Tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Il governo perché ha visto confermata la coesione della sua maggioranza. L’opposizione perché ha evitato di illudersi che vincere in due – piccole – regioni potesse significare risolvere i problemi di una strategia unitaria. E gli elettori di tutt’Italia, che da mesi sentono parlare quasi solo del prossimo turno, come se fosse un campionato di calcio. E invece le regionali, le europee e le elezioni nazionali sono partite diversissime: ciascuna con i suoi territori, le sue regole e – soprattutto – i suoi tempi. Trasformarle nel tritacarne mediatico di un’unica elezione permanente è un pessimo servizio al paese.
Per stare al merito del risultato di domenica, la notazione più veritiera sembrerebbe quella di D’Amico, il candidato sconfitto, assumendosi la responsabilità di non essere riuscito a contrastare l’astensionismo. Ma è un eccesso di autocolpevolezza. Non c’era riuscita neanche Todde in Sardegna, pur vincendo per un’incollatura. In entrambi i casi, a votare, erano andati metà aventi diritto. Al sodo, tutta la nazione a guardare, e i diretti interessati che, invece, scelgono di non partecipare.
La realtà è che sta diventando sempre più difficile colmare il solco tra i problemi che crescono e le soluzioni che difettano. E i cittadini ne prendono – più o meno consapevolmente – atto. Per riuscire a portare alle urne chi ha deciso di restare a casa non basta la buona volontà. Certo, può aiutare una leadership nuova ed aggressiva, ma funziona – quando funziona – meglio in ambito nazionale, con i media televisivi a supporto. Mentre sui territori servirebbero mezzi di comunicazione e persuasione di cui i partiti non dispongono più, a parte il fidato porta a porta, che rimane però circoscritto ai soliti bacini clientelari.
Il tarlo dell’astensionismo riguarda tutta la classe politica. Ma il centrodestra – almeno per il momento – può evitare di preoccuparsene troppo. Da quando – come progetto e come polo – ha preso forma grazie a Berlusconi, le sue percentuali complessive sono cambiate pochissimo. Ciò che è cambiato è il boccino della leadership, ruotando tra i vari partner. Oggi è in mano a Meloni, che se lo tiene ben stretto. All’opposto, il dilemma di Pd e Cinquestelle è se cannibalizzarsi a vicenda, o se piuttosto provare a pescare fuori dal lago in cui stanno affogando. L’idea iniziale di Schlein era stata questa. Assaltare il fortino oligarchico della nomenclatura democratica portando forze fresche alla kermesse delle primarie. Un atto di innovazione e di coraggio che le è valsa la conquista della segreteria.
Oggi, quella spinta propulsiva sembra essersi rapidamente esaurita. Lo slogan del campo largo come alleanza tra sigle di partito sta sottraendo energie e significato all’idea originaria di allargare il campo della partecipazione. Invece del messaggio semplice e seducente di aprire le porte dei circoli a nuovi bisogni e nuove forme dirette di partecipazione, la prospettiva politica si è chiusa nei distinguo su se e a quali condizioni creare o meno convergenze a breve o a lungo termine con questo o quell’alleato più o meno – spesso molto meno – di sinistra.
Certo, coi tempi che corrono, Schlein può consolarsi pensando che a Conte è andata peggio. Ma per riaprire davvero la partita, deve tornare a credere in se stessa, prima e a prescindere dalle alleanze che riuscirà a confezionare. Un leader si rivolge ai cittadini, non alle formule politiche. Meglio forse tenersi defilati dal calendario di elezioni locali, col loro ginepraio di trattative e improbabili candidature. E tornare ad alzare lo sguardo, e la gittata del messaggio. Provando a riportare alle urne un po’ di quella metà di italiani ormai ai margini della democrazia.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 11 marzo 2024).
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