Governo Meloni come la Thatcher: non esiste la politica industriale, ma solo le imprese e il made in Italy

Cambiare nomi ai ministeri con fantasiosi nomi di destra non sembra tanto un segno di forza quanto di debolezza politica. Un governo che, come ha detto giustamente Travaglio, è mediocre, nasce già debole, di profilo medio-basso senza personalità di rilievo che possano fare ombra alla neopresidente del consiglio, o che forse si sono tirate indietro dopo avere preso atto che la coalizione di destra è un puro accrocchio elettorale destinato a essere impallinato strada facendo dal Gatto e la Volpe della situazione (Matteo e Silvio naturalmente che non accettano il primato della ex sorella minore, e forse con qualche ragione). Dove si preferisce come ministro della Cultura un giornalista totalmente sconosciuto ai più collocato in Rai ma di stretta fede missina a un dannunziano vero (e dunque in quanto tale non fascista) come Guerri, soprattutto personalità dotata di una certa indipendenza. O forse anche lui scappato per timore della fragile e litigiosa costituzione della coalizione.

Con le mani legate nel governo dell’economia e della finanza, appesi per scarsa autorevolezza al giudizio delle agenzie di rating, con Draghi che almeno per ora svolgerà i suoi buoni uffici dietro le quinte ma chiederà evidentemente in cambio una pesante contropartita, non rimane che giocare la carta preferita da questa destra “sovranara” (ma anche dai suoi oppositori di maniera con in testa il PD): sventolare le bandierine identitarie (le cosiddette “identity politics” nel gergo anglosassone) senza poi fare nulla nel concreto e lasciando di fatto peggiorare le cose. Come se gli elettori, che sono naturalmente un po’ boccaloni ma fino a un certo punto, ché poi si stufano, non avessero ormai capito il gioco di questa banda di truffatori e raccomandati (il nostro attuale ceto dirigente e politico nel suo complesso con poche eccezioni) e non avessero con buone ragioni disertato in massa le urne.

Ma la nuova denominazione del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) in Ministero per le imprese e il made in Italy, se confermata, è invece rivelatrice e programmatica e suscita sconcerto per la prospettiva miope e limitata. Il governo della Meloni nasce sulle macerie della politica industriale perpetrate da tutti i governi precedenti, che dovrebbe essere la guida principale delle attività del ministero: la Meloni con questa indicazione nominalistico-programmatica ci annuncia che lei è venuta a spargere il sale sulle macerie della programmazione economica italiana, quella che fra la metà degli anni ‘50 e la metà degli anni ‘70 aveva reso la giovane Italia repubblicana una potenza mondiale, in grado di sedersi alla pari coi grandi, quando a una prima fase di governi liberisti guidati da De Gasperi era succeduta la nuova generazione DC (Fanfani, Mattei e Moro) ispirata da ambiziose idee di sviluppo economico keynesiano e da una politica estera autonomista pur nell’alveo dell’alleanza atlantica, fino al compromesso socialdemocratico del primo centrosinistra con l’ingresso al governo del PSI di Nenni e Lombardi, il purtroppo poco frequentato e studiato, a sinistra, fautore delle riforme di struttura. Tutto cancellato in questi 30 anni ingloriosi per opera dei governi di entrambi gli schieramenti politici ufficiali.

Ora arriva la Meloni (e questa è tutta opera sua) che pare rievocare la Thatcher secondo cui non esiste la società ma solo gli individui e le famiglie (che peraltro è un concetto totalmente illogico). Ebbene nel Meloni-pensiero non esiste più lo sviluppo economico ed industriale inteso come programmazione economica, di cui le imprese private sono solo uno degli aspetti, importante ma non certo esaustivo, ma solo le imprese e il made in Italy. Possibilmente piccole, ché piccolo è bello, e avvezze a sfruttare la forza lavoro in termini di salari da fame e scarsa sicurezza sul lavoro.

E le partecipazioni pubbliche, le controllate dello Stato, e soprattutto gli investimenti e l’indirizzo dell’economia da parte del pubblico, che oggi dovrebbero senz’altro essere più democratici e partecipativi di quanto non fossero in altri tempi, ma che sono ugualmente fondamentali nell’epoca dei cambiamenti climatici, delle pandemie e dei grandi inquinamenti da bonificare? Beh, vadano a farsi benedire! Sul ground zero della politica industriale italiana si può ricostruire con fantasia, lungimiranza e pazienza investendo sul necessario Green New Deal che coinvolga veramente lavoratori, forze sociali e imprese pubbliche e private, oppure spargere il sale in modo che non ricresca più l’erba: Meloni ci annuncia con la sua poco appariscente e dimessa, ma dissimulata e oggettiva arroganza di diligente segretaria di sezione missina (quindi arrogante e non ridicola ma seriosa, annotava giusto Berlusconi al Senato!) che, all’insegna del più bieco neoliberismo, non deve crescere più l’erba della prosperità economica per tutti in Italia, lavoratori e classe dirigente, un obiettivo che solo l’iniziativa pubblica, in un regime virtuoso di economia mista con la compresenza dell’iniziativa pubblica e di una iniziativa privata realmente ambiziosa, nuovamente dotate di adeguati centri di ricerca e sviluppo, può ottenere.

Filippo Boatti

22 ottobre 2022

2 Commenti

  1. Filippo Boatti: quanto hai scritto è degno di essere l’editoriale di un giornale quale era anni orsono la Repubblica di Scalfari. Ora solo il Fatto ed il Manifesto lo potrebbero pubblicare. Gli altri giornali, i “giornaloni”- termine genialmente coniato da Travaglio, sono ormai in mano a ben noti potentati.

    • Grazie Claudio per l’apprezzamento positivo. Come ti dicevo oltre a Il Fatto e Il Manifesto va segnalato anche l’Avvenire fra i giornali “liberi” e dignitosi. Guarda un po’ te come siamo messi…

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