e portare avanti politiche di più lungo periodo. Nonché di tenere a bada le correnti e tendenze centrifughe proprie, oggi, di ogni partito. I democratici americani sono, se possibile, perfino più frammentati di quelli nostrani. Ma nella battaglia campale per la conquista della Casa Bianca si sono uniti come una falange. Ed è facile immaginare cosa succederebbe della Francia se non ci fosse il doppio turno con elezione all’Eliseo a mettere forzatamente insieme le fazioni litigiosissime dei due campi in lizza.

Certo, messa così, il problema appare irrisolvibile. Ma, guardando in faccia la realtà, otterremmo almeno due risultati. Smetteremmo di chiedere ai partiti di rifondarsi e riorganizzarsi. Non sono in grado – storicamente – di farlo. E la cornice costituzionale attuale non li agevola, anzi li ostacola. Cominceremmo, inoltre, a guardare con meno pregiudizi all’ipotesi che qualcuno possa, finalmente, provare a trovare il coraggio di prendere il toro per le corna. Tutti ricordano il referendum di Renzi come una cocente disfatta.  In realtà, fu sconfitto con onore, con due quinti dei votanti a favore. E fu impallinato soprattutto per gli errori che lui stesso commise. Mettendo insieme una riforma sacrosanta, come il rafforzamento del premier, con una inutilmente sacrilega, quale l’abolizione del senato. E inimicandosi – per calcoli sbagliati – l’alleato che avrebbe potuto comunque portarlo alla vittoria. Con Berlusconi al fianco di Renzi, la storia molto probabilmente avrebbe preso un altro corso.

Oggi alla guida del centrodestra c’è Salvini. Un leader che si sta interrogando sul ruolo che vuole avere in Italia. E che deve a Renzi sia il colpo di teatro che l’ha messo al tappeto, sia quello che lo ha resuscitato. L’intreccio – l’intrigo – comincia a farsi interessante.

di Mauro Calise
(“Il Mattino”, 22 febbraio 2021)

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