Nel mondo grande e terribile siamo. L’espressione è tratta, se la memoria non mi trae in inganno, dalle lettere di Gramsci. Siamo vissuti con la illusione, che ha coltivato anche la generazione di mia madre, ( io sono nato negli anni settanta, mia madre negli anni trenta), di vivere in una Europa di pace, inclusa questa ultima in una realtà globale che vede presenti il secondo e il terzo mondo, e dunque una realtà più vasta. I paesi extraeuropei, cancellata la vergognosa esperienza coloniale, si credeva fossero giunti anch’essi ad inserirsi in un moto della storia foriero di rapporti pacifici e di continue avanzate verso i vertici dello sviluppo. La guerra in Ucraina, riportando la politica di potenza in Europa, e non più solo nel vecchio mondo coloniale, non spezza per sempre questa visione ingenua, irenica e infine dannosa? ‘La fine della pace’ si intitola uno degli ultimi numeri della rivista di Limes, diretta dall’illustre intellettuale Lucio Caracciolo, un modo sintetico, ma esatto a mio parere, per descrive ciò che accade. E il conflitto attuale è molto diverso dalla guerra degli anni novanta nella ex Jugoslavia, per il semplice fatto che quel conflitto non coinvolgeva apertamente grandi potenze.
Un nuovo conflitto generale può avere, dunque, origine nel nostro continente. La prima domanda che credo ci si debba porre, di fronte allo scandalo della guerra, di una guerra così distruttiva e globale, è per quali valori combattiamo, noi che ci chiamiamo Occidente e ‘Fronte delle democrazie’, e se questa guerra sia evitabile, o possa essere contenuta nei suoi aspetti più devastanti per l’umanità intera. Per quali valori combattiamo, contrapponendoci a Putin, ai cinesi e all’Oriente in genere? Si è sostenuto spesso, in questi mesi su autorevoli riviste e quotidiani, che il nostro mondo deve difendere i valori della democrazia contro uno schieramento di paesi che conoscono solo la violenza di feroci autocrazie. Tuttavia, quando succintamente si descrive che cosa è la nostra democrazia, si citano solo due assi fondamentali del nostro vivere civile, la libertà, ma non meglio specificata, e il mercato. Non compare mai in questa definizione di democrazia il valore del lavoro.
Allora, vorrei tentare una definizione altra della democrazia, che non sia rappresentata dal semplice diritto allo spostamento delle merci, dei capitali e delle persone. Dunque la democrazia può essere intesa come quel regime non semplicemente formale, insieme di regole e organi funzionali, ma entità dinamica, nella quale la tensione fra potere popolare e oligarchico, fra libertà sostanziale e dominio dei pochi, si scioglie in favore della crescita culturale e sociale delle masse. Se non si coglie della democrazia, anche di quella moderna, la intrinseca conflittualità interna che ne rappresenta la fragilità e la vitalità allo stesso tempo, si resta prigionieri di una definizione di ciò che è democrazia fatta di modellistica istituzionale, sempre inadeguata a cogliere i reali processi in corso. Si spiega forse così il fatto curioso che riteniamo dittature paesi che hanno certo una cultura arretrata su molti campi ma dove formalmente si vota e vi è il pluripartitismo, vedi la Russia, e si descrivono come democrazie altri paesi dove pur votando in essi si affermano leggi contro l’aborto, si verificano abnormi concentrazioni di potere nell’esecutivo a detrimento anche degli organi di garanzia, dove non è ben formalizzato e garantito il processo elettorale e il diritto di voto; e qui mi vengono in mente paesi come la Polonia, l’Ungheria, gli stessi Stati Uniti. Tuttavia, a queste giuste obiezioni, si risponde che la cultura dei diritti è nata in America e al più da noi, in Europa. Tuttavia, a me pare che la nostra storia occidentale sia più complessa. La rivoluzione negli Stati Uniti mette al centro la libertà del cittadino proprietario, il suo essere soggetto economico, che può assoggettare per il suo diritto di libertà le forze lavorative fino ad ammettere la pratica della schiavitù o la discriminazione per razza.
A mio avviso, il processo di emancipazione che afferma che l’essere umano è libero perché le sue facoltà lo rendono libero e uguale agli altri al di là delle sue proprietà economiche, è la rivoluzione francese, ( pensiamo alla dichiarazione dei diritti dell’uomo), ed essa figlia il liberalismo attuale, e i movimenti socialista e femminista, ed anche lo stesso comunismo novecentesco ne è un derivato, pur con limiti e tragedie. Nella patria dei diritti, se pensiamo che essa sia l’Occidente anglosassone e europeo, si sono generati movimenti politici che pensavano alla emancipazione dei soggetti e alla espansione dei diritti, e per contro questi hanno convissuto con le forze conservatrici e reazionarie che hanno lottato per affermare i valori della tradizione religiosa, che hanno avallato tutte le culture discriminatorie e razziste per giustificare il colonialismo e lo sterminio dei popoli ovviamente inferiori e privi di civiltà. Ecco, è questo il punto che mi premeva sottolineare; per quale Occidente combattiamo, per quello dei movimenti emancipativi o per l’Occidente che si crede faro di civiltà e difensore della morale naturale e dunque, in diritto di sottomettere le razze inferiori e ‘educare’ i soggetti fragili della società. E’ una domanda forse fastidiosa ma che non credo possa essere facilmente aggirata. In sostanza, questo quesito, posto poco sopra, ne trascina un altro ad esso collegato: è condivisibile un neo-colonialismo occidentale rispetto ai paesi di nuovo sviluppo, ( Cina, India, Russia), con i quali le potenze anglosassoni non hanno nessun desiderio di condividere le responsabilità di gestione delle grandi questioni internazionali? La risposta, per chi scrive, appare ovvia ed è negativa, tuttavia non può che sovvenire alla responsabilità collettive delle nostre società, e ad ognuno di noi, nel pieno delle facoltà di coscienza, rispondere a questi quesiti fondamentali dai quali dipende il futuro nostro, dei nostri figli, dell’umanità intera.
La guerra, inoltre, ha un costo. In vite umane, innanzitutto, in distruzione e impoverimento delle strutture materiali della società, da cui dipende il benessere nostro, in regressione civile sul piano dei diritti e della democrazia. Siamo pronti a pagarlo per ragioni ideologiche così fragili, per miti nati nella nostra società, ( nazionalismo, superiorità della razza bianca), che contraddicono i valori democratici così tanto sbandierati ai quattro venti? Io non penso che le masse occidentali siano veramente pronte a versare un così alto tributo, in fatto di libertà e benessere, per una battaglia lunga, dagli esiti così incerti, e dalle motivazioni che non hanno così forti basi.
Chi scrive sbaglia giudizio? Se si ha un filo migliore per tessere si avanzi allora miglior ragionamento per convincere i più, senza però adottare valutazioni capziose dei fatti e utilizzare facili demagogie.
Alessandria 4-08-2022 Filippo Orlando
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