Un interessante libro di Carlo M. Cipolla, “Tre storie extra vaganti”, narra, in tre capitoli, la storia della famiglia Bardi, grandi banchieri fiorentini dei secoli XIII e XIV, commenta due trattati economici francesi pubblicati nel XVII e nel XVIII secolo e racconta la vicenda della truffa dei luigini.
Quest’ ultima si può così riassumere: durante il regno di Luigi XIV (1643/1715), nel corso degli anni Cinquanta, le zecche reali francesi coniarono una nuova serie di monete d’argento: uno scudo, mezzo, un quarto e un dodicesimo, detto luigino perché presentava l’effigie di un giovane Re Sole.
I pezzi non erano battuti con il martello ma con il torchio a bilanciere, quindi erano rotondi, belli a vedersi oltre che di alto titolo d’argento. Ciò li rese graditi nelle transazioni commerciali in tutto il Mediterraneo e in particolare nell’Impero Ottomano.
Quest’ultimo, fra il XVI e il XVII secolo, dominava il Mediterraneo centro-orientale, estendendosi dalla penisola balcanica all’ Asia Minore, Mesopotamia, Siria, Egitto Tunisia fino all’Algeria.
I turchi erano la minaccia costante dell’Europa cattolica e non bastò la sconfitta di Lepanto (1571) a fermarli.
L’impero era densamente popolato, ricco di risorse e attraversato da notevoli flussi commerciali fra Asia ed Europa.
Gli Ottomani esportavano cuoio, lana, cera, cotone, seta, allume di rocca, canapa, spezie perle e porcellane.
Limitata era invece l’esportazione dei cereali, del legname e del ferro per motivi strategici: servivano a sfamare la popolazione e a rifornire la potente flotta turca.
Le importazioni erano notevoli: berretti di Marsiglia, zucchero non raffinato in pani, “Mahout” (panno grossolano inglese e francese), panni di tipo levantino, carta in risme, verderame. E ancora, la cocciniglia, il legno del Brasile, le spezie delle Indie orientali, manufatti veneziani (in primis vetro e specchi), minerali inglesi (stagno e ferro).
Era poi molto attivo il commercio degli schiavi: a metà del XVII secolo una vergine costava 800 piastre, mentre una schiava abile nel ricamo o nel suonare uno strumento oscillava dalle 500 alle 2000 piastre.
Fra ‘500 e ‘600 nell’Impero Ottomano circolavano grandi quantità di monete, anche straniere, a cominciare dallo zecchino veneziano (il dollaro dell’epoca).
Nella pratica mercantile le monete più usate erano quelle d’argento (l’oro era tesaurizzato dallo stato): piastre e aspri turchi, talleri del leone olandesi e colonnati spagnoli, luigini francesi.
Lo svilimento della lega d’argento degli aspri li aveva resi meno appetibili rispetto ai luigini, favoriti dall’alto titolo, dalla buona fattura, dalla bellezza artistica e dalla rappresentazione di una figura umana (pratica vietata ai musulmani).
La richiesta dei luigini poi aumentò anche per motivi voluttuari. I ricchi turchi amavano ornare le proprie donne con gioielli in cui erano incastonate decine di luigini, sia per amore del bello sia per ostentazione di ricchezza.
Pur di averli quindi i sudditi del sultano erano disposti a pagarli non uno scudo per 12 pezzi, ma uno per 8 e addirittura uno per 7. Il luigino venne quindi chiamato anche ottavetto, perché cominciò a valere 1/8 di scudo e non più 1/12.
A questo punto in Europa si decise di sfruttare l’opportunità battendo monete simili, di lega però inferiore, da spendere sul mercato ottomano, approfittando del desiderio di possesso, della voglia di ostentazione, dell’ingenuità e della poca conoscenza della moneta in questione da parte di molti turchi.
I primi luigini di questo tipo furono coniati a Trevoux, zecca francese appartenente alla principessa di Dombes, ancora di buona lega e con una accattivante figura femminile che tanto incarnava i gusti degli ottomani. Poi si scatenò il finimondo.
Feudi imperiali, con il diritto di battere moneta, situati in posizioni difficili da raggiungere (spesso al confine fra più stati), cominciarono a coniare scadenti imitazioni dei luigini di Dombes, spesso anonime, per rendere difficile l’identificazione dell’autorità emittente.
Il gioco era condotto in particolare da speculatori genovesi, che, approfittando della posizione di molti feudi imperiali nel territorio della Superba, si accordarono con i signori del luogo perché facessero funzionare a pieno ritmo le loro piccole officine monetarie.
Centinaia di milioni di monete scadenti fecero affluire nelle casse di quei mercanti senza scrupoli milioni di piastre turche di buon peso e di buon argento, arricchendoli.
A queste zecche se ne unirono anche alcune importanti, con emissioni a volte di buon livello, Firenze (per Livorno), Lucca, Avignone (città pontificia), Modena e la stessa Genova, creando ulteriore confusione e facendo prendere una china pericolosa al fenomeno.
Nel 1665, gli inglesi che operavano a Livorno, gli unici a non avere le mani in pasta in questo losco affare, temendo di essere danneggiati nei pagamenti dal vorticoso flusso di luigini contraffatti, rivolsero una lamentela alla Sublime Porta (il Sultano), che a sua volta inviò una protesta a Luigi XIV.
Nel 1666 il re di Francia proibì la coniazione di tutti i luigini nel suo regno, seguito nel 1667 dal granduca di Toscana, da Genova e dal duca di Savoia, preoccupato dall’abbondante circolazione di ottavetti nella contea di Nizza, provenienti soprattutto da Monaco, Avignone, Tassarolo e Loano. Nel 1669, il Sultano ne vietò la circolazione e prese pesanti provvedimenti contro contraffattori e contrabbandieri.
I decreti però ebbero effetto solo quando i luigini scadenti cominciarono ad evidenziare le loro magagne, molti assunsero un colore rosso, data la grande quantità di rame nella lega.
La richiesta di luigini nell’Impero Ottomano fu tale da comprometterne la stabilità monetaria, economica e politica: anche l’esercito pretese di essere pagato con quelle monete, minacciando una rivolta.
Le zecche italiane coinvolte in questa vicenda furono almeno venti e la quantità di luigini contraffatti fu spaventosa, non esistono molti documenti sul numero e la qualità dei pezzi battuti, proprio per non lasciare tracce compromettenti, ma da quei pochi dati certi si può immaginare tutta la gravità del fenomeno: solo la zecca di Loano batté qualcosa come 800.000 luigini adulterati. La vicenda si concluse nel 1670, ma cinque anni dopo si calcolò che circolavano ancora 180 milioni di monete di quel tipo. Ciò che non riuscì ad Hitler, distruggere l’Inghilterra stampando sterline false, riuscì agli speculatori liguri: la demolizione dell’economia turca.
La contraffazione delle monete non fu un fenomeno raro né nel Medio Evo, né nell’era moderna, si pensi a mastro Adamo, citato da Dante nell’”Inferno”, ma il caso dei luigini fu veramente di proporzioni colossali, comportando anche problemi di natura morale.
Il vescovo di Tortona, mons. Settala, in una lettera indirizzata a papa Clemente IX, in data 28 dicembre 1668, definì questo illecito commercio un danno deplorevole subito dal Cristianesimo.
Più indulgenti furono i confessori della principessa Centurioni, moglie del signore di Tassarolo, e della principessa Doria, feudataria di Loano: Alla domanda se avessero fatto peccato falsificando moneta, quelli diedero le seguenti risposte: non era peccato ingannare gli infedeli; chi prendeva moneta straniera senza fare l’analisi chimica lo faceva a suo rischio e pericolo. Essendo ormai i luigini trattati come merce e non come moneta potevano avere il titolo d’argento e le immagini che piacevano ai clienti. Infine, spesso erano cattive imitazioni perciò se chi le accettava non se ne accorgeva…peggio per lui. Insomma l’anima era salva.
Le zecche erano collocate in luoghi appollaiati sugli appennini, spesso confinanti con più stati, difficili da raggiungere, per chi volesse veramente stroncare l’illecita pratica. Nella provincia di Alessandria ve ne erano tre, dominio della potente famiglia Spinola di Genova: Arquata Scrivia, Tassarolo e Vergagni (oggi frazione di Mongiardino ligure).
Il primo era posto fra il territorio della repubblica di Genova e il ducato di Milano. Il secondo era incastrato fra i due stati citati e il marchesato del Monferrato, il terzo nell’alta val Sisola, a ridosso del territorio della Superba.
I signori di Tassarolo e Arquata ebbero dall’imperatore del Sacro Romano Impero il diritto di battere moneta, creare notai e concedere titoli di dottore, rispettivamente nel 1560 e nel 1641. Per Vergagni la data non è chiara.
Questi territori non avevano bisogno di molto circolante, bastava quello dei paesi vicini, in particolare la valuta genovese, il maggior utile gli Spinola lo traevano concedendo i titoli di notaio e dottore a caro prezzo. La zecca però era il simbolo dell’autonomia dei feudi, per cui periodicamente venivano coniate piccole quantità di monete di grande valore, ongari d’oro (simili agli zecchini), talleri e ducatoni d’argento, chiamate monete di ostentazione, battute proprio per ribadire quel diritto.
L’attività divenne intensa quando mercanti senza scrupoli, con la connivenza di zecchieri altrettanto disinvolti, presero in appalto le tre zecche per la produzione di luigini contraffatti da inviare nell’Impero Ottomano. Nel 1663, un certo Valentino Berti, tentò di introdurre a Smirne 2000 pezzi alterati provenienti da Tassarolo, fu scoperto, perse il carico, ma riuscì a fuggire salvando almeno la vita.
I guadagni degli Spinola in questione furono elevati: il conte di Tassarolo percepiva per l’affitto della sua officina monetale 2000 crosazzi genovesi annui, da versargli a Sampierdarena.
Il marchese di Arquata, oltre all’affitto annuale, 1800 crosazzi, ne riceveva 57 al mese per una produzione di monete equivalenti a 3200 once d’argento annue.
A questo punto è difficile pensare che gli Spinola non fossero al corrente dei traffici illeciti che prendevano origine dalle zecche di loro proprietà. Tanto più che a Tassarolo furono imitati anche pezzi da 8 bolognini battuti a Massa e circolanti in varie parti della Toscana (pecunia non olet).
Il duca di Massa, Alberico Cybo II, nel 1665, informò di ciò l’imperatore, a Vienna, e l’affare venne rapidamente insabbiato con il ritiro dei pezzi incriminati.
A onore del vero bisogna dire che nei secoli XVI/XVIII i problemi erano numerosi anche nella circolazione delle monete coniate regolarmente dai singoli stati. Testimonianza di ciò sono le gride che tutti i sovrani e signori d’Europa emanavano regolarmente per equiparare il valore delle monete nazionali a quelle straniere che circolavano abbondantemente nei loro domini.
Il motivo era che in un contesto in cui le monete erano solo metalliche, si accettavano tutte purché fossero di buona lega e buon peso. Però ogni stato batteva pezzi di peso e titolo diversi, tanto da creare non pochi problemi: innalzamento dei prezzi, tesaurizzazione, fuga dei metalli nobili in paesi più accoglienti, rarefazione del circolante.
E’ interessante il funzionamento delle piccole zecche in questione. Come già detto, non ci sono molti dati a disposizione, però possiamo immaginarne l’attività, basandoci su ciò che sappiamo sulle grandi zecche (Venezia e Firenze, ad esempio).
Certamente a Tassarolo, Arquata, Loano o Fosdinovo, per citarne alcune, non c’erano magistrati e ufficiali addetti al controllo della bontà della moneta, operavano solo uno zecchiere con i suoi aiutanti. E non c’era il flusso di mercanti e privati, che portavano grandi quantità di monete straniere, oro o argento in lingotti, o solo la pesante argenteria di famiglia da trasformare in buoni zecchini, talleri, testoni o quattrini.
Gli unici frequentatori di queste piccole officine erano gli speculatori coinvolti nella truffa, che si presentavano portando con sé le quantità di argento, rame e altri metalli, sufficienti a produrre un certo numero di luigini adulterati. Per ognuno di questi lo zecchiere e la sua squadra percepivano una percentuale, una specie di diritto di signoraggio. Era un grosso affare che molti avrebbero voluto perpetuare.
Egidio Lapenta
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