L’alfa e l’omega dell’infinito Orson Welles

  Too Much Johnson (1938, α) e The Other Side of the Wind (1972-2018, ω)

L’orizzonte della cultura cinematografica, tra il 2008 e il 2013, venne mosso con forza dalla diffusione di una notizia tanto sbalorditiva quanto situabile ai limiti dell’incredibile. L’opera prima di Orson Welles, Too Much Johnson, realizzata nel 1938 ma considerata perduta dallo stesso autore, che la riteneva andata in fumo con l’incendio 1970 della sua villa madrilena, era stata ritrovata fortuitamente in un magazzino di Pordenone: e nella stessa città sarebbe stata poi presentata, in prima mondiale, il 9 ottobre 2013 dalle locale e gloriose Giornate del Cinema Muto.

A questo straordinario film non più fantasma, ha dedicato ora un magnifico libro monografico Massimiliano Studer (Alle origini di Quarto potere. Too Much Johnson, il film perduto di Orson Welles, Mimesis, Milano-Udine 2018, euro 20).

Come ha giustamente scritto nella prefazione Paolo Mereghetti, «verrebbe quasi da dire che l’avventura del ritrovamento di Too Much Johnson finisca per passare in secondo piano e non perché non sia interessante, ma perché la passione cinefila che guida Studer finisce per superare ogni possibile ostacolo e racchiudere in un libro dedicato a un film “fantasma” tutta la voglia e l’amore di cinema che Welles aveva seminato durante la sua vita e che ora fortunatamente qualcuno è ancora disposto a non disperdere».

La notizia ufficiale del ritrovamento l’aveva sintetizzata, con piena e diretta consapevolezza del progetto in corso, Paolo Cherchi Usai nella sua qualità di direttore della Eastman (Orson Welles ha cominciato ridendo, «Segnocinema», 183, settembre-ottobre 2013): «Il film è stato ritrovato dal cineclub Cinemazero di Pordenone. Lo ha identificato Ciro Giorgini, uno dei massimi esperti italiani di Welles, su indicazione di Giulio Bursi al laboratorio La Camera Ottica di Gorizia. La copia rinvenuta -un positivo in nitrato- è stata affidata alla Cineteca del Friuli e restaurata dalla George Eastman House di Rochester con il contributo della National Film Preservation Foundation, in vista della premiére alle Giornate del Cinema Muto il 9 ottobre di quest’anno. […] Nel linguaggio colloquiale dell’epoca il titolo ha un significato licenzioso riferito ai genitali maschili».

Il film non era nato in autonomia: il suo titolo coincide con quello dei tre atti di William Gillette, la cui riduzione scenica con relativo allestimento il ventitrenne Welles aveva in programma per quella stagione col suo Mercury Theatre: appositamente realizzato, avrebbe dovuto costituire parte integrante della messinscena. Ma non avrebbe mai visto, per un complicato intrecciarsi di cause organizzative, finanziarie, amministrative e tecniche, né la conclusione delle riprese né tanto meno, ovviamente, la sua proiezione integrata nello svolgimento dello spettacolo. La proiezione, oltretutto, si sarebbe in ogni caso, al momento buono, rivelata impossibile, nel teatro evidentemente non di primissimo ordine in cui il complesso wellesiano doveva ritrovarsi ad agire, quand’anche la sua realizzazione fosse stata portata a compimento. E’ ancora Cherchi Usai a illustrarcelo nel dettaglio: «Il colpo di grazia arriva nel momento in cui Welles si accorge che, per motivi tecnici, è impossibile proiettare la pellicola allo Stormy Creek Theatre. Too Much Johnson può ancora essere messo in scena, ma senza film. Welles getta la spugna e sospende il montaggio: lo riprenderà solo tre decenni più tardi, per uno o due giorni al massimo, senza portarlo a termine. Si possono fare congetture a non finire si una rinuncia così repentina. Welles si era trovato altre volte alle prese con locali indisponibili all’ultimo momento […]. Come previsto, Too Much Johnson è inaugurato allo Stormy con un testo raffazzonato all’ultimo minuto. Il Mercury apre la stagione autunnale con La morte di Danton (anche quello affonda); Too Much Johnson è sparito dal programma. Dopo un breve ma feroce attacco di depressione, Welles si rituffa nel lavoro alla radio».

Studer si è posto il duplice scopo di fare luce fino in fondo, anche nei dettagli, su questa singolarissima situazione/operazione, ma anche di proiettarla, come anticipa già il titolo del volume, il più possibile analiticamente sul successivo lavoro wellesiano, a cominciare dal capolavoro di allora imminente gestazione e realizzazione. E lo fa con esemplare dovizia di rigore metodologico e varietà di approfondimento (come aveva già potuto intuire chi avesse partecipato a una delle serate a suo tempo da lui organizzate a presentazione del film per conto dell’Associazione Culturale “Formacinema”. A quella del 4 novembre 2015 nella purtroppo non più esistente sala Gea del defunto cinema milanese Apollo partecipava anche chi scrive: vi venne proiettato anche Portrait of Gina…).

Dopo un’articolata e problematizzante introduzione, cui fa riscontro la debita conclusione, Studer divide il proprio apporto in tre ricchissimi capitoli. Il primo dedicato alla formazione politica del giovane Welles, dove sono particolarmente stimolanti le pagine riepilogative dedicate al mirino puntato dal FBI di Hoover sul promettente uomo di spettacolo, inclusa la sua venuta in Italia dell’immediato dopoguerra, su cui aveva già intelligentemente ricamato Davide Ferrario col suo romanzo  Dissolvenza al nero (Longanesi 1994), e sui rapporti epistolare Welles-Ejzenstejn.

Il secondo, il più corposo, ripercorre minuziosamente la vicenda davvero romanzesca del recupero dell’antico testo perduto, con abbondante documentazione, anche fotografica. Il terzo infine analizza il film, confermando in Massimiliano un wellesiano di razza, degno erede della lezione del padre Sandro fin dai tempi del primo “Metropolis” e dell’Obraz Cinestudio di Largo La Foppa a Milano.

Non poteva mancare, in premessa, un’intervista -l’ultima purtroppo- appunto a Ciro Giorgini che, al di là dei benemeriti contributi in materia a “Fuoriorario”, aveva già dato sommario conto dello stato dell’arte sul film in uno scritto comparso fugacemente sulla rivista online “Roameuropamese” nel 2003, e opportunamente subito ripreso nell’intelligente volume miscellaneo allestito da Tony d’Angela Nelle terre di Orson Welles (Falsopiano, Alessandria 2004), che curiosamente non compare nella pur aggueritissima bibliografia di Studer.

A ben guardare, si può dire che Too Much Johnson stia al corpus complessivo dell’opera di Welles come Affaires publiques a quella di Bresson. E non a caso forse i due film sono presso che contemporanei: del ’38 il primo, del ’35 l’altro. Singolare come l’uno e l’altro di questi due sommi cineasti, assolutamente ai reciproci antipodi ma accomunati da un registro di estrema serietà (mai smentita da Bresson, accantonato nel finale di carriera alla “lasciatemi divertire” da Welles), abbiano realizzato la propria opera d’esordio all’insegna della comicità e del grottesco. DE che l’uno come l’altro film per decenni interi fossero stati ritenuti perduti, e siano stati ritrovati in circostanze particolarissime e casuali.

E’ da ritenere che il contributo di Massimiliano Studer all’approfondimento ulteriore degli studi wellesiani nel nostro paese non si fermerà qui: con la sua associazione Formacinema, promette infatti di lavorare ulteriormente sull’archivio cartaceo Welles detenuto da oltre un ventennio dalla biblioteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, segnalatogli da Franco Prono durante il suo lavoro di dottorato su Too Much Johnson: il lettore interessato veda www.formacinema.it.

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Se il libro di Massimiliano ha riportato opportunamente l’attenzione su quel decisivo evento-recupero di qualche anno fa, riguardante gli albori dell’attività registica wellesiana, l’attualità stessa si è incaricata di riportare per l’ennesima volta l’attenzione sul sommo cineasta, a trentatrè anni dalla sua scomparsa. Al recentissimo festival di Cannes sarebbe infatti dovuto finire sullo schermo The Other Side of the Wind, l’ultimo, infinitamente incompiuto film di Welles, iniziato nel 1972 e mai portato a termine, nè in vita dall’autore, né successivamente dai molti che si erano provati a farlo, tra infinite grane legali, tecniche e finanziarie, in ossequio al suo desiderio. L’occasione di Cannes è sfumata per la situazione problematica ricreatasi anche quest’anno tra il direttore Fremaux e Netflix, ma la piattaforma principe delle visioni streaming annuncia finalmente la messa in onda mondiale dello sfortunato e controverso testo.

Illuminare il quale a priori non è facile. La migliore sintesi può apparire ancora quella che Peter Biskind ha posposto all’edizione, da lui curata, delle conversazioni wellesiane A pranzo con Orson di Henry Jaglom (Adelphi 2015): «Scritto e prodotto da Welles e Oja Kodar, girato tra il 1969 e il 1976, è un affresco satirico sullo stato del cinema attorno al 1970, e un film a chiave in cui il cineasta fustiga i suoi nemici, tra i quali John Houseman e Pauline Kael. John Huston interpreta Jake Hannaford, un attempato regista in cerca di un ritorno sulle scene con The Other Side of the Wind, un film-nel-film improntato alla nouvelle vague, dove si fa la parodia dei registi europei più celebrati del momento, come Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard. Hannaford riceve gli ospiti alla festa per il suo settantesimo compleanno, rappresentata in tutto il suo splendore acquariano, ma muore in un incidente automobilistico subito dopo. Il film è una composizione di generi e formati diversi: fermi immagine, super8, 16 mm, 35 mm, video, bianco e nero, colore. Incompiuto, fu oggetto di una battaglia legale per la sua proprietà tra Welles e il cognato dello scià dell’Iran, che vi aveva investito. A tutt’oggi [2013, n.d.r.] non è ancora uscito. Vi appaiono tra gli altri Henry Jaglom, Peter Bogdanovich, Oja Kodar, Susan Strasberg, Paul Mazursky, Lilli Palmer, Stéphane Audran, Cameron Crowe, Denis Hopper e Claude Chabrol». E proprio in una delle conversazioni con Jaglom  -tra le ultime: spaziavano dal 1983 al 1985, l’anno della morte di Welles- l’autore si mostrava, se non scettico, almeno problematizzato e incerto sul destino del film, dalla preparazione protrattasi tanto a lungo: «Edmond O’Brien è appena morto. Toni Selwart è cieco. John Huston non si muove più. Non voglio pensarci ora. Il film ha preso un sapore strano, datato. Ma in un modo interessante. Dovrei trasformarlo in un film saggio su quel periodo, quando tutti i giovani registi volevano diventare auteur. Non volevano diventare Spielberg, come adesso. Era un’epoca diversa».

A questo punto sarebbe necessaria una ricostruzione almeno a tratti essenziali della complicatissima vicenda di questo film la cui parabola è iniziata ormai quasi mezzo secolo fa. Dentro il complicatissimo, inesauribile puzzle del Welles incompiuto, irrealizzato, inedito e impensato, di cui Ciro Giorgini è stato maestro inarrivabile quanto insostituibile (e con lui Stefan Drössler del Münchner Filmmseum). Per quanto riguarda The Other Side, dopo i contrasti legali sui diritti, prima tra Welles e il cognato di rezha Pahlavi, poi tra le coeredi, la figlia Beatrice e la compagna Oja Kodar (la stessa che ha affidato la parte di spettanza del lascito ai monacensi), andrebbero documentato dettagliatamente l’infaticabile operare di Peter Bogdanovich, anche con lancio di crowdfunding, per portare finalmente alla luce il film. Anche se non coronato da soverchia fortuna: ho cercato di darne via via conto nel tempo attraverso “Le Lune” di «Cineforum». Non che Welles sia stato particolarmente tenero nei confronti di Bogdanovich nelle conversazioni con Jaglom ricordate prima: ma questo non ha mai fatto venire meno la dedizione assoluta nei suoi confronti da parte del cineasta/critico, che peraltro gli ha consacrato anche il più bel libro mai scritto su di lui, la maxi intervista del 1968 Il cinema secondo Orson Welles (tradotto per noi da Baldini e Castoldi nel 1993 e ripreso dal Saggiatore nel 2016: con una fondamentale bio-cronologia aggiunta in entrambe le edizioni).

Ora finalmente, ogni attesa giunta al termine, e dopo l’ennesimo incidente Cannes-Netflix, che ha impedito la prima del film nelle scorse settimane alla Croisette, il film sta per essere visibile in esclusiva appunto agli abbonati Netflix. Quando questo articolo viene congedato, è ancora solo un annuncio: quando qualcuno lo leggerà, il film sarà probabilmente già visibile. Difficile non sorprendersi: frequentavo l’università quando Orson cominciò a girarlo; sono in pensione da una vita ora che mi accingo a vederlo!

                                               ( <Diari di Cineclub>, 62, giugno 2018)

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