Le parole per dirlo

 

La parola di Donald Trump vale poco, ma le sue parole ci dicono molto. La sua narrazione del mondo non è mai neutra, calibrata. Oscilla continuamente tra paradiso e inferno, tra cielo e abisso. Il giorno in cui ha comunicato al mondo l’imposizione di dazi universali – il fatidico 2 aprile 2025 – è stato il grande Liberation day: il giorno in cui finalmente gli Stati Uniti si sarebbero liberati dall’oppressione commerciale imposta per decenni da tutti gli altri paesi alla nazione americana. E  una nuova grande, edenica epoca di libertà e prosperità , con latte e miele a fiumi per tutti, avrebbe avuto inizio a partire dal giorno dopo.
La proposta di legge finanziaria tuttora in discussione al Congresso americano non è un semplice disegno di finanza pubblica, per quanto importante: è un Big Beautiful Bill. E’ ‘grande’ e ‘meravigliosa’, e promette felicità al popolo. Qualcosa che porrà definitivamente fine all’oscurità e al declino causati dai Presidenti precedenti. E poi le telefonate con Vladimir Putin sono ‘fantastiche’ e Trump Presidente avrebbe portato la pace nel mondo in ventiquattro ore.
Al polo opposto, le strade di Los Angeles sono infestate da criminali immigrati che mettono a ferro e fuoco la città: sta per scoppiare un’Apocalisse tale da rendere necessari i marines. E l’amministrazione promette almeno tremila arresti al giorno nelle grandi città per liberarle dal cancro che le sta divorando, quei migranti che – già sapevamo – uccidono, cucinano e divorano persino i nostri adorabili animali domestici.
Poco conta che i dati di realtà procedano in direzione opposta. Che la scriteriata politica dei dazi stia terremotando l’economia di tutto il mondo a cominciare da quella americana; o che il Big Beautiful Bill rischi di precipitare gli USA in un default così devastante da far impallidire la crisi finanziaria del 2008. O che l’apocalittica insurrezione dei migranti di Los Angeles si risolva – a detta di testimoni oculari – in pacifiche dimostrazioni di poche centinaia di persone, per di più in un’area estremamente ristretta della città, molto più piccola di un quartiere di Roma.
Le narrazioni trumpiane disegnano una realtà parallela coerente, ora suggestiva ora terrificante, che parla direttamente all’immaginario dei suoi elettori del quale sono quasi l’emanazione, il prolungamento. La loro forza consiste in questo rapporto prioritario, diretto con la dimensione immaginativa. La Los Angeles descritta da

Trump corrisponde esattamente a come milioni di elettori del Midwest vedono le grandi città delle coste. Le immaginano come Sodoma e Gomorra, come bolge di perversione prodotte dal dominio decennale della cultura woke che, promettendo libertà e diritti, ha portato al disastro l’intero paese. O, per contro, il Liberation day, con tanto di scenografia di operai in tuta da lavoro, corrisponde perfettamente a ciò che i disoccupati bianchi dell’Ohio o del Michigan, ex operai, ex lavoratori manifatturieri, pensano della globalizzazione come causa dei propri mali.
Dire ciò che i tuoi elettori vogliono sentirsi dire è l’essenza della demagogia. Ma ancor più lo è delle fake news e della false narrazioni: attecchiscono proprio perché corrispondono perfettamente a ciò che già si pensa, intervenendo su un immaginario già predisposto ad accoglierle.
Gli USA trumpiani sono un grande e terribile esperimento politico, un laboratorio dove si sta testando la trasformazione di un’antica democrazia, fondata su check and balance e divisione dei poteri, in inedito sistema autocratico. Costituiscono l’avamposto della crisi delle liberal-democrazie, uno stress test per i loro principi
cardine mirato a verificarne il punto di rottura. Sono oggi il Paese dove viene ammanettato un senatore democratico per una domanda scomoda nella conferenza stampa di un ministro o dove viene arrestato il candidato a sindaco della municipalità di New York. E gli arresti avvengono ad opera di poliziotti mascherati, irriconoscibili, membri dell’ormai famigerata ICE, il corpo dedicato alla caccia ai migranti illegali.
Le parole che accompagnano la grande mutazione americana ne sono parte integrante: raccontano una divaricazione tra narrazione e realtà così radicale da risultare a sua volta inedita nei sistemi democratici. Per questo vanno osservate con lente da entomologo ed occhio lucido e disincantato.
Di tutto questo Donald Trump è il testimonial principe, il protagonista assoluto. E dunque risulta utile richiamare alcuni punti chiave della sua filosofia comunicativa.
Anzitutto, non va mai scordato che The Donald è stato plasmato da Roy Cohn, il feroce avvocato maccartista da cui ha tratto gran parte della sua concezione del mondo. Soprattutto, il dogma che mai ci si dichiara sconfitti. Si vince sempre. E se la realtà dice il contrario, si nega anche la realtà, ostinatamente e comunque. E’ un principio che ricorda un articolo dello statuto delle SS, secondo cui ‘il Fuhrer ha sempre ragione’, ma a ben vedere lo abbiano visto sistematicamente praticato in questi primi mesi di Presidenza.

Poi esiste un principio che Trump aveva imposto al suo staff comunicativo al tempo del suo primo mandato, recentemente richiamato da Francesco Costa, gran conoscitore degli States: ogni giornata deve essere raccontata ai media come se fosse la puntata di una serie televisiva: grandi problemi, ostacoli e nemici da combattere, con Trump che alla fine esce sempre vincitore. La narrazione politica come televisione, dunque. Anche di questo ci eravamo accorti.
E infine, il consiglio di Steve Bannon, leader di quel mondo MAGA che è l’anima fondamentale – anche se non l’unica – della Presidenza Trump: ‘flood the zone with shit’, colorita e volgare espressione che si può tradurre con ‘allaga con sterco la zona’. Fuor di metafora, l’idea di Bannon è che la vera opposizione sono i media che quindi vanno fatti ‘impazzire’. Come? Allagandoli di notizie, anche diverse, false e contraddittorie, in modo che essi per primi non sappiano quali seguire.
Da tutto questo emerge il primato della comunicazione: il mondo raccontato è più importante di quello reale; la narrazione della realtà prevale sulla realtà stessa.

Un bilancio ‘realistico’ dei primi quattro mesi della Presidenza Trump appare disastroso. In politica estera, le guerre, che con il suo tocco magico dovevano cessare in pochi giorni, deflagrano più cruente che mai, aumentando addirittura di numero. L’ultimo attacco statunitense sull’Iran rinvia il Premio Nobel per la pace proposto dal governo pachistano a data da destinarsi. In economia, la confusa politica protezionista, costantemente rivista, minacciata, ripresa, modificata, rilanciata, ha creato incertezza e precarietà in tutto il mondo, bloccando investimenti e strategie.

La realtà comunica brutte cose, dunque, anche per Trump. Occorre zittirla, farla tacere, sostituendola con un’ accattivante narrazione parallela. Per questo fondamentale è il predominio del racconto che trasformi una catastrofe in un trionfo, un disastro in un folgorante successo. In questo, anche se Trump lo ignora, il Presidente americano dà suo malgrado attuazione ad un vecchio principio maoista, per il quale il ‘vero rivoluzionario trasforma una sconfitta in una vittoria’.
Sta agli americani – e al resto del mondo – crederlo o meno.

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