Dopo due secoli di egemonia incontrastata, si chiude l’era del posto fisso. Entriamo in quella del trasportabile. La chiave principale di lettura di come i giovani concepiscono oggi il proprio rapporto col lavoro. Una nuova filosofia di vita, che noi boomers non capiamo, e la politica nemmeno intravede coi suoi cannocchiali ottocenteschi. Il motore e il moltiplicatore è il digitale.
Fino a qualche decennio fa, per capire la modernità, si contavano le rivoluzioni industriali. Oggi, quelle digitali. Che vanno al cuore del lavoro, stravolgendo la sua condizione spazio-temporale. La prima rivoluzione ha impattato sui tempi, dilatando – con computer, tablet e smartphone – la funzione lavorativa. La seconda, iniziata in sordina ed esplosa con la pandemia, annulla la ripartizione spaziale. Ieri, si andava e si tornava dal lavoro. Il traffico delle città, il mercato immobiliare, le grandi e piccole migrazioni ruotavano intorno alla dislocazione del lavoro. E una valutazione importantissima riguardava dove stesse la propria sede. Oggi, nella mente dei giovani, questo calcolo si sta capovolgendo. La priorità è diventata quanto lavoro posso portarmi a casa.
Cambia la nozione di tempo libero, quella che da sempre individua la libertà dalla schiavitù del lavoro. Non significa lavorare di meno, e se possibile più vicino a casa. Ma lavorare dove voglio io. Decidere in autonomia i tempi e il luogo del lavoro. Come scrive Frank Turner, storico di Stanford, in un saggio su NYT Magazine ripreso da Elena Tebano sul Corriere, «le tecnologie digitali rendono possibile per molti di noi lavorare e riposare nelle stesse stanze, a casa, tra i nostri amici e parenti, e quindi reintegrare parti delle nostre vite separate dalla Rivoluzione industriale».
Il trend ormai è partito. Dopo lo smartworking forzato della pandemia, le amministrazioni pubbliche hanno riportato i dipendenti nelle stanze dove possono controllarli meglio. O almeno fare finta di farlo. Ma i lavoratori resistono. Dopo avere assaporato la libertà del faccio da me, vogliono tenersene almeno una quota. I sindacati spingono in questa direzione e, come in tutte le battaglie di progresso, guadagneranno opportunità e concessioni. Approfittando anche del fatto che il mercato privato è, come al solito, più rapido nell’assorbire i cambiamenti, e nel venire incontro alla domanda di flessibilità. Non più solo sui tempi ma anche, e soprattutto, sugli spazi.
Mentre, tra spinte e resistenze, prendono forma i nuovi scenari del ritorno al lavoro domestico, la svolta, nella testa dei nostri ragazzi, è già avvenuta. Quando ero giovane, mi sorpresi a scoprire che, in America, i miei coetanei scappavano appena maggiorenni da casa e inseguivano il lavoro cambiando domicilio, in media, sette volte nel corso della vita. Oggi, su airbnb sono sempre più frequenti i soggiorni di più mesi di chi cambia città seguendo l’arte o il panorama o le mode culturali e tenendosi stretto il privilegio di un lavoro che possono svolgere ovunque.
No. Purtroppo non diventeremo tutti liberi professionisti di noi stessi. Ma i tanti concorsi pubblici rimasti recentemente deserti, o con graduatorie che non riescono a riempirsi, sono solo la punta di un iceberg sociale in trasformazione. Un cambiamento che, come sempre, comincia nelle aspettative. Gli imprenditori che lamentano lo scollamento tra la loro offerta di lavoro e la manodopera che non trovano farebbero meglio a raccordarsi con la nuova mentalità digitale. Di chi è disposto a lavorare anche di più ma scegliendo dove e come farlo. Se Checco Zalone tornasse oggi a girare «Quo vado», cambierebbe sceneggiatura e interpreti. E il titolo sarebbe «Vado a casa».
di Mauro Calise
(“Il Mattino”, 17 aprile 2023).
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