La politica commissariata dalla grande finanza

In un recente articolo il dirigente di Articolo 1 Alfredo D’Attorre, sostiene che la sinistra può cogliere l’occasione del governo Draghi per cercare di rilanciarsi e dare a sé stessa una forma più consona alla difesa e alla rappresentanza dei ceti più deboli della società. La divisione dei ruoli sarebbe all’incirca questa, senza, credo, volgarizzare oltremodo le tesi del parlamentare di Melfi; da un lato l’attuale Premier dovrebbe occuparsi della ‘Grande Politica’ sia nello scenario continentale che in quello mondiale, mentre la sinistra si limiterebbe a sottolineare i passaggi a lei più favorevoli e a correggere, se può, le scivolate verso destra della maggioranza di unità nazionale, dall’altra, approfittando della ‘vacatio’ della politica dei partiti la sinistra si impegnerebbe in una sua rifondazione a partire dal PD e dalla sua discussione che dovrebbe entrare nel vivo nell’autunno prossimo.

Debbo dire subito che molto del ragionamento dell’onorevole D’Attorre mi pare viziato di astrazione ingenua che rischia di produrre illusioni pericolose. Dunque, dobbiamo partire dalla valutazione del governo Draghi; esso non è un semplice governo di emergenza ne un puro governo di unità nazionale, semmai si potrebbe descriverlo come un governo delle élite che commissaria i partiti e pone il parlamento in un ruolo di mera camera di ratifica a favore di un potere basato sulla grande finanza e sulle alte sfere della burocrazia statale, ( diplomatica e militare), che si pone al di sopra e al di là della legittimazione democratica del voto popolare. In tale contesto i partiti possono al massimo discutere graziosamente un po’ dei ‘diritti civili’, sfidando i limiti posti dal revanscismo ecclesiastico, mentre i veri poteri che contano, che si raccolgono attorno a Mario Draghi, si occupano delle ‘partite importanti e decisive’, ovvero la riforma del patto di stabilità e la nuova politica americana che riporta l’intero continente europeo ai confini di una ‘nuova guerra fredda’. Su questi temi così centrali e decisivi per segnare il destino del paese e delle parti politiche, le formazioni rappresentate in parlamento dovrebbero al massimo produrre correzioni o esprimere eventualmente delusioni oppure tacere del tutto. Purtroppo vorrei ricordare a D’Attorre e a tutti noi che la politica non va in vacanza, non ci sono pause di riflessione e cessioni indolori del potere ad altri.

Ciò che in effetti va segnalato è questo: il potere delle élite finanziarie e le alte burocrazie ministeriali sono riuscite, nell’arco di quarant’anni, ad abbattere la democrazia basata sul parlamentarismo e sul protagonismo popolare, sostituendola con un regime commissariale in cui conta il ricatto del capitale prestato agli stati e il dominio delle strutture dei dicasteri e dell’apparato dell’esercito in contrapposizione netta con l’andamento espresso dal voto popolare durante le elezioni. Dominano, in sostanza, non gli equilibri sociali derivati e cristallizzati nel voto democratico raccolto nel processo elettorale, ma semmai la forza delle grande élite che sono in grado di far valere la logica dello ‘stato di emergenza’ permanente, al fine di sottrarre potere alle legittime fonti perpetuando una cronica situazione di eccezione. E nello ‘stato di eccezione’, in cui le norme costituzionali’, formalmente vigenti, possono essere piegate all’uso emergenziale, si sa che chi ha possibilità di decidere rappresenta il vero potere.

E questo potere delle élite, è un potere che si racchiude negli strumenti del governo, e non lascia che spazi minimi alla opposizione, politica, partitica e sociale che sia, perché tutto il potere si esprime nell’atto governativo del decidere e decretare e non resta nulla per chi vive al di fuori del recinto del ministero.

Il ‘sistema delle élite’ si basa su un intreccio di strutture e di poteri che si tengono insieme in fitta trama. Il primo ‘potere – pilastro’ è la Nato raccolta attorno agli apparati americani e inglesi; poi viene la struttura finanziaria creata in Europa che trova i suoi proni funzionari a Bruxelles e a Francoforte. Completano il quadro le grandi multinazionali e le grandi banche che hanno sede nei paesi più importanti del mondo Occidentale.

Bisognerebbe ricordarsi di ciò che è accaduto alla piccola Grecia nell’estate del 2015 per capire quale mostro tecnocratico vado descrivendo. In quella estate di sei anni fa il piccolo paese ellenico, guidato da una generosa sinistra, cerca di aprirsi uno spazio politico cogliendo l’opportunità di un varco che si era aperto negli anni precedenti nella trama fitta e robusta del sistema tecnocratico europeo. Purtroppo, il ‘sistema’ ha reagito colpendo con durezza l’insubordinazione di Atene, strangolandola finanziariamente non tanto per insuperabili ragioni economiche, ma semmai seguendo le leggi della necessità politica, per cui le ali estreme che pretendono un vero cambiamento della realtà data debbono essere uccise in culla se non possono essere riassorbite nei confini del mondo liberale. Per inciso, va detto che l’intera sinistra europea, radicale e socialdemocratica, non si è più ripresa dal colpo subito.

Dunque, per tirare le fila del ragionamento, o vi sono improvvise scosse che il sistema non sa governare e che aprono spazi ad una azione veramente riformatrice e sociale della sinistra, oppure essa, la sinistra appunto, è costretta dentro i governi di unità nazionale a consumarsi e non, come sperano in molti, a rinnovarsi. La fase contempla, per la sinistra, anche il rischio di una lunga opposizione, debole nelle sue caratteristiche e senza speranza di emancipazione dalla condizione data. Il dilemma parrebbe porsi nei termini di una accettazione supina del quadro liberale e di destra, che è dominante, oppure rinchiudersi in una opposizione sterile. Eppure il ruolo della sinistra, pure in una condizione storica che le consegna rapporti di forza così sfavorevoli, non può solo essere quella di attendere che il cavaliere bianco del potere liberale sistemi ogni cosa da par suo, mentre le destre alla Meloni e alla Salvini occupano spazi sempre più preponderanti di potere. La partecipazione a questo governo si può caratterizzare da sinistra se essa chiarisce subito che il ristretto orizzonte liberale dell’attuale ministero non è il suo orizzonte. La sinistra può, e deve dire, che le soluzioni per la crisi ripartono da un protagonismo dello stato nell’economia e dal rafforzamento del ruolo del pubblico nei servizi essenziali, e che la missione del governo Draghi sarà utile solo se esso, entro il tempo ristretto che manca alla fine della legislatura saprà veramente modificare il patto di stabilità che strangola non solo l’Italia ma l’intero progetto politico di unione europea. Se invece, la sinistra delegherà a Draghi le cose veramente essenziali, accettando il commissariamento politico delle solerti burocrazie liberali, sempre poco democratiche, troverà poco spazio e poco entusiasmo nel suo processo di ricostruzione politica. Ogni tentativo di rilanciare o rifondare partiti deve appoggiarsi sulle posizioni concrete che si esprimono al suo esterno senza rinchiudersi in estenuanti discussioni interne tanto retoriche quanto incapaci di vera presa nel generoso popolo dei militanti. Avranno i dirigenti del PD e della attuale sinistra il coraggio di una battaglia vera in campo aperto rischiando ciò che si deve rischiare per sperare in una vera rinascita? Ai posteri ardua sentenza.

Alessandria 15-07-2021                                               Filippo Orlando

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