I due aspetti sottolineati un po’ da tutti, nel nuovo assetto dei grillini, sono lo sdoganamento delle alleanze elettorali e l’abolizione del vincolo del doppio mandato. Per il momento, hanno effetti limitati. Alle prossime regionali, difficilmente vedremo novità. E il lasciapassare per la ricandidatura serve soprattutto alla Raggi. Ma ci sono altre due conseguenze, di maggiore portata, che fanno del voto su Rousseau un vero e proprio spartiacque, per i Cinquestelle e per il governo.
La prima riguarda il passaggio difficile di metà settembre. Nell’arco di una settimana, avremo il ritorno a scuola e l’elezione dei governatori. Se continua il trend di aumento rapido dei contagi di questi ultimi giorni, arriveremo a questi due appuntamenti in uno stato di fibrillazione. I massimi sforzi, al momento, sono per circoscrivere i focolai. E se tutto andasse per il meglio, forse tra un mese dovremmo essere riusciti a evitare nuovi lock-down di ampie dimensioni. O forse no. Nessuno, al momento, è in grado di dirlo. Ma è facile prevedere quanto salirebbe la temperatura sociale – e politica – se molte scuole venissero chiuse, e se in qualche regione si dovesse esser costretti a rimandare il voto. Inutile farsi illusioni. L’autunno, per il governo, si annuncia caldo, caldissimo. Senza contare tutti i nodi economici – disoccupazione, fallimenti di imprese, ritardi nella progettazione europea – che già sappiamo che verranno al pettine.
Proprio rispetto a queste prospettive di incertezza e di allarme, la svolta M5S è un segnale preciso di rasserenamento – almeno – del clima interno alla maggioranza. Dopo un anno sempre sul filo – un piede dentro e uno fuori, e la testa non si sa bene dove – la leadership del movimento, con un consenso ampio della base, ha operato una netta scelta di campo. Per la prima volta Conte – e il Quirinale – può fare affidamento su una alleanza strategica tra le principali forze che lo sorreggono, con un traguardo di legislatura e, probabilmente, anche oltre. Se si mette sul piatto anche l’appoggio incondizionato dell’Europa, l’Italia sembra – finalmente – intravedere una stagione di stabilità che, fino a ieri, appariva una chimera.
A rendere più solida e credibile questa linea, c’è la maturazione – ai vertici pentastellati – di un primo nucleo di ceto politico professionale, intenzionato a mettere mano alla costruzione di un apparato partitico. Nel commentare la fine del vincolo dei due mandati – oggi per i consiglieri comunali, domani certamente anche per i parlamentari – ci si è fermati alla sacrosanta notazione che si comincia finalmente a premiare i processi di professionalizzazione e istituzionalizzazione senza i quali si continuerebbero a mettere le sorti del paese in mano a dei principianti, e spesso apprendisti stregoni. Ma l’aspetto ancora più importante, è che in questo modo la leadership ha finalmente uno strumento di selezione e promozione delle carriere che, fino a ieri, mancava. Che si tratti di merito o fedeltà – o, come di solito succede, di un mix – un sistema di incentivi è essenziale perché i capi possano garantire che la piramide di comando nel partito funzioni. Altrimenti – come già si è visto – come si fa a impedire la diaspora – o la ribellione – di chi sa che non ha più nulla da guadagnare a rimanere nei propri ranghi?
Fino a ieri, ai vertici grillini mancava questo fondamentale potere. Il potere di premiare o punire l’abnegazione o l’infedeltà. Ora, si cambia registro. Con un esito che si avvertirà subito fin dalle prossime settimane. Tutti i parlamentari più turbolenti si stanno già facendo i conti su come rientrare tra le righe, e partecipare alla costruzione di una vita politica che non è condannata ad esaurirsi in un paio di legislature, ma acquista orizzonti ben più ampi. Un po’ più lentamente, questa medesima logica verrà introiettata anche nelle assemblee comunali e regionali. Dove molti cominceranno ad apprezzare la possibilità di fare alleanze, e assaporare i vantaggi della gestione, se non c’è più il capestro di mollare comunque dopo pochi anni. La leva dei barricadieri verrà gradualmente sostituita da una più pragmatica, e filogovernativa.
Anche perché – ed è un elemento importante che ha molto facilitato questa svolta – l’elettorato sembra essersi abituato al nuovo corso. Dopo la crisi vertiginosa dei consensi nell’anno di alleanza con la Lega, l’emorragia pare essersi fermata. Con qualche mugugno e inevitabile dissenso di una fascia di militanti, la base dei voti oscilla tra il quindici e il venti per cento. Più che abbastanza per fare il salto da movimento a partito. Anche giovandosi di una cabina di regia che, in questi mesi, è cresciuta di statura politica. A cominciare da Di Maio, demiurgo di questa transizione. Passato con una rapidità impressionante dal ruolo quasi suicida di plenipotenziario assoluto – superministro e supercapo – a quello di regista felpato ma determinato della svolta. Per un giovane rampante sul quale in tanti avevano sprecato ironie e necrologi, è proprio il caso di dire: chapeau.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 17 agosto 2020).
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