Il grande Lebowski

Si tratta di un mirabile film di alcuni decenni fa, creato dalla fervida mente dei fratelli Coen.

È un film sul bowling, e come una boccia di bowling, irrompe su Hollywood, creando scompiglio e rivoluzione.

Due attori che amo molto, Jeff Bridges e John Goodman, miei attori feticcio, si rimpallano e si rinfacciano accuse reciproche di ignoranza e di inefficienza sullo sfondo di una città parodia del crimine alla John Dillinger.

Entrambi sono degli anarchici, a modo loro, il piccolo Lebowski tutto preso dalle sue manovre per sbarcare il lunario senza sconfinare nei reati, l’altro, il grande Goodman, pronto a travalicare ogni ordine costituito, in memoria dei compagni caduti in Vietnam, visti come soli elementi validi e vitali.

Un film piacevolissimo, travolgente, specialmente per chi ha subito gli effetti delle droghe, in particolare del LSD, di cui questo film sembra essere un figlio prediletto.

Dai voli di Jeff Bridges, sul cielo di Los Angeles, fino a passare come sotto le Forche Caudine, attraverso le gambe aperte ed avvenenti di procaci show-girls.

Un esperimento, quindi, fra realtà, irrealtà, sogno ed incubo, ma appunto per questo molto efficace, molto intenso.

L’alfa e l’omega di questo film è l’enorme bowling in cui si decidono le vite dei nostri protagonisti, in cui avvenimenti estremamente banali danno la stura a situazioni fantacomiche.

Ma perché questo film mi è venuto alla mente proprio in questi giorni?

Ho fatto il parallelo fra il grande Lebowski e Donald Trump, che proprio in questi giorni otteneva il suo successo in America.

Un successo clamoroso, trionfale, in cui “winner takes all”, la presidenza, il senato, la camera dei rappresentanti, tutto in una infilata, e senza discussioni.

Il piccolo Lebowski è diventato il grande Lebowski, si è impadronito di un partito, quello Repubblicano, che non è il suo, ma che ha lentamente corroso dall’interno, come un insetto kafkiano: certo, un’operazione lenta, ma molto efficace, se lo ha portato a questi risultati.

E nessuno discute i risultati, tutti sono in febbrile attesa di quello che il nostro Lebowski farà, e già c’è la fibrillazione,due mesi, per ciò che farà all’inizio del suo mandato.

Non si pone assolutamente in dubbio Trump con i risultati ottenuti, si aspetta a bocca aperta quello che combinerà.

Dove arriverà la palla da bowling a fine corsa? Colpirà o no il bersaglio?

Il nostro grande Lebowski non ha dubbi, la gara è vinta in partenza, il mondo dovrà solo aspettare ed accettare.

Ma la via sarà così rosea?

Nel film e nella realtà una scenografia alla Gene Kelly, un continuo andare e venire di situazioni che sembrano del tutto illogiche, ma che si inquadrano nella follia d’oggi.

Donald Trump, il piccolo Lebowski anarchico di quarant’anni fa, è diventato il grande Lebowski di oggi, che tutto dirige e manovra, come un “deus ex machina”.

A momenti di razionalità sovrappone le storditaggini di “un viaggio” compiuto notte e giorno in una Los Angeles reale ed irreale.

Ed i caratteristi circostanti, fatemelo dire, sono azzeccatissimi.

Da John Goodman, che riempie tutto lo schermo e si atteggia a difensore dei commilitoni morti in Vietnam, ad un Ben Gazzara, recuperato dalla storia del cinema, e che si atteggia a gangster tutto lustrini, del mondo contemporaneo, per finire a quel kommando di espatriati tedeschi, che vogliono ottenere un riscatto per un rapimento che non hanno mai effettuato: formidabile.

Forse sbaglierò, ma in questo film io vedo l’America, almeno quella degli ultimi decenni, con dei protagonisti piccini che aspirano a diventare qualcosa di grande, nel loro mondo dei sogni, ed una società sempre più smarrita quanto più gli interessi del capitale la costringerebbero ad essere funzionale.

Ma “la vida es sueno”, come diceva un grande autore spagnolo, ed è proprio così, come conclude un filosofico Sam Elliott di fronte ad una bottiglia di sarsaparilla.

È bello sapere che attorno a noi esiste un Lebowski, piccolo o grande che sia, del quale possiamo condividere le avventure.

Giorgio Penzo

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