A luglio del 1989, Alberto, Roberto ed io, desiderosi di una scossa, decidemmo di trascorrere una settimana di mare a Palau, in Sardegna. Eravamo tutti in attesa di qualcosa, io in particolare speravo di ricucire con la mia ex, che trascorreva le vacanze nella casa di famiglia a Porto Rotondo.
Partimmo da Alessandria al mattino presto, sperando di avere un po’ di tempo per vedere Porto Santo Stefano (in provincia di Grosseto) da dove ci saremmo imbarcati, alle 22,30, su un traghetto della “Corsica ferries”. Alcuni fastidi al radiatore della mia Renault 5 rallentarono la nostra corsa, obbligandoci ad una lunga sosta presso un meccanico a Levanto e costringendoci a premere sull’acceleratore per poter giungere in tempo all’imbarco.
Era una calda serata di fine luglio, il cielo stellato e il mare una tavola, fu una traversata piacevole, durante la quale intravedemmo anche le luci dell’isola del Giglio. Alberto, non ricordo come, riuscì a trovare una cabina libera dove sistemarci, non era ampia, ma tutto sommato dormimmo comodamente rispetto ai viaggiatori paganti il solo passaggio, costretti a sonnecchiare su poltroncine e divanetti distribuiti qua e là sul ponte del traghetto. Al mattino, abbandonata la cabina, ci recammo in coperta per assistere alle operazioni di attracco a Porto Vecchio, in Corsica, tappa intermedia prima di Palau.
In attesa della conclusione delle operazioni, notammo due belle ragazze di 18/20 anni, longilinee, bionde, occhi chiari, una queste, la sorella minore (come appurammo in seguito), aveva una certa somiglianza con Dalila Di Lazzaro.
Per un po’ fu un dialogo fatto di sguardi, poi quando furono vicine, Roberto ruppe gli indugi, “attaccando bottone” con una di loro, subito spalleggiato da Alberto, che, venuto a sapere degli studi di Economia della maggiore, a Venezia, si propose di aiutarla una volta sistematosi là per lavoro. L’unico assente dalla conversazione ero io, troppo preso dalle vicissitudini di una relazione divenuta ormai impossibile.
Notai però l’affabilità delle due ragazze che, pur cominciandosi ad annoiare, cercavano di non farlo notare. Erano due sorelle di Treviso, figlie di un imprenditore del caffè, si stavano recando, per la prima volta, in Costa Smeralda a trascorrere le vacanze con la propria famiglia. Questo mi fece uscire dall’isolamento, ecco la ragione per percorrere il tragitto Palau – Porto Rotondo (41 km circa) alla riconquista di un amore impossibile: fare visita alle due sorelle. In questo modo i miei amici non avrebbero avuto nulla da dire sulle mie insistenti richieste, fin dalla partenza, di fare alcune puntate in Costa Smeralda e magari sulle mie eventuali prolungate assenze.
Concluse le operazioni di attracco a Porto Vecchio, sbarco e nuovo imbarco, riprendemmo la navigazione verso Palau. Prima di giungere a destinazione ci scambiammo gli indirizzi dei residence, promettendo di rivederci. Appena sbarcati, diventammo euforici. Una volta sistemati i bagagli nel residence, decidemmo di partire immediatamente per Porto Rotondo, era metà pomeriggio e faceva caldo, ma non sentivamo più niente, né fame, né caldo, né tanto meno la stanchezza. La strada era in parte tortuosa ma panoramica, il paesaggio arcaico e nello stesso tempo lunare.
La mia guida era fin troppo sportiva, conoscevo in parte il percorso (c’ero stato due anni prima con lei), ma la mia euforia non fu molto apprezzata da Alberto, che avrebbe voluto una guida più prudente. Percorremmo quella strada più volte in quei giorni di fine luglio, sempre con lo stesso entusiasmo e le stesse aspettative. Io poi, quando mi avvicinavo a Porto Rotondo, rivedendo quei luoghi, ero preso da una doppia sensazione, di gioia e di malinconia. Al ritorno però, all’entusiasmo mattutino si sostituiva una forma di tristezza pomeridiana. Quella strada arcaica e lunare era divenuta la strada dei sogni e delle delusioni. La percorremmo fino all’ultimo, anche all’alba del giorno della partenza, dopo una nottata conclusasi in un locale notturno di Porto Rotondo ad ascoltare strani discorsi di Alberto sulle pene d’amore.
Una mattina, partimmo da Palau accompagnati da un forte maestrale. Durante il percorso ci fermammo a scattare alcune foto. Io indossavo un completo da spiaggia molto leggero che mi aveva regalato mia madre. Faceva fresco, quasi freddo, ma io mi sentivo a mio agio, libero, senza impacci. Dopo le foto riprendemmo il viaggio e raggiungemmo la spiaggia di Porto Rotondo dove eravamo soliti incontrarci con le nostre amiche di Treviso. Erano in ritardo, pensammo ad un “pacco”, forse si erano stufate di noi. In fondo eravamo tre trentenni, senza particolare prestanza fisica e anche un po’ noiosi; invece, contrariamente a ciò che pensavamo, arrivarono, scusandosi per il ritardo, dovuto ad un contrattempo.
Trascorremmo insieme la mezza giornata, decidendo di prolungarla, visto l’iniziale ritardo. Partimmo verso le due del pomeriggio, senza aver pranzato, stanchi e accaldati, ma avevamo voglia di parlare e l’argomento erano le due sorelle. Non avevamo percorso molti chilometri quando vedemmo in lontananza una nuvola di fumo. All’inizio non badammo molto alla cosa, pensammo alle stoppie di un campo che bruciavano, ma avvicinandoci, le dimensioni e il colore scuro della nuvola e lo spavento impresso sui volti delle persone che incontravamo ci fecero pensare a qualcosa di grave verso il quale stavamo andando dritti, dritti. Non facemmo in tempo a formulare un’ipotesi che ci trovammo fermi in coda ad un posto di blocco. Il fumo diventava sempre più denso, oltre non si poteva andare, non venivano veicoli dalla parte opposta, se non qualche mezzo della Forestale con a bordo uomini stravolti e muniti di mascherine.
Rimanemmo fermi per quasi un’ora; non sapevamo cosa fare, andare avanti non era possibile, si poteva tornare indietro ma non sapevamo se avremmo trovato ospitalità. Saremmo apparsi come tre giovani indiscreti che approfittavano della situazione per intrufolarsi in casa di persone con le quali non avevano un particolare legame se non una superficiale amicizia. Rimanemmo così, in attesa. Per un attimo ci illudemmo, vedendo venire verso di noi una vecchia FIAT 500 guidata da un uomo corpulento munito di mascherina. Fu solo un attimo, perché dopo quel veicolo non ne passarono altri, anzi la gente presente cominciò a vociare. Qualcuno urlò di tornare indietro e di percorrere così altre strade. Fummo presi dall’angoscia. Mentre i turisti erano lì, senza sapere cosa fare, la gente del luogo cominciò a sciamare in tutte le direzioni. Chiesi al volo ad un automobilista sardo una strada alternativa per raggiungere Palau, quello, allontanandosi, urlò di dirigermi verso Tempio Pausania.
Seguii un veicolo senza nemmeno pensarci, mentre Alberto e Roberto protestavano, accusandomi di fare le cose a casaccio, quando avremmo potuto tornare indietro e chiedere ospitalità alle due sorelle. Fui deciso: niente da fare, meglio tornare al residence e stare lì al sicuro in attesa che l’incendio (che si rivelò di vaste proporzioni) fosse domato. In cuor mio però ero in apprensione, anche perché lungo la strada non si vedevano cartelli segnaletici di alcun genere e né si incontravano persone a cui chiedere informazioni. Se avessi perso la strada avrei faticato non poco a rintuzzare le critiche dei miei amici, i quali continuavano a mugugnare. Seguii l’automobile fino a che, con mio grande sollievo, non intravidi un cartello che indicava Tempio: eravamo sulla strada giusta. A quel punto il mugugno cessò e tutti e tre ci tranquillizzammo. Rallentai, sia per orientarmi meglio, sia per guardare il paesaggio che ci circondava. Ma ciò che vedemmo non fu bello. Paesi attorniati da lingue di fuoco che, spinte dal maestrale, scendevano minacciose dai fianchi di colline impervie. Campi bruciati, neri e fumanti, animali carbonizzati e uomini e donne, induriti dal tempo e dalla fatica, disperarsi per aver perso tutto, a volte anche gli affetti.
Procedevamo lentamente, angosciati da quella vista.
Ad un certo punto, un rombo cupo sopra di noi. Un Canadair, rosso e giallo, stava sorvolando il territorio pronto a sganciare la propria bomba d’acqua contro fiamme sempre più minacciose. Aumentai la velocità e mentre ci allontanavamo dal luogo dell’incendio il Canadair diventava sempre più piccolo. Percorsi alcuni chilometri, si presentò ai nostri occhi un nuovo paesaggio. Dapprima una piana in parte coltivata e poi una zona collinosa, con alcune cave e cantieri ma senza operai, non una stazione di servizio, non una costruzione, se non pochi e lontani piccoli edifici diroccati, praticamente deserta. Avemmo la sensazione di allontanarci dalla meta, anche perché non vedevamo cartelli segnaletici da un po’ di tempo. Giungemmo in prossimità di un nuraghe semidiroccato, Alberto pensò che sarebbe stato utile fermarsi per chiedere informazioni a qualche eventuale pastore. In mancanza d’altro avremmo visitato il nuraghe. Fummo tutti d’accordo. Ci inoltrammo lungo una stradina sterrata, arrivando fino ad un recinto fatto di pietre ormai annerite dal tempo, forse le stesse del nuraghe semidiroccato usate come materiali da costruzione. Fermammo l’auto all’entrata del recinto, scendemmo, chiusi le portiere per precauzione, ma avrei potuto farne a meno, dato che non si vedeva nessuno tutt’ intorno. Entrammo nel recinto circospetti, con stupore trovammo un uomo anziano seduto sotto un grosso albero. Era vestito come i sardi molto anziani, abito di velluto scuro, coppola, scarpe pesanti ai piedi, e giocherellava con un rametto d’albero. Ci accolse in silenzio. Sembrava uscito da un racconto di Grazia Deledda. Ci avvicinammo con rispetto, quasi timorosi che ci cacciasse. Invece ci accolse con cortesia, la voce, nonostante l’aspetto, era dolce. Ci diede le indicazioni richieste, rassicurandoci sulla strada che stavamo percorrendo, permettendoci anche di visitare il nuraghe, ma avvisandoci sulla pericolosità del “vento feroce” che soffiava sulla cima dell’edificio
Penetrammo nel nuraghe, salimmo fino a dove potemmo, sopra effettivamente soffiava un forte vento, tanto forte da indurci a tornare indietro, complici anche le parti pericolanti della costruzione. Tornammo verso quell’uomo senza tempo, parlammo ancora un po’ con lui, quindi ci congedammo. Andando verso l’auto pensammo di fargli un regalo, ma cosa? Non avevamo né sigarette, né vino. Decidemmo di donargli del denaro, con la speranza di non offenderlo. Fui scelto io per portargli il regalo. Tornai indietro. Gli offrii la piccola somma raccolta fra noi pregandolo di non offendersi. L’accettò, ringraziandomi. Lo salutai quasi con malinconia, ritornando dai miei compagni di viaggio. Salimmo sulla Renault 5 e riprendemmo la strada verso Tempio Pausania quasi rinfrancati. Trovammo finalmente nuovi cartelli segnaletici e quindi la strada verso Palau, dove arrivammo dopo il tramonto. Eravamo stanchi, sporchi ed affamati e intanto il fuoco lambiva anche le colline attorno alla cittadina mentre i Canadair sorvolavano il cielo.
Egidio Lapenta
Commenta per primo