La Sinistra residuale e il tentativo di Draghi di addomesticare le “destre”

Vari amici e compagni mi hanno rivolto critiche argomentate ai miei ultimi interventi scritti e pubblicati sulla nostra rivista. Intendo rispondere a costoro non solo per il fatto che i rilievi sono stati mossi con affetto e con intelligenza e meritano da me una attenzione doverosa, ma sopratutto perché i temi sollevati sono importanti nel dibattito attuale nelle forze progressiste e che, dunque, superano di certo il semplice confronto fra compagni che discorrono delle prospettive generali ma che non hanno dirette responsabilità dirigenziali a livello nazionale. In sostanza i rilievi e i limiti che mi si addebitano sono due:

  • Il sottoscritto continua a parlare di sinistra come se essa esistesse ancora, ma essa purtroppo è scomparsa, inghiottita nella pancia del PD, e la restante parte esterna a tale formazione è irrilevante e spesso confusa sui temi strategici.
  • La mia critica alla figura e alle politiche di Draghi è fondamentalmente sbagliata perché a costui non vi sono reali alternative ed io non sono stato in grado di illustrarne in definitiva nessuna.

Come dicevo, i rilievi sono pertinenti e individuano sicuramente dei punti deboli del mio ragionamento dei mesi scorsi. Intendo affrontare un tema alla volta. Iniziamo dal tema della sinistra che non esiste, come si è espresso un importante dirigente del PD, Goffredo Bettini. Se la sinistra radicale ed antagonista si è ridotta ai minimi termini ed è frantumata in una miriade di organizzazioni, è altrettanto certo che nel Partito Democratico prevale ormai nei gruppi dirigenti una cultura liberale e a volte apertamente moderata, che con la tradizione della sinistra c’entra poco. Tuttavia, il PD, per lo meno all’inizio della storia, ha ereditato l’insediamento della sinistra e assunto il ruolo, all’interno del sistema politico – sociale italiano, la difesa dei ceti popolari in contrapposizione delle varie destre che si oppongono al mondo del lavoro. Questo ruolo di difensore delle classi lavoratrici è per il PD punto di forza e allo stesso tempo ritenuto dalle sue classi dirigenti un limite al ruolo che questo nuovo partito liberale di massa vuole assumere; ovvero acquisire una centralità nel sistema istituzionale italiano e assumere la caratteristiche di grande partito interclassista e nazionale, senza nessuna specificazione culturale particolare, ma anzi cercando di assorbire tutte le culture annullandole dentro l’assunto che oggi esiste solo il mercato e la società liberale come principio cardine della regolazione della vita civile. In sostanza, i democratici italiani hanno un gruppo dirigente troppo moderato rispetto alle esigenze politiche della propria base sociale, caratteristica, dunque, opposta alla situazione che si determinava nella DC, in cui militanti e funzionari dei vari livelli erano tendenzialmente più spostati a sinistra rispetto ai gruppi parlamentari e alla base del partito. Tirando le somme, l’idea del PD ‘partito sistema’ è ormai fallita, perché le continue rotture perseguite con le proprie classi di riferimento ha determinato un continuo indebolimento delle strutture organizzative e della forza elettorale. Un Partito Democratico del venti per cento scarso non è ‘centrale’ rispetto al sistema istituzionale, ne può rappresentare la sinistra viste le culture sopra citate circolanti al suo interno. Dobbiamo rassegnarci a constatare amaramente che la sinistra esiste solo come espressioni culturali che si esprimono in qualche associazione e che non sono in grado di coagularsi attorno ad un progetto politico? E’ difficile rispondere a tale quesito esprimendo un sicuro ottimismo sul futuro politico delle sinistre e la tentazione di lasciarsi andare ad un pieno sconforto è grande. Malgrado tutto ritengo che negli ultimi anni, sulla scia della crisi dell’egemonia del capitalismo e del sistema di regolazione liberale, ha ripreso vigore una critica della economia politica e della sciocca fede nel mercato che aveva pervaso la sinistra degli anni novanta, e si torna in molti ambienti a rivalutare il ruolo del pubblico, dello stato sociale e riacquista senso il discorrere di una rinascita del socialismo in forme nuove. Sono segnali di timide iniziative culturali e in parte politiche, e certe tendenze sono state più forti negli USA e in Gran Bretagna nel laburismo, e senza farsi soverchie illusioni non si possono lasciar cadere questi elementi di novità, pur ancora così deboli e insicuri. E’ necessario saper coltivare il terreno nuovo cercando di far crescere ciò che ancora oggi non c’è, ma che è necessario che ci sia, piuttosto che lasciarsi andare ad una lunga lamentela, francamente stucchevole, del dato sconfortante della situazione attuale.

Il secondo tema, comunque legato al primo, è molto complicato. Esso attiene ad un giudizio relativo alle alternative possibili alle politiche monetariste e si lega, per vari aspetti, ad un giudizio non solo sul tasso di cultura moderata che ha Draghi, ma sopratutto a ciò che vogliamo definire come sinistra. Le politiche liberiste o ordoliberiste, a cui è legato per forma mentis e per ruolo Mario Draghi, hanno determinato l’unità monetaria e di mercato del continente, ma non un corrispettivo processo di integrazione dei sistemi democratici dei vari paesi europei, delle loro espressioni culturali e nazionali, dei tessuti sociali e economici. Al contrario, si sono verificate all’interno dell’Unione frequenti tensioni fra paesi e spinte secessioniste interne alle compagini nazionali, e la tendenza che viene segnata dalla egemonia liberista fa emergere fenomeni di risorgente nazionalismo, e l’esito più probabile della spinta alla integrazione economica è un violento emergere di un polo egemonico centrato su una o due nazioni forti che ingloba e disgrega tutte le altre unità nazionali.

In questo senso il governo Draghi è una scommessa per la sinistra rischiosa; rischiosa perché non è detto che il premier attuale sia in grado di modificare, e voglia modificare, i trattati in modo tale che questi rappresentino una vera svolta keynesiana , come molto progressismo auspica, e inoltre, ci si illude sulle modalità pacifiche e tranquillizzanti che il processo di integrazione europea dovrebbe avere, essendo queste determinate sul medio periodo da prevedibili scossoni politici sopra illustrati succintamente.

Ciò che si può dire con qualche certezza adesso è che se il PD sposa in tutto la linea del Draghi ‘novello Prodi’, la linea ‘dell’agenda Draghi’ come programma fondamentale del centrosinistra, allora i democratici italiani si preparano ad essere alleati strutturali non solo di Forza Italia e della tradizione residuale del berlusconismo, ma debbono accettare buona parte del bagaglio culturale della Lega, che resterà un partito con una profonda cultura di destra anti – illuministica pur se venisse questa ‘de – salvinizzata’. Senza contare che in una prospettiva di continuità essenziale dell’impianto di maggioranza che regge attualmente la compagine ministeriale, il rapporto con il neo – sciovinismo della Meloni diventerebbe non più di contrapposizione frontale ma di collaborazione ambigua fra un governo non sempre certo della sua autorevolezza e capacità di conservare consenso e una opposizione che facilmente gonfia le sue vele con la protesta. In ultimo, di fronte alle richieste che già emergono sulla riforma della giustizia, su quella del fisco e su quelle sociali e del lavoro, il ruolo del programma progressista del PD è messo definitivamente da parte. Si vede già bene adesso come questo sia il prezzo alto da pagare alla operazione che dovrebbe giungere, come risultante, ad una Lega non più capitanata da Salvini. Il PD, se cede in finanziaria e sulla riforma del fisco e del mercato del lavoro alle tesi storiche delle destre, pur di aggrapparsi al governo Draghi e alle sue esigenze, semplicemente scompare nella politica e nella società, si limiterà ad essere un apparato di parlamentari con una sede nazionale e una sigla che ormai rappresenterebbe solo il nulla. Resta, dunque, da comprendere chi, nel caso il PD si immoli alle esigenze di questa neo-strategia centrista, potrà rappresentare nel conflitto sociale il polo del lavoro contrapposto a quello delle imprese. E’ una domanda che non può che interrogare i soggetti sociali, le associazioni storiche della sinistra e il sindacato, e il quesito coinvolge in coscienza tutti coloro che si sono posti l’obiettivo di contrastare o semplicemente stigmatizzare il diffondersi del ‘sentimento populista’ nella nostra società.

Alessandria 27-09-21

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