Le regole del gioco francese

Ci vorrà ancora qualche giorno di pazienza perché la folla di opinionisti – e di politici – che avevano gridato all’azzardo di Macron si convincano che sciogliere il parlamento era una scelta obbligata. E non perché al Presidente è andata bene, al di là – forse – delle sue stesse aspettative. Ma per le ragioni – politiche e istituzionali – che lo obbligavano a questo passo.

Il governo in carica era già minoritario da due anni, quanto sarebbe potuto durare con un quadro elettorale drasticamente mutato con il voto europeo, e con il Rassemblement National che reclamava ad altissima voce il diritto di andare subito alle urne? E perché poi farsi logorare – dentro il parlamento e nelle piazze – per arrivare tra qualche mese, sfiancato e indebolito, alla medesima decisione? In questo quadro, la prospettiva di una coabitazione con Bardella avrebbe avuto, invece, il vantaggio di mettere subito la destra alla prova. Macron era certissimo del loro fallimento alle prese con il timone del governo. Ma se fossero riusciti a «melonizzarsi», come molti – a parole – prevedevano, perché la Francia non poteva imboccare anche lei la via italiana?

Ovviamente, la scommessa era un’altra, ed è riuscita. Vedere se, al secondo turno, il centro e la sinistra si fossero coalizzati. Messi con le spalle al muro, ce l’hanno fatta. E ora, sconfitta la destra, torneranno, molto probabilmente, a dividersi. Melenchon, con i suoi proclami incompatibili con qualunque bilancio, sarà costretto a prendere atto che la sua pattuglia di settanta deputati sarà pure la più numerosa del Nuovo fronte popolare, ma certo non è in grado di impedire agli altri leader delle varie fazioni di contrattarsi l’appoggio al nuovo governo. Da Glucksmann a Philippe ad Hollande, si apre ora la partita per designare il primo ministro e, in prospettiva, aprirsi la strada per la candidatura, tra tre anni, all’Eliseo.

Sarà una partita complicata, spigolosa e con qualche colpo di scena. Ma Macron non ha certo fretta. Ha subito confermato il suo premier dimissionario in attesa che si trovi un accordo sulla nuova maggioranza. La quadratura del prossimo governo ha solo bisogno, ora, di una tenace tessitura. Sul piano istituzionale e politico, il presidente può intestarsi con soddisfazione un successo che pochi una settimana fa si aspettavano. D’altronde, quelli pronti a sottolinearne gli errori – che non sono stati pochi – dimenticano che sette anni fa Macron si era inventato dal niente una candidatura e un partito, portati in un paio di mesi a un successo clamoroso. Il tentativo di radicare il suo movimento e trasformarlo in un partito personale ha vissuto alterne vicende, anche perché il presidente ha sempre preferito occuparsi soprattutto dell’Eliseo. Ma, numeri alla mano, Ensemble si è conquistato il secondo posto in parlamento, e resterà un attore indispensabile per i futuri equilibri.

Il bilancio diventa, però, ben diverso se si guarda al fronte sociale. Il ridimensionamento della destra dovrebbe – almeno nel breve periodo – placare il vento populista che Bardella e Le Pen stavano alimentando e cavalcando. Ma avere resuscitato a sinistra lo spirito ribelle di Melenchon non promette nulla di buono. Il paradosso di queste elezioni è che il risultato è in gran parte dovuto alla straordinaria mobilitazione che ha portato a un altissimo tasso di partecipazione al voto. Abituati a professare timori e preoccupazioni per l’astensionismo crescente come termometro del cattivo stato di salute delle nostre democrazie, dovremo ora prendere atto che sono stati proprio gli emarginati della banlieue i principali protagonisti del ribaltone. Solo che ora bisognerà tornare a metterli fuori della porta, e del Palazzo. Se, come è inevitabile, dovessero prenderla male, lo scontro dal parlamento si sposterà nelle strade e nelle piazze. Dopo il secondo turno, se ne annuncia un terzo, ben più arduo.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 8 luglio 2024).

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