Ambasciatore in Russia per anni e, prima ancora, rappresentante diplomatico di rango presso la Nato, quella accompagnata da saluti militari, pantaloni inamidati e corridoi grigi con porte irrimediabilmente chiuse. La vera vecchia North Atlantic Treaty , quella che “ci ha salvato” ed “era necessaria”, secondo Sergio Romano, ma che oggi “ha poco senso”. Detto da chi ha guardato le manifestazioni antimilitariste (e soprattutto antiNATO) a Roma nel 1983 e nel successivo ’84 dalle finestrone spesse di via Nazionale non credendo ai propri occhi, vista la marea di persone pacifiche, con figli al seguito, con bandiere multicolori (il “rosso” prevalente di qualche anno prima, cominciava ad essere minoritario), fa un certo effetto. Gli slogan, allora, non erano diretti a lui ma a Bettino Craxi (…il famoso “Vieni a pescare con noi, ci manca il verme…) a Nicolazzi, ad Andreotti e, soprattutto, ai due (non “uno” ma proprio “due”) bersagli preferiti di più di un milione di persone: Leonid Breznev e Ronald Reagan. Il (meno) famoso e troppo presto dimenticato “Dalla Sicilia alla Scandinavia, no alla NATO e al Patto di Varsavia” era, allora, il più gettonato di tutti, arricchito da variopinti striscioni con missili perfettamente stilizzati e con bombe scoppietanti in mille strisce e colori. C’era anche, nell’Ottantatrè, un enorme mappamondo di almeno cinque metri di diametro, gonfiato come un palloncino da spiaggia, che è stato sospinto, sollevato, fatto correre e rallentare per tutta la durata (otto ore) della manifestazione. E Sergio Romano era lì, dietro una di quelle finestre, a fianco di qualcuno che stava facendo fotografie con un teleobiettivo da “500 millimetri” e con qualcun altro che continuava a scuotere la testa (1) . Bene……proprio il dottor Romano, ottimo studente di liceo di origine veneta, enfant prodige alla Farnesina, si è man mano convinto che non sempre l’esibizione della forza e della (presunta) supremazia mondiale fa bene alla pace e alla concordia fra gli Stati, o – meglio – fra gli “abitanti con pari diritti della Terra” (2). E lo ribadisce in una recentissima intervista ripresa da Antonio Di Francesco (3) che gli permette di mettere in chiaro alcune cosette che ben conosce. Per esempio rispetto agli oligarchi russi, a quella massa di arricchiti (pre e) post caduta del muro di Berlino che hanno trovato in Yeltsin, già commissario di partito tangentato a Perm, il loro primo garante e che, dopo dieci anni, si sono rivolti direttamente ai tecnici sopraffini dei servizi segreti russi, trovando la soluzione migliore nel giovane virgulto Vladimir Putin.
Nessuno straccio di socialismo, nessuna parola d’ordine di garanzia o di speranza per più di duecento milioni di persone. Si è passati dal “Proletari di tutto il mondo unitevi” a “Poveracci di ogni angolo delle Russie…arrangiatevi e, se potete, arricchitevi”. Ecco così spuntare come funghi i “cento milionari della Gazprom”, gli Abramovitch dal sorriso buono, amanti dello sport, delle belle donne e della vita mondana. Una condizione, quella del vero potere sovietico, passato praticamente intatto attraverso le forche caudine della “perestroika”, che ben conosce il già ambasciatore Sergio Romano. Parco ai ricevimenti (sempre curatissimi), molto elegante e misurato, il nostro Sergio. Un gentleman che si distingueva fra la pletora di invitati più o meno di rango e che osservava, …osservava con attenzione ogni più piccolo segnale di interesse. Vorremmo dire di “novità” (e forse lo avrebbe voluto anche Sergio Romano) ma il clichè era quello. Annunci degni di un party dello zar Nicola II, dress code di alto livello, champagne, profumi e vodka di qualità. Il tutto con intermezzi musicali o teatrali gradevoli e ben conosciuti dai commensali. Ed è proprio per aver vissuto tutto ciò che, in un passaggio chiave dell’intervista, Romano non ha paura di affermare che “la guerra di Putin è stata irrimediabilmente persa” che quella sua idea di “grande Russia” di nuovo attraente per i vicini di sempre non solo è tramontata ma è stata sdegnosamente rifiutata. Una signora di un villaggio vicino a Kherson (sotto i Russi per una quarantina di giorni) ha riassunto la sua felicità nel riabbracciare i giovani in “giallo-blu” con un semplice ma esplicito “…e basta con le marcette russe e i proclami di vittoria…lasciateci vivere la nostra vita“. Soprattutto, e lo leggerete direttamente nelle risposte, c’è la convinzione che la guerra durerà a lungo. Un percorso accidentato che va a riaprire vecchie ferite e tensioni centenarie, prima nei confronti delle autorità zariste (con la richiesta di autonomia e rispetto delle specifictà etniche, non solo degli Ukraini. Una tensione che è ripresa con l’applicazione dei piani quinquennali dei primi anni del potere sovietico, conditi da pogrom contro i kulaki e contro chi non era d’accordo con la (apparente) politica di uguaglianza forzata. Tensione che è continuata durante la seconda guerra mondiale, al punto da aiutare, in alcuni casi, gli stessi occupanti tedeschi contro gli odiati Russi. Un destino crudele che andava previsto, arginato nelle sue forme deteriori e indirizzato verso una coesistenza pacifica. Cosa che non è avvenuta e che ha portato agli sconquassi che tutti conosciamo. Sergio Romano c’è stato più volte in questi luoghi, conosce le città dell’est dell’Ukraina per averle frequentate per i motivi più vari. Ne conosce le popolazioni, l’operosità e le abitudini e, per questo, è ancora più incupito e lacerato.
Che le sue parole servano, oltre che come “informazioni di prima mano”, come viatico per l’avvio di un percorso condiviso di pace.
…
“Nulla di fatto, ancora una volta. Ai tavoli della diplomazia internazionale non c’è spazio per il dialogo, solo scintille quando si tratta di immaginare un futuro – di pace – tra Russia e Ucraina. La speranza di una svolta è durata appena 10 minuti in India, il tempo che il segretario di Stato americano Blinken e il ministro degli Esteri russo Lavrov si sono concessi a margine del summit dei ministri degli Esteri del G20. Per il resto, le solite accuse reciproche, intransigenze e la conferma che sul conflitto il mondo è spaccato in due.
«Questa volta, la guerra corre veramente il rischio di essere mostruosa», afferma Sergio Romano, già ambasciatore italiano presso la Nato prima di chiudere la carriera diplomatica a Mosca, negli ultimi anni dell’Unione Sovietica.
Ambasciatore Romano, non esclude l’uso dell’atomica?
«È la ragione per cui sono relativamente ottimista rispetto alla possibilità che prima o poi Russia e Ucraina si siederanno al tavolo delle trattative » .
Gli Stati Uniti hanno chiesto alla Russia di rientrare nell’accordo Start sulla limitazione delle armi nucleari; di contro, visto il crescente coinvolgimento di Usa e Nato in Ucraina, Mosca minaccia «uno scontro militare diretto tra potenze nucleari con conseguenze catastrofiche».
«È molto complicato azzardare delle previsioni in questo momento. Le classi politiche dei Paesi post sovietici sono svuotate del potere. Quando si è privati del potere, si ricorre talvolta anche alla minaccia più estrema. Non mi sento di scartare la prospettiva nucleare: in parecchi arsenali quell’arma c’è».
In funzione per lo più deterrente, per fortuna.
«Certamente, ma c’è e questo è un fatto. La prospettiva è spaventosa, ma non posso escludere la possibilità che un Paese, in circostanze al momento inimmaginabili e con il rischio di essere distrutto, non possa ricorrervi. I Paesi che hanno voluto l’arma nucleare, che hanno lavorato per costruirla e rafforzarla, lo hanno fatto solo per compiacersene? No, l’arma nucleare può essere usata » .
La battaglia dei droni, combattuta finora in territorio ucraino, è sconfinata in Russia, fino a Mosca e San Pietroburgo. Le azioni di sabotaggio nella regione di Bryansk hanno spinto Putin a convocare il Consiglio di sicurezza. Siamo di fronte a una nuova fase della guerra, secondo lei?
«Stanno cominciando parecchie fasi nuove: bisogna prendere in considerazione il fatto che Ucraina e Russia sono due Stati palpitanti. Il primo, l’Ucraina, è praticamente un Paese non governato; Mosca, invece, non gode di buona salute politica in questo momento. C’è una forma di disfacimento al loro interno, che incide enormemente sull’equilibrio della guerra perché fa sorgere ambizioni nuove per entrambi i contendenti » .
Lei conosce la Russia, i suoi equilibri interni: ritiene che la guida di Putin non sia più salda?
«Ne sono profondamente convinto. Conosco le doti di Putin, che è senza dubbio un uomo scaltro e con un seguito enorme all’interno del suo Paese. Ma non va dimenticato un punto: ha perso la guerra che aveva in mente».
Che cosa intende?
«Putin voleva conquistare l’Ucraina per farne il punto di partenza di un processo che, secondo il suo disegno, si sarebbe concluso con il ritorno a un impero russo, a un grande Stato russo. Questo progetto è tecnicamente fallito. Tuttavia, la situazione interna al suo Paese fa sì che non abbia un vero contendente in grado di sottrargli consenso e potere».
Come si spiegano le tensioni nella vicina Moldova?
Insieme a Georgia e una parte dei Balcani, la Moldova è percepita dall’intelligence italiana come un «punto di faglia critico tra Occidente e Russia».
Potrebbe essere un nuovo fronte caldo?
«Sarei rimasto sorpreso se non ci fossero state tensioni in Moldova. Non dobbiamo di menticare che tutti i Paesi che hanno fatto parte dell’ex Unione sovietica formavano una specie di collegio delle nazionalità, tuttavia ho dei dubbi sulla possibilità che si possa aprire un nuovo fronte lì».
Secondo Mosca, a determinare gli obiettivi di Kiev sarebbero la Nato e gli Stati Uniti. Cosa pensa al riguardo?
«Non ho sufficienti elementi per commentare una prospettiva del genere, certo è che Nato e Stati Uniti agiscono come una specie di entità unica: l’Alleanza atlantica è lo splendido strumento che gli Stati Uniti usano per perpetuare la propria potenza » .
Da giovane funzionario ministeriale, nei primi anni della sua carriera, lei ha «creduto fortemente nell’utilità della Nato», come ha recentemente dichiarato. Ha cambiato idea?
«Non è stato un cambio improvviso, ma maturato nel corso degli anni. Piano piano, ho cominciato a capire che la Nato stava esaurendo il suo compito strategico in ambito internazionale, cioè contenere la minaccia ideologica e strategica rappresentata dall’Unione sovietica. L’Alleanza atlantica ha avuto il grande merito di unire i Paesi democratici, di evitare che avessero ambizioni diverse. Durante la Guerra Fredda, dobbiamo alla Nato il fatto che l’Occidente abbia tenuto duro. Oggi i suoi compiti non sono più indispensabili, certi obiettivi non ci sono più e non c’è motivo di cercare di raggiungerli. Il patto è ancora in piedi perché gli Stati Uniti hanno interesse a mantenere la gestione militare di una grande parte del pianeta. L’Alleanza è una conquista americana, alla quale Washington non intende rinunciare. Sarei stato contento se la Nato fosse stata sciolta alla fine della Guerra Fredda».
L’alleanza non ha più ragione d’essere alla luce della situazione internazionale di oggi?
«Non solo non ha più senso, ma fa dei danni».
In che senso?
«I Paesi più fragili negli anni della Guerra Fredda, cioè gli ex satelliti dell’Unione sovietica, avevano bisogno di ricostruirsi un contesto in cui avrebbero potuto esercitare una certa potenza e hanno trovato un salvagente nella Nato. L’Alleanza ha garantito loro la possibilità di vivere e continuare ad esistere all’ombra degli Stati Uniti, di cui riconoscevano l’egemonia . Via via che la situazione cambiava, hanno insistito perché il rapporto proseguisse, anche se la protezione non era più necessaria. Continuano a preferire un padrone al di là dell’Atlantico piuttosto che averne uno in Europa, che sia la Gran Bretagna o la Germania».
Gli Stati Uniti hanno autorizzato la vendita di armi a Taiwan per 620 milioni di dollari, generando non poche frizioni con la Cina, che ha inoltrato una protesta formale a Washington. Pensa che questo possa essere l’ennesimo motivo di tensione internazionale in futuro?
«Agli occhi degli americani, la Cina è un Paese comunista, che non si può amare e di cui si deve diffidare. Continueranno a guardarsi con sospetto, soprattutto se Pechino dovesse avvicinarsi alla Russia più di quanto non abbia già fatto».
Come confermato dal ministro degli Esteri Tajani, a livello governativo sono ancora in corso delle valutazioni circa la possibilità di rinnovare il memorandum d’intesa sulla via della Seta che l’Italia ha siglato con la Cina. Cosa pensa al riguardo?
«Non ho mai attribuito grande importanza a questa idea della via della Seta, credo ci siano capitoli più importanti della politica internazionale».
Come giudica l’ultimo viaggio internazionale di Giorgia Meloni? I rapporti del nostro Paese con India ed Emirati Arabi sono stati piuttosto freddi negli ultimi anni.
«Un presidente del Consiglio ambizioso non deve solo governare il suo Paese, ma ha anche il compito di raggiungere un certo grado di autorevolezza per ritagliarsi un ruolo ai tavoli internazionali. Una personalità politica che sta cercando di raggiungere tali obiettivi deve necessariamente avere rapporti con tutti. Giorgia Meloni governa una potenza economica, che ha un suo mercato, che compra e vende all’estero. Insomma, si trova a gestire un capitale tecnico, economico e morale costruito negli anni e che ora ha ereditato » .
A proposito di autorevolezza, la voce dell’Unione europea ai tavoli diplomatici non si è ancora fatta sentire con sufficiente forza: sulla guerra si è persa un’occasione?
«Per quel che riguarda il conflitto in corso in Ucraina, l’Europa non ha voce in capitolo.
Può esprimere dei desideri, certamente, ma il problema possono gestirlo solamente in tre: Russia, Ucraina e Stati Uniti».
Il governo italiano chiede all’Unione europea una risposta comune sull’immigrazione, dopo le tante promesse mai mantenute. Per quale motivo Bruxelles non riesce a trovare una posizione unitaria?
«Temo che l’immigrazione non sia l’argomento principale sul tavolo dei Paesi membri dell’Unione. È un peccato, perché il dramma è sotto gli occhi di tutti e va risolto a livello europeo. Non possiamo sperare che ci pensi qualcun altro, una collocazione a queste persone si dovrà pur trovare». (3)
…
.1.
Nato a Vicenza, cresce tra Milano e Genova in una famiglia della borghesia imprenditoriale. Terminato il Ginnasio – Liceo Cesare Beccaria di Milano, intraprende l’attività di giornalista praticante; nel 1952 si laurea in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano, mentre interrompe gli studi in Scienze politiche all’Università degli Studi di Genova prima della laurea. Viaggia nelle capitali europee (Parigi, Londra, Vienna) da poco uscite dalla guerra e, dopo aver seguito un seminario di studi americani a Salisburgo, la Fondazione Harkness gli offre un borsa per studiare un anno all’Università di Chicago.
La frequentazione dell’Europa e dell’America lo indirizza verso la carriera diplomatica: entrato alla Farnesina nel 1954, dopo quattro anni trascorsi a Roma viene assegnato all’ambasciata d’Italia a Londra, dove rimane fino al 1964. Rientrato a Roma per far parte del gabinetto del ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, quando quest’ultimo viene eletto presidente della Repubblica lo segue al Quirinale, assegnato alla Segreteria generale della Presidenza.
Dal 1968 al 1977 è primo consigliere a Parigi e in Francia pubblica per la prima volta nel 1977 Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, uscito in italiano l’anno successivo, poi ampliata in successive edizioni.
Dopo essere rientrato al ministero degli Esteri come direttore generale delle Relazioni culturali, è nominato ambasciatore presso la NATO (1983-85). Conclude la sua carriera diplomatica come ambasciatore a Mosca (1985-89), nell’allora Unione Sovietica, sede che negli anni del governo di Bettino Craxi usciva dall’isolamento in cui era stata tenuta nei periodi precedenti, caratterizzati dall’assoluto atlantismo della diplomazia italiana. Di questa sua esperienza è possibile farsi un’idea attraverso le Memorie di un conservatore (2002), ritratto conciso della classe burocratica e diplomatica italiana (e non solo) nell’epoca della guerra fredda.
Dimessosi dalla carriera diplomatica agli inizi del 1989, in seguito a contrasti con il Governo allora presieduto da Ciriaco De Mita, è divenuto commentatore per alcune testate italiane (La Stampa, Panorama, Limes, Il Mulino), e curatore di una collana storica per la casa editrice Corbaccio. Ha collaborato dal 1999 al Corriere della Sera, sul quale, dal 2 gennaio 2005 al 31 dicembre 2016, Romano tenne una rubrica di lettere coi lettori, incentrata su temi storici, politici e di attualità.
Ha altresì fatto il professore invitato all’Università della California e a Harvard, e ha insegnato all’Università degli Studi di Pavia, all’Università degli Studi di Sassari e all’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano. È stato inoltre presidente del Comitato generale premi della Fondazione Balzan ed è membro del Comitato Scientifico della rivista Geopolitica.
.2. https://www.laciviltacattolica.it/articolo/putin-e-gli-inizi-della-crisi-ucraina/ (citato più volte all’interno dell’articolo di Giovanni Sale del 2018, documentatissimo e preciso nella descrizione dei fatti).
.3. “L’uso dell’atomica non va escluso” – da La Verità – 6 marzo 2023. autore Antonio Di Francesco
Commenta per primo