La Sinistra nella “selva oscura”

La piccola schiera di compagni e amici che segue le mie riflessioni su “Città Futura” si sarà forse accorta che da tempo scrivo sempre più raramente. Non è solo per via del mare estivo. Il fatto è che sono da tempo smarrito e sgomento “in politica”, come non mi era mai accaduto in una vita ormai giunta, più o meno, alla fatale vecchiaia. Tanto che quando scrivo un articolo politico da un po’ di mesi dico a me stesso – sia pure con lo spirito del bevitore che borbotta che il bicchiere che ha in mano sarà l’ultimo, o del tabagista che fa altrettanto con la sigaretta tra le labbra – “Ora smetterò per sempre”.

  Non so cosa debba ancora accadere perché ci svegliamo, come sinistra, da un sonno greve così lungo da rischiare di diventare comatoso. Forse è già troppo tardi. I tragici fatti di Genova, con il crollo di un viadotto e oltre quaranta morti – evento che non so se abbia uguali in paesi capitalistici avanzati da molti decenni – oltre a commuovermi – come credo sia accaduto a tanti – ha gettato olio sul fuoco sulla mia tendenza a pensare – senza osare di dirlo chiaro e tondo – che come sinistra abbiamo ormai subito una sconfitta epocale. Molto peggiore di quella del 1994, quando irruppe Berlusconi previo sdoganamento del neofascismo (che pure muoveva appena i primi passi nella propria autoriforma “democratica”). L’attuale crisi della sinistra ricorda non già il 1994, ma il 1922, senza che per questo si debba subito evocare “Bella ciao” o andare “a ritrovare” la “rossa primavera”, come i ragazzini a vita, stile Peter Pan, che credono di rispondere ai drammi del presente con una vecchia retorica da bandierone, che è certo stata conforme allo spirito del 1943/1945, ma che oggi è una forma di evasione dal problema più urgente del “che fare?”. Paradossalmente oggi la sconfitta della sinistra è stata inferta da forze politiche contrassegnate da un incredibile dilettantismo, tanto da contraddirsi su cose decisive ogni settimana, dalla richiesta di impeachment contro il Presidente della Repubblica alla rescissione della Società Autostrade prima ancora di sapere con certezza che cosa costerà al Paese e se sarà possibile attuarla, anche se l’istanza di statizzazione della gestione di un bene per tutti come le strade mi pare condivisibile. Ma prima di proclamarla sarebbe stato meglio valutarne per un paio di mesi la fattibilità.

  Queste forze di governo rischiano di far andare a pallino la più grande acciaieria d’Europa (a Taranto), di far naufragare la Torino-Lione. Non si peritano, in un Paese “così”, di deliberare l’autocertificazione delle famiglie in materia di vaccini. Fanno e faranno crescere lo spread fuor di misura, e a settembre, e da settembre, dovranno affrontare tremende contraddizioni interne, come il puntare sia alla detassazione radicale delle imprese (voluta da Lega e Destra) e sia il reddito di cittadinanza (voluto dal M5S); e ciò mentre lo Stato – cioè noi tutti – ha sul groppone quasi 2300 miliardi di euro di debito pubblico da pagare. Solo sulla diminuzione degli sbarchi di immigrati hanno ottenuto qualche successo, ma più scoraggiando questa rotta, e anche rendendola più mortale per i poveracci, che per nuovi patti tra paesi europei. Può darsi che la “strana alleanza” tra M5S e Lega vada presto in crisi (anche se non ci scommetterei se non pochi euro), ma in tal caso dietro l’angolo c’è un centrodestra a guida Salvini che già alle politiche aveva il 37% e che alle probabili nuove elezioni politiche – immagino di metà legislatura – supererà il fatidico 40% senza problemi, evidentemente con Salvini “duce”. Non si sa – credo dipenderà dalle prossime regionali “locali” e soprattutto dalle elezioni europee del 2019, che saranno importantissime – se la Lega romperà definitivamente con Berlusconi e Forza Italia, o se Lega e M5S faranno un polo loro (più o meno come quando fascisti e nazionalisti, camicie “nere” e “azzurre”, si unificarono all’inizio del 1922). Potrebbe persino accadere che M5S, Lega e Forza Italia (post-berlusconiana), formino un blocco quantomeno dopo le prossime elezioni politiche, cui potrebbero partecipare in ordine sparso: realizzando un’unione senza precedenti, da 75% dei voti, e determinando una svolta storica di tipo peronista, imperniata su Salvini. Costui è un uomo rozzo, ma piuttosto abile nella “politique d’abord” (alias nella “politica politicante”), dotato di un forte fiuto, o senso tattico, e contrassegnato soprattutto da una notevole “fortuna” (come Machiavelli chiamava le circostanze che non dipendono dal “principe”).

  Per parte sua la sinistra è certo in crisi, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. E si capisce. La sua politica è sempre consistita nell’usare le leve dello Stato per costruire il Welfare State, ridistribuendo la ricchezza accumulata dal capitalismo interno. Da John Stuart Mill a Keynes, dal Labour al New Deal di Roosevelt, dall’Union de la gauche di Mitterrand al centrosinistra italiano del secolo scorso. Ma la globalizzazione economica dei mercati e della finanza, e la rivoluzione robotica e informatica (che spezzano ogni limitazione economica nazionale o quasi, mettendo tutti i terrestri in concorrenza e contatto tra loro), e persino la benefica formazione di unioni continentali sovranazionali, hanno ridimensionato la possibilità di fare politiche redistributive efficaci “nazionali”; hanno insomma messo in ginocchio il Welfare State, che è ovunque sulla difensiva, mentre in astratto ci sarebbe bisogno – se fosse possibile economicamente – di espanderlo molto. E, soprattutto, hanno ridotto crudelmente i margini dello statalismo. Non si può più fare lo statalismo “in un solo Paese” (se non su scala molto ridotta). Oggi ci riprova – a tornare al Welfare State “in un solo Paese” – il “sovranismo”, col “populismo” al seguito, tentando di far tornare indietro la ruota della storia, chiudendo le frontiere ai migranti e imponendo i dazi doganali, sino a rilanciare le guerre commerciali. Si direbbe una classica linea di “ritorno forzato al passato”, tipica dei reazionari. È palesemente la nuova reazione con basi di massa degli anni Venti-Quaranta del Novecento (fascista e non), che torna. Ma riuscirà nel tempo della globalizzazione e della robotica, specie mantenendo la democrazia e soprattutto la pace tra grandissimi stati “avanzati” del mondo?

  Comunque si capisce che sovranismo (nazionale) e populismo piacciano a popoli in crisi “in cerca di protezione” come non mai, e anche che la sinistra, che guarda sempre al futuro, e che comunque è sempre stata per i diritti per tutti, non possa star dietro a questa destra che prova a “tornare indietro” alla ricerca del tempo perduto (ossia dell’amato Stato nazionale, che era poi il fondamento, in ere di crisi, del nazionalismo più o meno autoritario).

  Ma la crisi della sinistra italiana è pure connessa ad altro. La nostra sinistra assomma a tali difficoltà epocali – un tempo avremmo detto strutturali – quelle sue proprie. Ad esempio è così cieca da pensare di poter fare dello statalismo economico, nell’era della globalizzazione, con uno Stato da operetta, che lega le mani al Governo democratico, come né in Francia né in Inghilterra né in America si sognano di permettersi. La nostra sinistra, o cosiddetta sinistra, non ha mai capito che non c’è riformismo – né “di destra” né “di sinistra” né di “estrema sinistra” tanto per capirci – senza fare in modo che un governo possa governare tra un’elezione e l’altra senza essere costantemente sotto attacco e in bilico di cadere: sicché avere una sola Camera che desse la fiducia ai governi, un sistema elettorale a doppio turno e un premio alla lista vincente, come voleva il PD renziano sino al referendum del dicembre 2016, era, è e sarà il minimo per poter governare. Quel che non arriva “da sinistra”, quando è arcimaturo storicamente, arriva poi sempre da destra (è quasi una legge della politica; se volete si potrà “approfondire”, e “dimostrare”). Così dopo il renzismo sta arrivando, e soprattutto arriverà, il salvinismo, cioè il peronismo con la pummarola in coppa, il lepenismo all’italiana, il sovranismo spinto, il “fascismo senza fascismo”, che sembra essere la forma del fascismo del XXI secolo (che non abolisce parlamento e partiti d’opposizione, eccetera, ma li sterilizza al 90%, forse con soddisfazione diffusa da parte del “popolo sovrano”, diventato spesso umorale, nell’età della televisione, che corre dietro all’audience: finché esso popolo resta deluso dai suoi ora “facili amor”, si scotta, e cerca un altro che lo blandisca in modo più credibile, come già accaduto prima a Berlusconi e poi a Renzi).

  Quella della nostra sinistra è: 1) una crisi d’identità di vecchia data; 2) una crisi di leadership; 3) una crisi di progetti o programmi concreti “di sinistra”, da difendere con le unghie e con i denti; 4) una crisi di alleanze.

  1) Voglio dire poche parole sulla crisi d’identità per non annoiare troppo i lettori, e persino – a questo punto – me stesso. Per me il punto chiave è molto antico. Non è connesso allo scioglimento del PCI, che dopo il crollo del muro di Berlino (1989) e dell’URSS (1991), e in verità da decenni (per me “almeno” dal 1979), era necessario. Il punto chiave, piuttosto, è connesso all’illusione di poter smettere di essere comunisti senza fare una grande operazione positiva di riunificazione socialista e democratica di tutta la sinistra italiana, una scissione comunista del ’21 alla rovescia, o almeno un’operazione esplicitamente socialista democratica in proprio. In alternativa a questa scelta logica, si cercò – in odio al socialismo democratico ripudiato, e neanche ripreso “in proprio” in modo moralmente e istituzionalmente innovativo- una “terza strada” che in concreto – scartata appunto la soluzione idealmente, politicamente e organizzativamente socialista democratica – poteva, può e potrà essere solo “democratica senza aggettivi”, cioè liberale “progressista” o repubblicana: in una parola sradicata rispetto alla grande storia del movimento operaio e socialista italiano, di cui lo stesso comunismo era stato una grande famiglia separata. Quest’incapacità, però, non è stata solo di chi, sulle ceneri del PCI, ha fatto il Partito Democratico di Sinistra, i Democratici di Sinistra e soprattutto il Partito Democratico (e più oltre di chi, come Renzi, questo partito l’ha conquistato), ma di una sinistra esterna o interna a tale contesto rimasta quella di prima “meno il comunismo”, o se si vuole di comunisti ed ex socialisti senza la fede – e i miti – di prima, cioè peggiorati (come gli spretati rispetto alla chiesa, o i preti che non credano in Dio). Perciò la disfatta identitaria non è solo del PD, ma anche di tutto quello che stava e sta tra Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia e Libertà e alla fine Liberi e Uguali, ossia del “pensiero debole” comunista, o ex comunista, che non ha mai voluto diventare socialdemocratico europeo se non a chiacchiere (restando, se non comunista, “ex comunista”: l’area degli ex comunisti, con la solita manciata di socialisti massimalisti al seguito). Così gli uni – quelli della “filiera” dal PDS al PD – hanno rinunciato all’immensa elaborazione dottrinaria e programmatica, alla narrazione, all’accumulazione di esperienze, alla finalità post-capitalista quantunque per ora senza soluzione, e alle rosse bandiere, idee di “riscatto del lavoro” che “dei suoi figli opra sarà”, alla centralità dei lavoratori dipendenti, all’idea dei servizi sociali per tutti, spesso al profondo senso di solidarietà e simpatia per gli ultimi, e al bello spirito libertario, che pur tra molta confusione, e al potere pure con forte corruzione, erano stati il lascito del socialismo in Italia, e anche del miglior comunismo (italocomunismo, migliorismo, eccetera); gli altri, “più di sinistra”, hanno optato per il post-comunismo, per “il comunismo senza comunismo”, per il PCI “meno lo stalinismo”, per i sogni vacui di una “terza via” né comunista né socialdemocratica dell’ultimo Berlinguer. Mentre in Francia hanno potuto fare più volte l’alternativa di sinistra grazie alle leggi elettorali golliste, e in Inghilterra grazie a un forte premierato, che vale dal giorno dopo le elezioni alle nuove elezioni, qui erano (anzi, sono) ancora fermi alla proporzionale del 1948 e alla paura del “Capo” (il Mussolini di turno). Ancor di più fuori dal PD, dove avendo la possibilità di farsi dirigere da uno col carisma unitario dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che è stato tra i pochissimi a capire che a sinistra si può pure avere l’incontro-scontro tra componenti, ma non lo scontro fratricida (insomma tra i pochissimi ad essere neosocialista, pluralista unitario nell’anima), gli hanno preferito un vecchio giudice che sino a settant’anni non aveva fatto politica in un partito, in quanto “manovrabile” da oligarchi d’antico pelo: perché tanto il “Capo” non conterebbe niente (in base a un ex marxismo da Bignamini). Forse seguendo quella via, con Pisapia, con l’unità nella diversità della sinistra (spirito della vera socialdemocrazia europea), con un PD in crisi avrebbero preso il 10%. Ma loro non sono i Corbyn all’italiana: sono i malinconici figlioletti, nipoti e pronipoti dell’ultimo Berlinguer.

  2) A questo punto la crisi di leadership, che ho detto essere il secondo fattore di crisi, è evidente. Senza i vecchi partiti di popolo della prima Repubblica, che non ci sono più per nessuno per molti motivi non certo contingenti, che non investigo qui; e nel tempo, maledetto, ma reale, dei mass media in specie televisivi “et similia”, il leader è un collante indispensabile anche in tutte le democrazie, addirittura del mondo (come ci ha spiegato Calise, con altri), e il non capirlo è quasi una forma di ignoranza allo stato puro. Per me Renzi ha avuto molte buone ragioni. E nell’insieme lui e Gentiloni hanno governato bene (anche se non hanno potuto risolvere una crisi economico-sociale profondissima, ma solo “tenere la rotta” nella tempesta delle crisi, e dare qualcosa a forze sociali però disagiate in modo grave, scontentando perciò masse in grandissima crisi; anche se è da dimostrare che altri faranno meglio, almeno attenendosi grosso modo alla democrazia costituzionale). Un giorno si comprenderà che chi ha fatto fallire il modesto premierato prefigurato da Renzi e compagni col referendum del dicembre 2016 (doppio turno, premio alla prima lista, eccetera), ha letteralmente tirato la volata al centrodestra, e all’Italia non solo e non tanto di Di Maio e di Salvini, ma di Salvini “tout court”, ossia al lepenismo o trumpismo all’italiana: ad un’Italia alla sud-americana, peronista (ormai totalmente incombente), di fronte a cui il decisionismo di Renzi apparirà come il costituzionalismo di Calamandrei o di Norberto Bobbio (il decisionismo ragionevole e liberale che ci avrebbe evitato quello fascistoide, accogliendo l’istanza d’ordine sociale democratico, ma non il mix di nazionalismo, populismo e “ducismo” che si portava dietro). Ma è inutile piangere sul latte versato. Il punto è che il PD per poter rinascere e tornare competitivo alla grande, dovrebbe trovare – in modo “più veloce della luce” – un leader forte come era stato Renzi sino alla fine del 2016, nella pienezza dei suoi poteri di segretario eletto da iscritti ed elettori e candidato premier. Il problema non è quello di cambiar nome per la quarta volta dal 1991 al primo partito della cosiddetta sinistra. Questo avrebbe senso solo in una chiave fortemente neosocialista, e non certo per scopiazzare Macron senza neanche la democrazia “forte” dell’alternanza propria della Francia, che l’ha reso possibile. Il problema è quello di eleggere in modo celere, con primarie, un segretario nella pienezza delle sue funzioni com’era stato Renzi sino al dicembre 2016. Non certo un segretario a sovranità limitata, condizionato da quello di prima e col cappello in mano. Come si fa a non capirlo, o ad essere così poco generosi da far finta di non capirlo?

3)   Poi c’è la questione progettuale, o programmatica. Ormai ci sono grandi problemi sul tappeto come: la gestione delle infrastrutture pubbliche, scoperchiata dalla tragedia di Genova; la gestione italiana ed europea degli sbarchi degli immigrati, e di tutta questa povera gente che arriva, da salvare, ma da mettere subito a lavorare, magari per i Comuni, se la si accoglie anche provvisoriamente; i sistemi di tassazione (o meglio di detassazione, ma equa); le opzioni per riqualificare chi perde il lavoro o non lo trova; lo sviluppo delle forme di reddito d’inclusione; l’indilazionabile sveltimento della giustizia penale, e il ritorno a giudici che parlino quasi solo attraverso le sentenze; la lotta senza  quartiere alla criminalità organizzata; le proposte di raccordo tra partiti socialisti e verdi d’Europa; la riforma istituzionale dell’Unione Europea in senso efficacemente democratico (ad esempio com’era stata definita da Joska Fischer quand’era ministro tedesco della Germania); le nuove riforme per la governabilità del Paese almeno tra un’elezione e l’altra; una legge sull’organizzazione dei partiti.

 Occorrono, su tutti questi punti, idee forti, convinte e convincenti, non soggette, come accaduto con la legge elettorale – passata dal maggioritario a due turni e con premio di maggioranza ai pasticci, evitabili, del Rosatellum – a cambiare a ogni mutamento di vento. Un partito vero deve avere una linea, pur soggetta a “qualche variazione”, per la quale è pronto a farsi mettere in minoranza, ma non a passare dal “tutto” al “contrario di tutto” come se si trattasse di cambiar camicia.

 4) Infine ci vuole una politica se non delle alleanze, almeno delle convergenze, quale sarà l’interlocutore primario che verrà individuato: o “la sinistra” alla Fico del M5S (spero io), oppure Forza Italia dopo Berlusconi. L’idea che solo il PD, in Italia, possa non avere alleati forti, quali essi siano, è bambinesca. Ma lo è anche il voler fare alleanze “senza dirlo”. –

  Tutte queste cose, o almeno un paio tra esse, “ci vorrebbero”. Ma mi pare evidente che tanto sui problemi identitari che di leadership, e progettuali e delle alleanze, il PD balbetti. Aspetta sempre Godot. Ormai invece del preteso tiranno Renzi abbiamo alle viste il leader nazionalista e populista Salvini, ossia un mezzo duce, sia pure in contesto parlamentare (ma svuotato). Finché su TUTTI questi punti non vedrò luce a sinistra, mi piacerebbe riuscire a starmene zitto. Non vedendo soluzioni. Non farò mancare il mio contributo a Città Futura, ma finchè non riuscirò a vedere qualcosa di veramente credibile almeno su qualcuno dei punti indicati, mi occuperò di temi non direttamente politici, che per fortuna trovo altrettanto importanti per me e per tutti. Ormai debbo economizzare le mie forze. Sono ormai troppo vecchio per fare il cane di sinistra che abbaia alla luna.

  (franco.livorsi@alice.it)

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