Il giudizio su Berlusconi politico lo hanno dato gli italiani, in un trentennio di elezioni: chi amandolo, chi votandolo alla Montanelli, chi opponendolo tenacemente. Ma il giudizio che passerà alla storia è quello della scienza politica. Per la quale Silvio Berlusconi ricopre un ruolo di innovatore di sistema, per aver dato vita e forma a un nuovo tipo di partito. Il partito personale segna una linea di frattura nel panorama italiano, sparigliando i vecchi equilibri e modelli della direzione collegiale. E, in pochi anni, diventerà il format di riferimento sullo scacchiere nostrano, e il benchmark vincente sulla scena internazionale. Per i leader delle democrazie europee, la strada più diretta al potere sarà fondare un proprio partito.
La genialità della nuova formula sta nel mettere insieme tre elementi portanti dello scenario contemporaneo: personalizzazione, comunicazione e organizzazione. Il successo dei partiti di massa egemoni nel secondo dopoguerra era basato sul controllo oligarchico dell’organizzazione, come filtro e cabina di regia della partecipazione di massa. La comunicazione era gestita da dirigenti, attivisti e militanti col supporto degli organi di stampa. Quando irruppe la televisione, fu per decenni ingabbiata da regole – e giornalisti – di partito. La prima mossa vincente del Cavaliere fu di rompere l’oligopolio partitico e imporre la concorrenza delle sue reti televisive private.
Quando la crisi di Tangentopoli fece emergere la fragilità dei vecchi attori nel controllo organizzativo e televisivo dei votanti, Berlusconi discese in campo saldando l’influenza dei canali Mediaset a una organizzazione nuova di zecca che attingeva al proprio retroterra aziendale. La straordinaria forza sinergica di due fattori di questa portata ed efficienza fa di Forza Italia un unicum – per penetrazione e durata – nel panorama mondiale. I tanti partiti personali emersi nel corso degli anni mancano della tenuta organizzativa e/o comunicativa su cui, invece, il Cavaliere fondò la propria eccezionale longevità. Finiscono, per lo più, con l’attingere al terzo fattore, quello che viene più comunemente associato anche alla ascesa di Berlusconi: il traino della personalizzazione.
Paradossalmente, proprio questo è il fattore meno originale. Nel senso che già da mezzo secolo, in Occidente, la democrazia dei partiti stava lasciando il passo alla democrazia del leader. Gli Usa, forti del loro sistema presidenziale, avevano fatto da battistrada, concentrando sulla figura monocratica del capo di governo i meccanismi di legittimazione popolare. Ma anche le democrazie parlamentari si erano andate adeguando attraverso un processo di «presidenzializzazione», concentrando nel Primo ministro la leadership del partito e del governo, nonché del rapporto mediatico con l’elettorato. Rispetto a questo trend l’Italia rappresentava una coriacea eccezione, con un primo ministro fragile e succube delle correnti di partito, e l’idea stessa di leadership considerata un tabù per la riproduzione oligarchica. Fino all’arrivo di Berlusconi.
L’impresa forse più ardua – da concepire prima ancora che effettuare – è consistita nel dare vita a un ossimoro. Fare del partito – da sempre emblema della collegialità – un’appendice del leader carismatico. Ciò che ancora oggi colpisce è l’ardimento di questa visione, nella quale certo Berlusconi diede prova – da grande imprenditore – di straordinaria capacità di ascolto nei confronti del brain trust che lo attorniava. In un paese che aveva conosciuto l’avvento della democrazia di massa solo grazie e attraverso i partiti, il Cavaliere seppe riplasmarli a propria origine e somiglianza. Tracciando una strada su cui oggi perfino gli Usa presidenziali lo inseguono.
Chi pensava che, perse le elezioni, Trump sarebbe finito all’angolo, oggi assiste alla sua tenuta e al suo probabile ritorno proprio grazie al tentacolare controllo che ha conquistato del partito repubblicano. Per fare della personalizzazione il motore della vittoria, l’istituzione non basta più. Occorre appropriarsi del partito. Questo Silvio Berlusconi lo aveva capito per primo.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 13 giugno 2023)
Commenta per primo