La sinistra inspiegabile di Revelli

Davvero mala tempora currunt per la sinistra. E non da ora. L’ascesa al soglio governativo di una fascista-fascista ne è la prova più eloquente. Perfino ad una figura bene attrezzata come quella del professore Marco Revelli riesce non poco difficile dare ragione di quanto stia accadendo, e sia accaduto. Lo ammette esplicitamente, sin dal titolo, nel suo ultimo libro “Questa sinistra inspiegabile a mia figlia” (Einaudi, pagg. 163). Purtroppo, non è soltanto la sua immaginaria figlia adolescente a non capire, ma anche noi adulti, anche chi è da una vita a sinistra, anche noi più o meno della stessa età dell’autore.

Il ragionamento di Revelli non è proprio agevole. Ritiene che un ruolo storico di un qualche peso la sinistra lo abbia svolto fino alla caduta del Muro, cioè fino al fallimento del welfare e all’affermarsi in modo radicale del modello neo-liberale. E’ in questa fase infatti che la terza generazione dei comunisti italiani (quella del dopo Berlinguer) dà prova inequivocabile della propria incapacità adeguandosi supinamente al modello di società imposto. E’ questo che spiega per Revelli l’equivalenza che si è poi fissata nella coscienza del lavoratore fra destra e sinistra e l’indifferenza nella scelta dell’una o dell’altra parte. Ed è così che siamo diventati “ostaggi di una Destra tragicamente farsesca”(p. 149), costretti a subire “il negazionismo di La Russa, la sostituzione etnica di Lollobrigida, i saluti romani di Acca Larenzia”(p.148).

Per l’autore gli scricchiolii di questa ‘rottura’ è possibile, in verità, rinvenirli già agli inizi degli anni ’80, con l’evento emblematico dei “35 giorni della Fiat” quando si consumò “la resa dei conti finale tra il più grande potere industriale italiano e una forza lavoro che non si rassegnava a restare mero strumento si produzione ma rivendicava una propria ‘soggettività resistente’ “(p.113). In quello scontro, nonostante la generosa testimonianza di Berlinguer a favore degli operai, la sinistra rimase sostanzialmente al di sopra delle parti, decidendo di fatto di cambiare i suoi referenti sociali e di abbandonare il proprio insediamento di classe originario, “quella ‘classe operaia’ che gli appariva ormai un’ingombrante zavorra”(p.117).

Revelli vede nella sconfitta della classe operaia di Torino la fine della sinistra. Di formazione politica movimentista (di fatto sempre fuori dalla militanza ‘regolare’ in un partito), arricchita da una raffinata cultura letteraria e saggistica, egli ritiene ormai improbabile riuscire a mettere insieme la sua sinistra sperata e ‘immaginata’ con le tendenze oggettive della realtà. Se fino a quel momento, e con alle spalle l’esperienza del ’68, sembrava possibile fare entrare la realtà nel modello di sinistra ‘sognato’, ora appariva chiaro che la realtà, testarda, si rifiutava di entrare nello ‘stampo’ costruito. Tutta la prima parte del libro è infatti la descrizione minuziosa di cosa deve essere la sinistra e di cosa deve cercare, a prescindere dai processi reali. Veniamo così a sapere che l’uomo di sinistra, afflitto dal “disagio della realtà” (p.24) e per questo permanentemente esposto ad una “coscienza infelice”(p.21), non può lenire questa sua condizione cercando il potere in quanto, come gli accade col principio di realtà, lo “patisce”(p.33). L’impegno politico è per Revelli -e in questo caso cita James Billington- molto simile ad una “forma secolarizzata di ‘religiosità’ “(p.31) e, perciò (ripetendo Leszek Kolakowski), “non può fare a meno di un’utopia”(p.29). La dimensione utopica -continua- è “indispensabile per sfuggire alla trappola, oggi dominante, del ‘pensiero corto’, tipico di chi guarda da vicino il mondo invivibile che va costruendo”(p.60). Quello che Revelli può concedere al pensiero terreno è tutt’al più l’invito a tener conto del motto di un saggio orientale (ma non sappiamo chi sia) che “comprendere è la condizione della libertà”(p.48).

Sconfitta sistematicamente da una realtà di cui poco si tiene conto, il risultato che si ottiene è dunque quello dell’impotenza e della inutilità della sinistra, la quale, non riuscendo a modificare la negativa situazione data ne diventa addirittura complice. Nel libro è detto esplicitamente: a molti tra coloro che hanno condiviso “quel nocciolo duro dell’ideologia moderna che si chiama ‘Sinistra’ “ spesso sono stati forniti gli alibi per condividere la “materiale devastazione” dell’uomo e del pianeta(p.67). I danni dell’industrializzazione selvaggia causati in nome di un progresso male inteso, e però fatto proprio dalla sinistra, diventano la prova di queste affermazioni. Porto Marghera con dati e cifre “del disastro ambientale e umano” procurato, è portato ad esempio. A questo viene aggiunto, tra tanti altri, anche l’Italsider di Taranto (“diventata quel mostro mangia-uomini che conosciamo”) e il polo chimico di Gela (“un paradiso definitivamente perduto”) (p.75). Si tratta di considerazioni alcune delle quali sicuramente da condividere e che devono suscitare l’allarme necessario, ma nel libro tutto viene rubricato nella categoria generica di un progresso tecnico-scientifico da rifiutare tout court. La figura del citato Anselm Eibenschutz del romanzo “Fuga senza fine” di Joseph Roth è qui davvero l’allegoria di una sinistra “divenuta incapace, per fascinazione acritica, di misurare il peso falso di quell’idolo dorato chiamato Progresso” (p.81). Insomma, la conclusione è che è necessario che col progresso scientifico e tecnologico la sinistra marchi una netta antiteticità e incompatibilità. Naturalmente, molte contestazioni sarebbe facile fare a tale posizione davvero inaccettabile , ma ci limitiamo a quella capitale: che un mondo senza scienza e senza tecnica semplicemente non potrebbe esserci: sarebbe un mondo astratto, una fuga dal mondo.

Nel libro viene fuori una sinistra che ha fatto molti più danni di quanti non sia riuscita a ripararne e che, perciò, non si capisce a cosa serva. Purtuttavia vale ugualmente la pena di leggerlo: perché è scritto bene, perché offre spunti di un certo godimento letterario e perché lo si può leggere come un romanzo politico su una sinistra di sostanziale immaginazione.

Egidio Zacheo

1 Commento

  1. Grazie. Condivido in pieno e già scrissi qualcosa del genere sull’inutilità stessa dell’impegno politico “sano”. Una frase come (sentita a sinistra ad Alessandria da un nostalgico di Lotta Continua) “Una tessera non si nega a nessuno” fa capire molte cose. Che non c’è dialogo in ciò che resta dei partiti, trasformati in consessi in cui si entra per cooptazione e che hanno l’unico obiettivo di far su voti. Comunque. Serve l’ex sindaco di Roma silurato dal suo partito? Prendiamolo e puntiamo su di lui. Fa notizia la detenuta italiana in catyene in Ungheria? Bene. Prendiamo anche quella. Giustamente Revelli segnala che dagli anni Ottanta dello scorso secolo qualcosa si è inceppato. E una ricetta ci sarebbe: “Vuoi metterti in gioco, puntando su una candidatura e successivo ruolo amministrativo?” . Ok. Sei in un’area precisa politica. Studiatela e porta avanti quegli ideali, quei punti cardine. “Vuoi provare a far cambiare gli altri della tua coalizione su tematiche complesse e difficili”? Bene. Fai però capire come vanno le cose… perchè ti dicono no…perchè ti dicono si’…su cosa sono d’accordo e su cosa non sono d’acconrdo. Fallo conoscere sennò la tua presenza in un tavolo importante non verrà compresa e interpretata correttamente.

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