Nel contesto attuale, dove la violenza di genere continua a mietere vittime, diventa fondamentale esplorare le radici psicologiche di fenomeni come il femminicidio. In questa intervista esclusiva, Alessandria Today ha incontrato lo psicologo Mauro Montanari, Ph.D., per approfondire i meccanismi mentali che spingono un uomo a compiere atti così estremi contro le donne. Montanari, con un approccio che intreccia psicanalisi, filosofia e osservazione culturale, ci guida attraverso una riflessione sulle dinamiche profonde del possesso, della libertà e della paura che alimentano la violenza di genere, offrendo spunti illuminanti su un tema tanto doloroso quanto complesso. Con piacere e con l’autorizzazione della direzione di “AlessandriaToday” rilanciamo questa interessante intervista su CF on line, ben sapendo che si tratta di un argomento di grande interesse per le nostre lettrici e i nostri lettori. (n.d.r.).
…
-Cosa succede nella testa di un uomo quando uccide una donna?
-Domanda piuttosto complessa, quindi vorrei prenderla da lontano, cominciando da Lacan e dal suo concetto di “razzismo”. Dice Lacan che il razzismo è un odio irrefrenabile che si manifesta nei confronti della libertà di un altro. In questa definizione ci sono due elementi portanti: l’odio e la libertà, che sono i sentimenti basilari rispettivamente del carnefice e della vittima. Se teniamo per buona questa definizione e la trasferiamo al femminicidio, dobbiamo interrogarci allora sulla natura di quei due sentimenti. Nei fatti, il Femminile è la manifestazione più anarchica e profonda della libertà, non a caso centinaia di milioni di donne in tutto il mondo sono costrette a vivere in scafandri neri che somigliano molto a prigioni portatili. Se veniamo ai miti, che raccontano le nostre verità più nascoste, nella Genesi è proprio la donna che disobbedisce a Dio e sceglie la conoscenza. La sua gemella segreta, Lilith, che venne rimossa dalla Bibbia dalle comunità rabbiniche precristiane, ma che ritroviamo nell’Alfabeto di Ben-Sira, abbandona volontariamente Adamo, lasciandolo solo nel Giardino dell’Eden. Lilith è l’indipendenza. In ebraico sta per “civetta”, vale a dire animale notturno, noto per la sua trasgressione e, manco a dirlo, per la sua energia sessuale. Eccola, quindi, la natura della libertà, che fa talmente paura che bisogna incarcerarla, batterla e, talvolta, ucciderla.
-Lei, come psicologo, come definirebbe la libertà femminile?
-Io sono anzitutto un uomo; comincerei quindi da quello e, ciò che mi affascina, come uomo, è la forma dell’apparato genitale femminile, perché è rientrante, non immediatamente visibile, quindi misterioso; in altre parole il contrario di quello maschile, che esce ed è, appunto, evidente. Sigmund Freud, che era un uomo come me, ed era profondamente figlio del suo tempo, probabilmente più di me, riteneva che le donne non potessero che avere invidia nei confronti del sesso evidente degli uomini. Platone, ne La repubblica, racconta invece un’altra storia, e cioè che la liberazione dell’essere umano inizia proprio dalla caverna, in una allegoria che ricorda molto quella della nascita. La conoscenza, cioè la libertà, la curiosità intellettuale, nasce dalla caverna. Essendo rientrante, l’identità femminile si nasconde ed è quindi difficilmente decifrabile, fatta di ombre e di chiaroscuri, molto diversa dalla identità fallica degli uomini; nondimeno, da lì parte il mistero della conoscenza per tutti, compresi noi uomini. Ancora: la natura della libertà è tutta lì. Se non partiamo dalla caverna, non ci arriviamo.
-Quindi il femminicidio avviene perché la libertà femminile fa paura?
-La libertà la si annulla solo attraverso un possesso. Quando questo non riesce, subentra la violenza, che è una forma specializzata di possesso. Il punto è che il Femminile non è governabile, se non con la sopraffazione. Le citate centinaia di milioni di donne costrette a vivere in scafandri neri, sono la manifestazione più evidente della non governabilità del Femminile, se non, appunto, con la sopraffazione e l’incarcerazione. Ma gli esempi sono innumerevoli anche da noi.
-Perché si ha paura della libertà?
-Ne ha paura chi non è libero. Per chi lo è, non c’è niente di più affascinante che il Femminile. Che peraltro, secondo Jung, è riconoscibile da noi uomini attraverso la nostra anima. Questo non vuol dire che siamo tutti uguali, tutti con un cromosoma solo e un testicolo solo, come vorrebbe una granguignolesca ideologia contemporanea. Al contrario: la bellezza sta proprio nella differenza. Per dirla sempre con Lacan: non potrei innamorarmi che di una donna! Vale naturalmente anche per gli omosessuali, i quali, come tutti noi, sono innamorati in primis delle loro madri!
-Perché allora proprio dalla differenza nasce la violenza di genere?
-Perché si ha paura del Bello. Se un uomo osserva i movimenti aggraziati, le forme rotonde, la profondità dello sguardo di una donna, vede il Bello. E non si tratta solo di fisicità. Non ricordo quale canzone, ad un certo punto dice: “amo le tue rughe”. È vero! Le rughe fanno parte dell’umano, quindi del Bello. La violenza nascerebbe se io volessi possedere in esclusiva quel Bello e le imponessi una maschera. La stessa cosa funziona anche al contrario. Nessuno di noi può possedere un’altra persona, ma il riconoscimento della libertà altrui non è un dato di fatto, è piuttosto una educazione.
-Cosa significa che la libertà è una “educazione”?
-Significa che non la troviamo in natura, la quale è violenta tanto quanto lo siamo noi o, per dirla con Leopardi, è “matrigna”! La libertà è la conclusione di un processo alla ricerca dell’Umano. La libertà sta in noi, rannicchiata dentro di noi, nella bambina, anzi, nella piccola Lilith che è in noi.
-Vuole spiegarsi meglio?
-Parto allora dal mio sesso maschile. Si dice che gli uomini pensino col loro organo sessuale e c’è del vero. Gli uomini hanno generalmente una intelligenza matematica e geometrico-spaziale; quando costruiscono, fanno missili, razzi, aeroplani, oppure grattacieli, ponti, navi: tutta roba lanciata verso l’esterno, verso il cielo o verso l’oceano. Quanto fanno sport, sono mediani, centravanti, tirano in rete, oppure sono lanciatori di baseball, o canestristi di basket. Perfino in filosofia e in psicologia gli uomini sono fallici, e va benissimo così. Ora, il punto è il seguente: quando io costruisco un missile per lanciarlo su una città del popolo accanto, faccio esattamente quello che farebbe nella savana una banda di scimmie antropomorfe contro una banda rivale; certo, loro con i sassi. Faccio quello che farebbe un gruppo di australopitechi un milione di anni fa; certo, loro con le ossa appuntite. Cioè faccio quello che si farebbe in natura. Se io, invece, lo stesso missile lo lancio in cielo per scoprire nuovi mondi nell’interesse di tutti, perché quello che scopro potrebbe alleviare molte sofferenze di altri esseri viventi, faccio qualcosa di umano. La ricerca dell’umano, cioè dell’anima umana, è un processo lungo, ma che porta ad una grande gioia. Cioè, è una educazione. Per tornare alla violenza di genere e, in generale, a tutta la violenza, potrei dire il seguente: dove non c’è una educazione, cioè un rapporto tra anime e, implicitamente, il riconoscimento della differenza, ci sono i germi della violenza.
Conclusione:
L’intervista con Mauro Montanari ci ha offerto uno sguardo penetrante sulla psicologia del femminicidio, rivelando come la paura della libertà femminile, radicata in antiche insicurezze e stereotipi di genere, possa trasformarsi in violenza. Montanari ci invita a riflettere sul ruolo dell’educazione nel contrastare questi impulsi distruttivi, sottolineando l’importanza di un percorso di crescita umana e spirituale che riconosca e celebri le differenze, piuttosto che temerle. In un mondo in cui la violenza sembra spesso prevalere, le parole di Montanari ci ricordano che solo attraverso una vera comprensione e un’educazione all’umanità possiamo sperare di costruire relazioni più sane e rispettose.
Commenta per primo