Potrà apparire umiliante, ma non abbiamo alternative. Il silenzio dell’Europa nello squarcio della notte iraniana non sorprende. Fa parte di uno scenario cui ci siamo da tempo rassegnati. Non abbiamo intelligence sufficiente, ci manca unità decisionale, difettiamo di armi e uomini adeguati alla sfida. Siamo, semplicemente, impotenti. Possiamo lamentarci – come abbiamo appena fatto con gli USA – provare a destreggiarci – magari facendo sponda con la Cina – addirittura alzare la voce – l’attitudine preferita dei francesi – ma il risultato non cambia. Sui principali teatri di guerra, non contiamo.
Questa debolezza ha i suoi vantaggi. Ci consente di rimanere defilati, non esporci eccessivamente, improvvisarci mediatori. Sperando che le truppe schierate, e la diplomazia di complemento, salvino almeno la faccia. E quel poco di affari che rimangono. Ma ogni volta che si passa all’azione, che c’è un brusco capovolgimento di fronte, l’Europa, semplicemente, non esiste. In questo caso, poi, abbiamo anche l’alibi che la politica internazionale non c’entra. Che all’origine del blitz che ha assassinato il Che Guevara iraniano non c’è un disegno strategico, il tentativo di ridefinire equilibri di medio e lungo periodo in un’area da cui gli americani sembravano sul punto di uscire, e invece ora ci sono impantanati. Con poche eccezioni, l’opinione più diffusa è che Trump abbia colto la palla al missile per un’azione di distrazione di massa. Spostare l’attenzione mediatica dalla seduta sull’impeachment, in calendario questa settimana al Senato, sull’escalation di attacchi e controattacchi che si scatenerà in Medioriente. Cosa e come potrebbe entrarci l’Europa in una simile dinamica interna allo scontro tra i poteri USA?
Ancor più delle motivazioni contingenti, che poco o niente hanno a che vedere con i circuiti diplomatici convenzionali, il cambiamento più penalizzante – per l’Europa – riguarda le modalità con cui oggi la Casa Bianca può decidere di intervenire. Modalità istantanee. Che rispondono a due fattori, tecnologico e psicologico, destinati a modificare a fondo la conduzione della guerra.
È solo da pochissimi anni, che – grazie ai droni e al perfezionamento dei tracciamenti satellitari – la caccia agli obiettivi umani è diventata di una precisione chirurgica. L’enorme valore simbolico che i leader rivestono nell’immaginario popolare sta dando vita a un nuovo genere di guerra, le guerre personalizzate. In cui lo scalpo del nemico eccellente diventa il trofeo da conquistare, e sventolare, in televisione e nei milioni di canali social. Per quanto militarmente importante, è evidente che il vero obiettivo di Suleimani era il suo carisma, l’impatto psicologico che la sua morte avrebbe avuto su decine di milioni di seguaci. Ma, diversamente dalla cattura e assassinio di Osama Bin Laden, non si è trattato di una azione di intelligence portata avanti dal certosino lavoro di un complesso di unità speciali, impiegate per mesi e mesi a circoscrivere e poi a colpire l’obiettivo. L’assassinio del generale iraniano è sembrato piuttosto replicare la diabolica spettacolarità e semplicità di un videogioco, con un uomo solo alla console, dall’altro capo del mondo, a premere il pulsante giusto.
Oggi, l’opinione pubblica americana giustamente si interroga sui limiti che la presidenza imperiale sta varcando. Un sistema istituzionale in cui il potere di guerra – e che guerra! – è nelle mani di un leader capriccioso e volatile. Che, negli anni allo Studio ovale, ha cambiato una decina dei suoi più stretti collaboratori sul fronte della security, e ha preso ripetutamente – o improvvisamente annullato – decisioni di azioni militari irreversibili. In questo quadro, la guerra personale si presenta come il nuovo risiko di una democrazia fuori controllo. Dalla vecchia Europa osserviamo, inermi e attoniti.
Mauro Calise
(“Il Mattino”, 6 gennaio 2020).
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