Lo chiamavano Michele di Potenza

I cultori di musica popolare e gli amanti del folk troveranno interessante “Lo chiamavano Michele di Potenza”, pubblicato presso Villani Editore, di Potenza, da Walter De Stradis, giornalista, scrittore e conduttore radio- televisivo.

E’ la biografia di quello che viene definito l’unico autentico cantore folk lucano, Michele Mancino, noto come Michele di Potenza.

Nato a Potenza, vissuto a lungo a Napoli, ma lucano nell’anima più profonda, questo cantante, prematuramente scomparso nel 1983, ha profuso il massimo impegno nella ricerca e nella diffusione dell’identità lucana  in Italia e all’estero, sia attraverso il recupero di testi della tradizione orale , sia con canzoni composte da lui.

In Italia, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, nella “seconda ondata” del Folk Revival, Michele di Potenza rappresenta un “caso tutto potentino”

Egli si pone fra il gruppo dei cantanti meridionali che di tradizionale hanno poco e quelli che non esprimono alcun messaggio particolare. Non presta attenzione ai temi sociologici e etno- musicali, ma piuttosto alle storie di una Potenza  rustica che non c’è più.

La biografia di Michele di Potenza si dipana presentandoci un artista sfaccettato: pittore, cultore di sport e attore.

In quanto tale si ricordano la sua comparsa in alcune scene di “Celebrità”, attore protagonista Nino D’Angelo, e il ruolo dello zingaro in “E la Nave va” di Federico Fellini.

Ma la musica e il dialetto sono la sua grande passione. L’opera di Michele si intreccia con il dialetto potentino.

A quest’ultimo è dedicato nella biografia  l’interessante intervento di Mario Travaglini.

Lo studioso ci informa che il potentino appartiene al ceppo dei dialetti gallo- italici, cioè il gruppo principale delle lingue romanze parlate nel nord Italia, provincia di Alessandria compresa.

Insieme ad altri idiomi di centri della provincia di Potenza (Tito, Pietragalla, Pignola, Picerno ecc) fa parte di un’isola linguistica che interrompe la continuità  del ceppo italico presente nel territorio.

L’identità celto- italica fu teorizzata negli anni Trenta dal glottologo tedesco Gerhard Rohlfs e confermata da ricerche e studi successivi.

l’ipotesi più accreditata attualmente a spiegazione di questa  specificità linguistica è quella di una migrazione di popolazioni provenienti da un’area compresa fra Valle Bormida e Monferrato prima in Sicilia, dove esistono dialetti affini a quelli lucani, e poi, da lì, in Basilicata.

Questi movimenti demografici sembra che siano stati favoriti dalle nozze di Ruggero I re di Sicilia e Adelaide del Vasto, della famiglia degli Aleramici, signori del Monferrato.

Un’ altra teoria, non presentata però da Travaglini, potrebbe essere quella di un ulteriore ripopolamento dell’area in questione dopo la ribellione anti – angioina  di alcune città del regno di Sicilia, fra cui Potenza, durante lo sfortunato tentativo di riconquista  da parte di Corradino di Svevia(1268).

Questo fu catturato e giustiziato, a Napoli, mentre la rivolta fu repressa da Carlo I d’Angiò, con la conseguente fuga o deportazione di parecchie famiglie ribelli e la loro sostituzione con genti fedeli alla dinastia angioina.

Non ci sono documenti in merito, però sappiamo che gli angioini esercitarono la loro egemonia sul Piemonte meridionale, come dimostrano le monete battute a Cuneo a loro nome e gli atti di sottomissione di Alessandria a Carlo I e a Roberto il saggio agli inizi del loro regno, presenti negli archivi di stato di Marsiglia(gli originali) e di Alessandria(le copie).

La presenza dei dialetti celto- italici in Sicilia e nel sud Italia è la più bella risposta a certo becero leghismo, che andav a(e va) predicando le differenze fra nord e sud Italia anche per motivi linguistici.

  Egidio Lapenta

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