Il titolo di questo articolo può sembrare forte ed eccessivo visto che stiamo analizzando le vicende, pur travagliate, di una organizzazione partitica che consta di una forte rappresentanza locale e parlamentare e può contare sulla fiducia ancora del 20% circa dell’elettorato italiano. Tuttavia, non può essere sottaciuta la sempre più astiosa discussione interna, i continui appelli alla unità, il tormento di un segretario che non è mai riuscito a condurre tutto il partito sulla propria linea e adesso paventa il rischio di una implosione della propria formazione politica. Inoltre, come se non bastasse, vi è da notare come siano evidenti ormai da tempo i segni del declino elettorale, il collasso delle organizzazioni periferiche, il sempre più fiacco impegno dei militanti e la scomparsa degli iscritti fino a provocare le sempre più frequenti chiusure delle sedi. Il PD ha una storia che supera di poco i dieci anni e proviene da un processo di incubazione politica durato circa un quindicennio, e si deve constatare come in un lasso di tempo così breve ben tre segretari dei democratici non sono più nel partito, molti prestigiosi fondatori dell’organizzazione riformista non hanno da tempo più la tessera oppure hanno lasciato la politica, il grande ‘padre’ di tale formazione, Romano Prodi, da molto tempo segue le vicende del suo ex partito con distacco se non a volte con aperto dissenso e fastidio per ciò che vi accade. Insomma, ormai troppi fattori denotano la evidente caratteristica del declino e della disgregazione della ‘più grande forza riformista’ che l’Italia abbia mai avuto, come disse un tempo Valter Veltroni, con un eccesso di enfasi che allora poteva sembrare legittimo ma che ora appare francamente affermazione lontana dal vero. Come è potuto accadere tutto ciò?
Per capire la situazione attuale, e per districarsi nella discussione interna ai democratici che è non scevra da buone dosi di retorica e oscurità dialettica, è necessario ritornare agli assi formativi che costituirono il Partito Democratico. Soffermiamoci su tre assi centrali che fondano il grande partito a ‘vocazione maggioritaria’:
- Il partito del leader e delle primarie
- Il riformismo concepito come liberismo temperato
- Il Partito Democratico come partito che rappresenta tutte le classi, con una concezione della propria centralità che tende a inglobare le istituzioni, il ruolo centrale nel sistema politico e l’intera articolazione della società in una nuova forma di paternalismo.
Per ogni punto sopra esposto vi è necessità di precisare come questi tre cardini tendevano a negare e a superare elementi importanti della esperienza politica sedimentata nella storia lunga della sinistra italiana. Veniva da un lato negato il valore del partito di massa organizzato sulla partecipazione militante, sulle sezioni e sul congresso, sul ruolo dei funzionari e del rapporto con le organizzazioni sociali. Il riformismo era la concezione con la quale si riteneva necessario porre sul terreno della contingenza e del realismo politico anche la critica più aspra del capitalismo in modo da mediare tutte le spinte utopistiche e massimaliste. Infine, affrontando l’ultimo punto, la sinistra italiana, in tutte le tradizioni ha avuto sempre a riferimento la classe lavoratrice, in alleanza con altri ceti magari, e relativamente alle istituzioni e al sistema politico mai ha aspirato a un ruolo centrale e perennemente governativo. Del resto, se si rilegge con attenzione l’intervento di Veltroni del ‘Lingotto’, intervento che possiamo ritenere il vero manifesto ideologico del partito, pure l’interclassismo cattolico veniva meno, sostituito da un nuovo paternalismo tipico delle aziende nei confronti dei propri dipendenti.
Ecco il punto; di tutto questo impianto culturale, che tendeva a fare dei democratici i ‘riformisti’ in grado di archiviare le culture del 900’, sia esse provenienti dal movimento operaio oppure dagli eredi della ‘Rerum Novarum’, a favore di una visione tecnocratica e populista della politica, non resta attualmente più nulla. La operazione politica che si è compiuta unendo i vecchi corpi metamorfosati del Pci e dei cattolici di sinistra e inoltre, (per lo più pochi), gli eredi del socialismo italiano, ha conseguito il risultato di creare una grande formazione politica ispirata ad una mal tradotta modellistica americana, e che determina non l’ampliamento dell’elettorato del centrosinistra, causando un fantomatico ‘sfondamento a destra’, ma semmai il consumarsi del rapporto con i ceti popolari che da sempre hanno sostenuto le sinistre in Italia. Il PD non scompare solo perché strutturalmente angustiato dalle lotte intestine fra correnti e per il fatto che esso mantiene un progetto politico sfumato per consentire a chiunque di entrarvi e se vuole, pure di ‘scalarlo’ in grazie del meccanismo delle primarie aperte, ma perché ha consumato il credito storico che molti ceti popolari da sempre riconoscevano alle rappresentanze politiche del mondo operaio. Vedo in ciò che ho sopra succintamente descritto le ragioni profonde dello scacco del gruppo dirigente attuale, dimissioni del segretario incluse, e che quindi, non consente a nessuno di entrare in tale ordini di questioni senza fare i conti con il fallimento di un progetto politico a lungo accarezzato e che oggi si rivela privo di reali prospettive.
Ma detto tutto ciò non si è ancora detto quale il motivo del fallimento di quel disegno che fu esplicitato nei suoi contorni essenziali da Valter Veltroni nel già citato discorso del Lingotto. Intendo dire che quel progetto che sorreggeva e tendeva a giustificare il passaggio dalla sinistra del novecento al Partito Democratico si basava sulla previsione che dopo l’89’ era inarrestabile la totale identificazione fra mercato capitalistico e democrazia, e che l’impianto economico marginalista e monetarista fosse in grado, in base a graduati e opportuni sacrifici, di garantire i quadri istituzionali dati e un benessere sufficientemente diffuso. Il fatto è che la previsione, ed realtà che può essere constata da molti, risulta errata. Ormai da almeno dieci anni si parla in Occidente di ‘stagnazione secolare’, la disoccupazione è un fenomeno che può avere di nuovo dimensioni non controllabili, le aree di povertà assoluta si estendono oltre i livelli di guardia, l’impoverimento progressivo per intensità ed estensione dei ceti medi mina il consenso su cui si reggono le istituzioni. Ciò che accade fa tornare in auge il tema della distinzione, e a mio avviso di contrapposizione tendenziale e naturale, fra capitalismo e la democrazia, intesa come regime a partecipazione popolare la più ampia possibile. In tale situazione di crisi il progetto del Partito Democratico non può più situarsi al centro di un sistema di cui costituisce garanzia e cerniera con gli interessi dei ceti popolari e dei ceti medi; semmai la situazione di crisi sociale costringere il PD a scegliere fra la sua anima popolare, eredità negata ma sempre riemergente per forza di tradizione, e il ruolo di garante del sistema liberale e tecnocratico, il che costringe i democratici a collaborare e ad allearsi anche con la peggiore destra, nella speranza di ‘civilizzarla’.
Non resta, dunque, se si pensa di uscire dalla crisi del ‘partitone democratico’ con una spinta a sinistra, dare una risposta nuova ai problemi emergenti e sopra succintamente descritti, che sono la causa vera degli avvenimenti che accadono in questi giorni dalle parti di Via del Nazareno.
Alessandria 7 marzo 2021 Filippo Orlando
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