La paura di guardare al futuro

Niente di nuovo sul fronte occidentale. Anzi. Più la realtà sembra sfuggire di mano ai vecchi padroni del mondo, più cresce l’incapacità di forgiare nuove idee per affrontare scenari imprevisti. Così oscilliamo tra la paura del futuro e il rimpianto per come eravamo. Quando – sia detto per inciso – fondammo la pax atlantica su sessanta milioni di tombe nelle due guerre civili europee. Forse, sarebbe il caso di provare a voltare davvero pagina.

Il corto-circuito che scatena il pessimismo è il combinato-disposto all’orizzonte, tra l’ipotesi sempre più concreta di una vittoria di Putin in Ucraina e quella di nuovo probabile di un bis di Trump alla Casa Bianca. Due fenomeni che si alimenterebbero a vicenda, convergendo verso lo stesso risultato: il tramonto della democrazia e l’ascesa degli autoritarismi monocratici. Una morsa che salderebbe Asia e America, lasciando l’Europa in balia di un contagio a quel punto inevitabile. Aggiungete a questa miscela il detonatore incontrollabile dell’Intelligenza Artificiale, e avete il mood che si sta affacciando in molti circoli d’opinione. Con due reazioni, però, molto diverse.

La prima è di rabbia per l’angolo in cui siamo finiti, vittime innanzitutto di noi stessi. Si moltiplicano i j’accuse contro l’inerzia con cui – soprattutto noi europei – abbiamo trascurato le sfide che crescevano ai confini dell’impero, trastullandoci nell’illusione che l’ombrello Nato ci avrebbe comunque protetto. E ora che oltre-Atlantico torna ad affacciarsi lo spettro isolazionista, all’Europa tocca pagare il conto di una costruzione unitaria forte nel tutelare ed espandere i propri interessi economici. Ma con i piedi politici d’argilla. Da qui l’invito – sempre meno sommesso – a invertire bruscamente la rotta. Come scrive Panebianco sul Corriere: «posti di fronte a una situazione di emergenza (…) le elites europee (di alcuni paesi europei) potrebbero decidersi a fare ciò che hanno sempre fin qui evitato di fare: spostare definitivamente il comando politico dal livello nazionale a un livello sovranazionale, europeo. (…) Ciò avverrebbe, come sempre accade nelle situazioni di emergenza, per via extra-giuridica, con un accordo politico tra alcuni paesi europei».

Al polo opposto di questa soluzione – improbabile come tutte le risposte estreme ma che sta conquistando proseliti – c’è quella del pragmatismo opportunista. Crescono – di numero e peso – i partiti europei che guardano a Trump con malcelata simpatia e a Putin con aperto interesse. Pronti, all’occorrenza, a diventare i cavalli di Troia che abbatteranno le mura del castello tecnocratico costruito dagli gnomi di Bruxelles. Aspettare le prossime elezioni per credere. Diverse per matrice culturale e ideale, questi due tentativi di rispondere al declino dell’Occidente hanno in comune il richiamo alle origini, a quell’identità nazionale che è stata per oltre due secoli il motore della potenza europea.

Si tratta di due risposte velleitarie. Ancorate a uno schema bipolare – l’Occidente contro il resto del mondo – che ignora i rapporti di forza demografici e geopolitici emersi violentemente alla ribalta. Lo scacchiere multipolare è ingovernabile col vecchio armamentario ideologico. A cominciare dalla divisione binaria tra paesi democratici e non, basata su libere elezioni. Asia, Africa e America Latina si sono a larga maggioranza schierate al fianco dell’invasore russo, insensibili ai nostri criteri di legittimità procedurale. Criteri messi duramente alla prova dall’esito delle elezioni argentine, dopate con l’intelligenza artificiale. Come potrebbe avvenire in America nel volgere di meno di un anno.

Pensare di contrastare questi trend rievocando la Santa alleanza o illudendosi di flirtare col nemico significa non avere capito che siamo entrati in un nuovo millennio. Nelle parole di Guccini, «il nostro è un tempo sospeso tra due ere. Un tornante della storia». E dai tornanti non si torna indietro.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 10 dicembre 2023)

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