Gli immigrati tra noi

Qualche giorno fa ero in un bar con un amico. Ogni tanto ci ritroviamo lì, un po’ perché è vicino al centro cittadino, un po’ perché ci siamo abituati così. In fondo ci sono tavolini e poltroncine: ci sediamo e chiacchieriamo tra caffè e dolcetti, come si addice a pensionati quali siamo noi.

Mentre stiamo parlando, vediamo avvicinarsi un nero che sembra puntare lentamente verso il nostro tavolo. Il nero si ferma due passi indietro e noi abbiamo la solita reazione a metà fra il disagio e il seccato: l’elemosina anche qui? Cosi, io che ce l’ho praticamente di fronte scuoto la testa, alzo un braccio e, gentilmente, dico: – abbiamo già dato amico. – Il che è pure vero, almeno per me.

Il nero sembra capire. Increspa le labbra in un sorriso e indica con la mano tesa alla parete dietro di noi. – Il quadro – fa. – Quello.

Solo allora mi giro e mi rendo conto che sì, dietro di me c’è un enorme quadro a cui avevo sempre dato qualche occhiata distratta: una marina, con l’acqua che si infrange sulla scogliera. Guardo con più attenzione e dico: – Sai come si chiama quella costa?

Il nero scrolla la testa e mi fa: – No, ma è in Francia – e lo dice come se lui ci fosse già stato prima. Poi, guarda ancora, si gira e se ne va, mentre io capisco di colpo che quello dev’essere il luogo, o comunque un luogo molto simile a quello dov’è arrivato coi barconi. A giudicare dall’età che dimostra, non molto tempo fa.

La storia, in sé quasi banale di questi tempi, in cui un nero (o di chissà quale altro colore) si avvicina solo per tendere la mano e chiederti qualche moneta diventa improvvisamente meno banale e meno consueta. Tanto poco consueta che mi vergogno un po’ per averla considerata tale e, improvvisamente, vorrei trattenerlo per sapere di lui qualcosa in più: da dove arriva, come si chiama, che fa e che ha intenzione di fare qui da noi. Ma lui già arretra mettendo le mani avanti come in un gesto di scusa, mentre il mio imbarazzo cresce.

Incontri come questo sono ormai consueti nelle nostre città e l’attuale campagna elettorale, in perenne cerca di scontri, non ha perso l’occasione per fare del fenomeno migratorio uno degli argomenti più roventi e divisivi. Già, si sa, in Italia si polarizza sempre, spingendo le posizioni oltre il limite del conciliabile per speculare su qualche voto in più.

Le tesi estreme sono attualmente così riassumibili:

  • una, intorno alla quale si riuniscono le bandiere della destra, da quella leghista di Salvini ai nostalgici del fascio littorio, lancia appelli su appelli da qualunque talk show, gridando che quella a cui dobbiamo far fronte è, né più né meno, una vera e propria invasione. Ecco quindi che ogni italiano deve correre a respingere gli invasori, se occorre sul bagnasciuga, ma preferibilmente cercando di impedir loro di giungere fin qua. In caso diverso, saremo sopraffatti, le nostre donne stuprate,  e la “razza” italica (si è detto persino così), derubata del lavoro e della sua identità;
  • l’altra tesi fa appello alla storia e può essere riassunta grosso modo con queste parole: se l’attuale ondata di migranti arriva da noi è anche un po’ colpa nostra. Chi è andato, tra ‘800 e ‘900, a spogliare e depredare le loro terre se non gli europei? Certo, non le ultime generazioni, che comunque di quel massacro si sono indirettamente avvantaggiate per costruire grandi palazzi, splendide chiese, ponti, strade, ferrovie. Quanto c’è di sudore nostro e quanto sangue loro nel modo di vivere occidentale, tutto consumi, supermarket e tv?

Nel continuo frastuono della politica, comunque si sforza di farsi sentire una terza posizione, la quale tenta di conciliare quel che si può: l’esodo è biblico e nessuno vi si può opporre con qualche speranza di fermarlo. Però è possibile contenerlo, disciplinarlo, organizzarlo e distribuirlo meglio di quanto ora non si fa.

Questa posizione, forse troppo ragionevole per trovare ascolto in un Paese preda delle convulsioni elettorali, è condivisa da forze politiche moderate e senz’altro benedetta da papa Francesco. E’ anche pure, più modestamente, la mia e vi chiedo di ascoltarla. Da cosa faremo dell’immigrazione dipende molto di ciò che sarà dell’Europa e di noi.