Le nostre liturgie spezzate

La massificazione sempre più prepotente sta rendendoci schiavi di liturgie non nostre.

La cadenza del tempo umano è ogni giorno mortificata dalla velocità che non ci lascia più modo di pensare, di sostare nella quiete per percepire profondamente d’essere parte costitutiva della Natura, parenti stretti dei ramarri, delle giunchiglie e delle pietre.

Solo la disobbedienza ad ogni dogma e dottrina ci può condurre fuori dalla pazza folla, dal frenetico ritmo dell’acquisto forzato per bisogni inesistenti, creati per renderci dipendenti dalla perfida droga del consumismo.

Così amo fare il mio dì di Festa, illuminando il dono che la Vita ci offre quotidianamente e che noi non sappiamo più onorare: vagabondare.

Parola esiliata che non significa aver perso la via, essersi smarriti, ma trovarla, o meglio ri-trovarla.

Come ci suggerisce il nostro sommo Poeta:” mi ri-trovai per una selva oscura , chè la diritta via era smarrita.

Amo da sempre le città di provincia, anche se sono nata a Milano, è una città di provincia che ha annaffiato le mie radici, la mia anima è legata a case, odori, volti, che le metropoli non hanno saputo custodire, cadute nella trappola dei tanti flauti magici che conducono a certa morte il vero senso del nostro essere umani e solidali.

E allora evado da questa gabbia milanese, città tradita ogni giorno, e mi inoltro nella mia pianura padana, mi faccio accogliere profuga dalla verde campagna solcata dal fiume e dalla roggia e dal fontanile, dove ancora si odora il buono e la fatica di tenerlo a cura.

Fermarsi sulla riva del fiume è come veleggiare nei secoli che ci hanno preceduto, si aprono silenzi e visioni e una processione lenta si fa viva ai nostri occhi, finalmente i nostri morti ci parlano, loro che sono stati due volte uccisi dal rumore assordante che permea le nostre vite.

Qui, lontani da qualsiasi congestione di traffico, si cammina sentendo i nostri piedi che cantano sulla morbida terra, umida di rugiada, cantano con il gracidare delle rane, con il cinguettio dei piccoli uccelli che ancora dimorano nelle folti fronde degli alberi.

E’ la Natura la vera Cattedrale.

Ed è in questa cornice che vive Pizzighettone, paese al centro della pianura padana, a pochi chilometri dalle grandi città.

Due fiumi lo solcano benevoli, l’Adda e il Serio Morto ed è dal fiume Adda che trae origine Pizzighettone, che ancora oggi ne connota inequivocabilmente il centro storico dividendolo in due parti, di cui una, situata sulla sponda destra ed oggi denominata Gera, si dice sia sorta nella vicinanza dell’antica città celtica di Acerrae, posta in un’ottima posizione strategica.

L’attuale Pizzighettone fu edificata nel 1132 sulla riva sinistra del fiume, come avamposto della città di Cremona, ai tempi della lotta tra i Comuni.

Qui passarono le signorie dei Visconti, degli Sforza e i domini degli spagnoli, degli austriaci sino a giungere al Rinascimento.

E di tali vicende belliche sono testimonianza le due torri rimaste dell’antico castello e l’intera cerchia muraria bastionata, che per la sua struttura e il suo stato di conservazione è considerata una delle più significative della Lombardia.

Ci sono qui due straordinari “Musei”, che il nostro Stato non vuole accogliere tra i Musei italiani, perchè non hanno i requisiti che oggi chiediamo così ignorantemente, senza pensare alla Bellezza che esiliamo solo per mancanza di una “ firma”, sempre meno consapevoli che : “ non sempre una firma è il nome “.

Ma qui, accompagnati dalla passione e dalla simpatia del loro Direttore, Gianfranco Gambarelli, possiamo ricontattare tutte le nostre radici contadine disperse, possiamo percorrere pezzi della nostra storia e rimanere stupefatti del tanto che abbiamo vicino a noi e del poco che conosciamo.

Il Museo delle arti e mestieri, una meraviglia di attrezzi, di strumenti, di lavori ormai estinti; ma è da loro che siamo nati, abbiamo respirato l’odore della lana, siamo stati dissetati dall’acqua delle fonti dentro la bianca brocca e nella tazza di latte abbiamo bevuto fiabe e realtà. Sono molte e grandi le sale di questo Museo, qui lo spazio riprende la sua dignità, ci fa vedere il cielo e dimorare sulla terra senza inquietudine, senza sentirci orfani di dignità.

L’altro Museo è davvero un’inquietante sorpresa: il Museo delle prigioni.

Qui, dal 1785 al 1954, le celle di segregazione hanno accolto prigionieri e ladri, ergastolani e reclusi politici, la storia è molto lunga e si dipana nelle alte stanze, dove nelle celle sei catturato dalle scritte incise dalla disperazione umana.

Il Carcere ha via via assunto aspetti differenti, dalla detenzione nelle torri del castello dal secolo XV al XVIII, all’ergastolo dal 1785 al 1796, all’ergastolo militare dal 1831, al 1848, al reclusorio politico e penale dal 1851 al 1857 sino ad essere un reclusorio minorile denominato Villa dei Gerani “ dal 1956 al 1977.

Qui fu ospite un sedicenne Renato Vallanzasca, che all’inizio degli anni 70 seminerà panico e terrore a Milano, diventando uno dei più pericolosi criminali italiani.

La scritta su un grande muro del carcere, tutt’intorno si dipanano le strette e umide celle: l’odio è ruggine, l’amore è forza, ci dovrebbe far pensare.

Davvero il carcere punitivo serve?

Non potrebbe invece essere una capace e non violenta ri-educazione a ridare nuova vita ad anime forse defraudate di una buona vita ?

Si parla tanto di dare amore, di essere amorevoli, tanto quanto non si parla invece di saper capire, di saper comprendere, saper accogliere.

E’ dell’alterità che ci dobbiamo fare carico, dell’altra parte di noi che oggi uccidiamo e non solo simbolicamente.

Le numerose uccisioni, con coltelli, mazze, pistole, che quotidianamente denunciamo

non sono forse armi rivolte a noi stessi, a l’altra parte di noi, che non sappiamo più né vedere, né tanto meno ascoltare.

Lo crediamo “altro da noi “, mentre è l’ignoto, il clandestino, l’ospite inquietante che ci portiamo dentro e che non vogliamo incontrare.

E questa società malata, in rapido declino non ne vuol sapere di guarigione.

E’ disposta ad essere distrutta da una bomba atomica, ma non è disposta a cambiare tipo di economia. Non è disposta a lasciare per trovare , insieme, altro.

Riprenderci il nostro tempo per tornare insieme a pensare, a connettere i tanti fili che tessono il tessuto umano e sociale e mettere in pratica un modo più umano di vivere.

Connetre significa: nascere insieme.

Ne siamo ancora capaci ?

di Patrizia Gioia

1 Commento

  1. Io come te nata e residente a Milano ma con le radici e il cuore a Pizzighettone, sposo in pieno i tuoi pensieri, anzi… mi hai tolto le parole di bocca 💕

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