
– Devi sapere che la fine del mondo si trova a Manhattan.
– Che stiamo aspettando, andiamoci!
Un film di fantascienza del 2001 che colpevolmente a tanto tempo dall’uscita non avevo ancora visto, mi è capitato di recuperarlo l’altra sera su Cine Sony, canale 55 del digitale terrestre. Un utente su IMDB (nelle “users review”) lo definisce un nuovo classico, che si comprende meglio col passare del tempo, e mi trovo d’accordo sul giudizio lusinghiero. Non del tutto apprezzato all’uscita dal pubblico e dalla critica. Effettivamente è qualcosa di diverso da tutto quello che si era visto prima. Da un’idea sviluppata e illustrata dallo stesso Stanley Kubrick all’amico regista Spielberg (!). Kubrick lavorò a questa idea già a partire dagli anni ‘70 salvo poi metterla nel congelatore attendendo gli sviluppi della computer grafica. Dopo il successo di Jurassic Park, si convinse che Steven Spielberg fosse colui che meglio poteva interpretare questa storia con al centro un classico topos spielberghiano, l’avventura vissuta da un bambino in fuga, ancorché molto particolare. Dopo varie insistenze alla fine, dopo la morte di Kubrick, Spielberg si decise a realizzarlo.
Il protagonista di A.I. – Intelligenza Artificiale (interpretato magistralmente da Haley Joel Osment) è un robot (o Mecha) bambino di nuova generazione capace di provare emozioni, che come Pinocchio, esplicito riferimento del film e nel film, vuole diventare un bambino vero e farsi così amare dalla madre umana Monica (l’attrice Frances O’Connor) che lo ha adottato e poi abbandonato. Il soggetto di base è una “short story” dello scrittore britannico Brian Aldiss che ha ispirato Kubrick per questo film (“Supertoys Last All Summer Long” parte di una raccolta di racconti di Aldiss), autore prima assunto e poi licenziato da Kubrick per divergenze artistiche sulla sceneggiatura. Aldiss comprensibilmente si arrabbiò con Kubrick: “Not only did the bastard fire me, he hired my enemy [Ian Watson] instead”. Kubrick scelse appunto un nuovo sceneggiatore, Ian Watson, anche lui autore di fantascienza, perché aveva in mente di piegare la storia verso “una avventura picaresca in versione robot di Pinocchio”.
C’è però un’altra storia in controluce che devia dalla storia originale. Il bambino artificiale si chiama, guardacaso, David, come il David Bowman di 2001 Odissea nello Spazio, e vivrà un finale gemello e speculare rispetto a quello dell’astronauta Bowman in 2001. L’astronauta di 2001 di Clarke e Kubrick, dopo essere stato costretto a disattivare H.A.L. (la prima suscettibile intelligenza artificiale con cui ci ha fatti confrontare il genio di Clarke e Kubrick) arriverà da solo fino ai confini dell’universo dove degli alieni immateriali, pure entità energetiche che un tempo furono “di carne e di sangue” (come scrive Arthur C. Clarke nel preambolo di ciascun romanzo della serie) costruiranno per lui, come tutti ricordano nel finale del film, una enigmatica camera d’albergo fittizia riprodotta scandagliando nei suoi ricordi, per accoglierlo in qualche modo nella sua primitiva forma umana, prima della trasformazione finale in pura energia intrappolata nella trama dello spazio-tempo e libera di muoversi nel cosmo, quasi divina e onnipotente. Nel celeberrimo finale David Bowman osserverà sé stesso sempre più vecchio, prima in tuta spaziale, e poi dopo aver visto apparire il mitico monolite nero dal suo capezzale di vecchio morente si risveglia in un nuovo stadio dell’evoluzione, il “bambino delle stelle” fatto di pura energia. Il David – Pinocchio di A.I. simmetricamente viaggerà ai confini del tempo, anziché dello spazio, rimanendo per millenni intrappolato in una Coney Island sommersa dai ghiacci di una nuova glaciazione terrestre, osservando fissamente la riproduzione della bambina dai capelli turchini (nella versione della disneyana Fata Turchina del parco giochi di Coney Island), e sarà infine trovato e rimesso in funzione da degli essere superiori, alieni nuovi padroni del pianeta (in realtà pare siano dei Mecha evoluti, detti gli Specialisti, ma questo il film non lo dice esplicitamente e perciò uno la può vedere come vuole, c’è un margine di ambiguità) – che ricordano gli alieni rambaldiani degli “Incontri ravvicinati del terzo tipo” – che creano per lui, come in 2001, una ricostruzione fedele, ma altrettanto vuota e fasulla della sua casa di un tempo, estratta dai suoi ricordi. Anche stilisticamente Spielberg sottolinea l’analogia della situazione fissando l’inquadratura sullo sguardo sovraesposto, “solarizzato”, di David che ricorda le visioni lisergiche del viaggio finale di 2001. Finalmente David riesce a parlare con la Fata Turchina (un ologramma pietosamente creato dagli alieni per accontentarlo: nella fantascienza i miracoli li fa la scienza) sperando che possa trasformarlo in un bambino vero. Gli alieni dopo un breve consulto concedono al bimbo ciò che desidera, non possono trasformarlo in un bambino vero ma consentono di ricostruire così per lui, temporaneamente, la sua mamma umana, nel frattempo scomparsa insieme a tutta l’umanità – che potrà vivere però solo un giorno – riportandola in vita dal DNA conservato in una ciocca di capelli custodita dall’orsetto-robot Teddy, compagno di giochi di David, e recuperando i suoi ricordi dalla trama dello spazio-tempo. Vivrà così con lei un giorno intero di felicità per scoprire che come Geppetto la mamma gli aveva voluto sempre bene, come a un bambino vero, nonostante lo avesse abbandonato dopo la guarigione del suo vero figlio, Martin (Jake Thomas) precedentemente ibernato a causa di una malattia incurabile in attesa di un rimedio, figlio che David aveva temporaneamente rimpiazzato. Alla fine della giornata il bimbo si addormenta felice accanto alla mamma Monica (che non si sveglierà più) e per la prima volta sogna, così ci fa sapere la voce narrante che conclude la fiaba di Pinocchio, entrando, possiamo supporre, come l’astronauta David Bowman di 2001 in un nuovo stadio dell’evoluzione: dato che nel frattempo la specie umana si è estinta e solo i robot più antichi sono i pochi reduci che ne conservano la testimonianza. Quindi David pur non essendo umano è al contempo ciò che di più umano rimane sulla Terra. Finale per niente consolatorio, dato che come in Solaris, di Lem/Tarkovkij, non sappiamo se le riproduzioni artificiali degli affetti del protagonista siano veramente tali o repliche ingannevoli; e dato anche che della specie umana, cancellata per la sua avidità dalla faccia della Terra, non rimane che il desiderio di un bimbo non umano di come avrebbe voluto che essa fosse: capace di amare gli esseri imperfetti al suo servizio invece di sbarazzarsene come rottami quando non servono più. Se il desiderio di David sia realizzato non lo sappiamo, possiamo supporre che sia diventato umano nella misura in cui l’illusione della felicità sia spesso considerata, diremmo leopardianamente, dagli umani la felicità in quanto tale. E nella misura in cui sogna.
C’è nel film una scena geniale che rivela tutto: quando David e il suo accompagnatore Gigolò Joe (Jude Law), un Mecha progettato per soddisfare i desideri del sesso femminile, scappano dal brutale rastrellamento anti-robot organizzato dai fanatici anti-macchine (riferimento alla Shoah e alle persecuzioni anti-ebraiche presente in qualsivoglia film di Spielberg) sono inseguiti da un veicolo a forma di Luna che cerca di catturarli, vengono presi e rischiano di essere torturati e uccisi ma poi riescono a fuggire. Ebbene a questo punto si imbattono nella foresta nella visione della Luna vera, il nostro satellite naturale, che sorge da dietro le colline e non fidandosi scappano dalla parte opposta! David desidera essere reale, ma quando si imbatte nella realtà più pura della natura in un mondo artefatto non sa riconoscerla. Mi fa venire in mente Einstein che, contestando una certa interpretazione della meccanica quantistica, disse che la Luna là fuori esiste anche quando io non la osservo, è reale ed essa esiste oggettivamente e non dipende dall’osservatore. Dunque per Einstein la Luna è il simbolo della realtà oggettiva che esiste a prescindere dalle interpretazioni e dall’osservatore, ma i nostri eroi vedendola non riescono a riconoscerla e scappano! David prende fischi per fiaschi e al contempo, come Pinocchio, è tanto più umano quanto più erra, senza saperlo. Il riferimento a Einstein è presente anche nel film sotto forma di caricatura come Dottor Know, l’ologramma sapiente che indirizza i nostri eroi verso Manhattan, al Rockefeller Center sommerso in parte dalle acque del cambiamento climatico, che è anche il quartier generale del professor Hobby dove vengono fabbricati in serie i David e le Darlene (la versione femminile del bimbo robot).
Va notato che l’anno successivo, 2002, con la reinterpretazione della Guerra dei Mondi wellsiana Spielberg cita sé stesso e replica la scena del rastrellamento uguale identica, a ruoli invertiti, non sono più gli umani a rastrellare i robot ma gli alieni a rastrellare gli umani, tirandoli su allo stesso modo con delle reti, come a dire attento! puoi sempre trovare qualcuno disposto a diventare il carnefice della tua specie per quanto spietata essa sia con i più deboli.
Un film che ho trovato molto bello e forse è stato sottovalutato. A differenza di molti altri film di fantascienza questo è, mi viene da dire in prima approssimazione, qualcosa di diverso, un film di pura fantascienza, cioè tanto filmico quanto letterario. Cioè si permette di essere estremamente libero nell’affrontare i temi fantascientifici, come quando leggi un Urania e non sei preoccupato che debba diventare un film, ma sei preso dalla storia che segui con le sue convoluzioni letterarie e le sue elucubrazioni fantascientifiche e fantastiche che mal si presterebbero a una resa hollywoodiana classica, e senza preoccuparsi del fatto che possano essere scambiate per banali e sdolcinate, come la storia di un bambino che vuole essere amato dalla sua mamma adottiva, ma in realtà non è hollywoodiano per niente perché dietro ci sono dei significati più seri e disturbanti. Non si tratta solo di rendere gli effetti speciali, come quando un Harry Potter vola su una scopa, o un Luke Skywalker sfida il padre a duello, c’è la dimensione mentale presente con le sue ossessioni e con i suoi labirinti. E forse per questo Kubrick, che preferiva l’arte degli effetti speciali analogici, pensò che in questo caso gli effetti digitali gli garantissero più libertà ed attese gli sviluppi della computer grafica della grande famiglia lucasiana e spielberghiana.
È un film d’autore che pure essendo totalmente filmico e con dei fantastici effetti speciali è anche un’opera esplicitamente letteraria, che rimanda a opere letterarie che a loro volta sono citazioni di sé stesse, come Pinocchio di Collodi e le sue varie cine-interpretazioni e fraintendimenti (una fiaba gotica che diventa disneyana con la più rassicurante fata turchina al posto dell’inquietante bambina morta di Collodi, ma che non è rassicurante per niente quando è un inganno degli alieni). Quando c’è la variazione sul tema (la saga di 2001 Odissea nello Spazio di Clarke e Kubrick consta di diverse variazioni della stessa storia, fra i romanzi e il cinema) siamo sempre in presenza di Omero (donde l’Odissea nello spazio) cioè delle lettere.
In questa storia avventurosa il protagonista David-Pinocchio è accompagnato oltre che dal robot gigolò che si muove come Fred Astaire anche dall’orsacchiotto robot Teddy che diverge dall’antipatico ruolo del grillo parlante. E’ più uno spirito protettore del suo compagno di giochi, in realtà molto saggio e risolutore, ricorda la tradizione del Golem che ricorre in molti film di fantascienza (cosa c’è di più fantascientifico del Golem?). Fra l’altro, e qui divago, c’è un altro bel film degli anni ‘80, molto popolare all’epoca ma sottovalutato dalla critica, “Corto-circuito” di John Badham, dove il robot Numero 5 (progettato dal Pentagono per la guerra ma reso umano da una scarica elettrica) unisce chiaramente la tradizione del Golem a quella dell’umorismo ebraico, alla fine del film Numero 5 (o Johnny Five in originale) che rifiuta la violenza e salva gli umani dal male racconta una barzelletta tipicamente ebraica e ride solo lui, un finale divertente dal sottile senso nascosto in un film di cassetta che mi ha sempre colpito (come si dice: underrated).
Naturalmente i critici si sono chiesti quanto ci sia di Kubrick e quanto di Spielberg in questo film e qualcuno ha scritto che l’idea era buona ma la realizzazione al di sotto delle aspettative. Non concordo per niente. Il dubbio che mi viene è anzi questo: Kubrick scrisse il film pensando a Spielberg e Spielberg lo ha realizzato pensando all’amico Stanley che nel frattempo, nel 1999, era venuto a mancare: non è che forse, salvo piccoli dettagli, Kubrick lo avrebbe girato esattamente eguale? Osservandone sia la trama che l’estetica mi sono fatto questa personale convinzione. L’arte dei due maestri del cinema si è in quest’opera, per ragioni peculiari, profondamente compenetrata.
7 dicembre 2018
LINK:
La scheda del film su IMDB: https://www.imdb.com/title/tt0212720/
Moltissimi riferimenti tecnici sulla lunga storia della realizzazione del film si trovano sulla corrispondente pagina di Wikipedia in lingua inglese:https://en.wikipedia.org/wiki/A.I._Artificial_Intelligence
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