L’erba maligna

La violenza è una pianta infestante e multiforme, spesso letale, per la quale non si è ancora trovato un antidoto. Gli omicidi di cui sono vittime le donne (detesto il neologismo “femminicidio”), è un reato così frequente da far pensare ad una reazione avversa per imitazione: ricordiamo in proposito il periodo del vetriolo divenuto una tendenza, fortunatamente passeggera, che in quel caso riguardava ambo i sessi.

Sbrigati, brutta cicciona di merda!” . All’uscita del supermercato è questo l’epiteto rivolto alla pallida compagna, sottile come un giunco, dal giovane tatuato vestito alla moda rapper. Lei quasi lo rincorreva trascinando un pesante borsone senza dire una parola… una vittima predestinata, ho pensato in preda ad un attacco d’indignazione e d’impotenza.

La violenza verbale, comminata con sadica determinazione, è una ferita che condanna a morte lenta, un giorno dopo l’altro, spesso accompagnata da violenza fisica … e di queste storie di agonia non si contano i racconti.

Si dice spesso che questi comportamenti siano frutto di una sottocultura dove ignoranza e modelli negativi di riferimento siano i maggiori responsabili. Non sempre è così, se ci ispiriamo ai recenti fatti di ampia risonanza mediatica, dove rampolli vissuti in ambienti privilegiati rivelano un disprezzo per l’altro sesso da chiedersi in quale caverna siano vissuti.

Di donne violentate, strapazzate e ritrovate a terra come stracci la cronaca non risparmia le circostanze… eppure ci sarà stato un tempo, il tempo dell’illusione, in cui hanno creduto confidando nell’altro al punto di volerli per la vita. La frequenza di queste efferatezze rischia di condurre all’assuefazione nella vana speranza che siano gli ultimi latrati del mostro agonizzante della prevaricazione.

Ma esistono segnali rivelatori di cui tener conto: il primo è senz’altro l’appropriazione degli spazi e l’isolamento graduale dagli affetti. Il fatto è che non esiste verità più vera di quella a cui si vuole credere.

Il violento è riconoscibile dalla metamorfosi che subiscono i tratti espressivi quando è invaso da ira repressa: gli occhi, resi sottili dallo sforzo di centrare meglio l’obiettivo, dardeggiano sguardi da lanzichenecco; il volto si contrae in una smorfia minacciosa; le orecchie si abbassano; il colorito diventa verdastro bilioso nei bruni e chiazzato di rossore nei biondi. Possono essere circostanze rare e casuali, all’inizio, che si vogliono archiviare in fretta.

Tra le pareti domestiche, poi, il violento deve trovare il modo di placare la sua ira cercando almeno la rissa verbale per futili motivi per mettere alla prova la compagna e valutarne la resistenza che esalta il suo amore per la sfida.

Anche qui vale la regola degli eccessi: un disordine premeditato, forma di violenza palese, o un ordine maniacale che si estende alla disposizione precisa degli oggetti, indumenti, arredi.

Il suo controllo è esercitato ovunque in modo da impossessarsi di ogni spazio fisico, oltre agli spazi dell’anima, centellinando una violenza morale che introduca la sensazione fluttuante di un colpevole stato d’inadeguatezza.

Inutile il tentativo di ragionare: o si accetta la sfida che porta a perdersi nello scontro fisico o si esercita l’autocontrollo levando uno scudo di muta indifferenza assai irritante e provocatorio, con conseguenze imprevedibili.

Dopo la tempesta sopraggiunge la quiete: egli ritorna mansueto, sorridente, dolcissimo come nulla fosse accaduto, sparigliando le carte e insinuando false speranze in chi non vuole prendere coscienza del lato oscuro che è in lui.

E’ questa l’illusione che sa dosare con abilità per non concedere scampo alla sua vittima, in una sorte di danza a tempi alternati in cui riesce a piegare la volontà dell’altra, ammaestrandola fino all’annientamento che la vede incapace di stare lontana dal suo carnefice.

E’ rischioso sostare a lungo in una simile situazione, a meno di essere fatti della stessa pasta, trovando reciproco appagamento nell’avvicendare scontri titanici a burrascose riappacificazioni sulle quali resta sospesa l’incognita d’un drammatico finale.

Marina Elettra Maranetto

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