Il lungo addio dei partiti

È la terza volta che il sistema dei partiti repubblicano collassa – bruscamente – per lasciare il posto a un condottiero salvifico. Dopo Ciampi e Monti, adesso toccherebbe a Draghi. Tutti si chiedono se Supermario riuscirà nell’impresa di raddrizzare i conti e rimetterci in pista con l’Europa. Occhio e croce dovrebbe farcela. Ma la vera domanda è un’altra. Che politica ci ritroveremo dopo? Perché ogni volta, dopo la parentesi tecnocratica, è nata una nuova repubblica. Se sarà così anche stavolta, proviamo a capire cosa ci aspetta. Non nei prossimi mesi, ma nel prossimo decennio.

I due trend che danno vita – e forma – alle tre crisi, sono gli stessi, altamente correlati. Il declino dei partiti e il rafforzamento dell’esecutivo monocratico. È probabile che anche stavolta assisteremo a questo esito. Dopo la parentesi Draghi – forse con il medesimo interprete – ci troveremo con un premier più forte e partiti ancora più deboli. Ma con il rischio che l’equilibrio si spezzi definitivamente, se non interviene a salvarci una svolta istituzionale.

Il primo tonfo fu il più clamoroso. La Prima repubblica – la repubblica dei partiti – naufragò dopo quasi mezzo secolo di dominio incontrastato delle oligarchie democristiane e comuniste, e dei loro apparati burocratici. La cronaca – e la vulgata – recitano che la colpa fu della corruzione, e dei processi che la misero a nudo. Ma a erodere il dominio partitico fu l’emergere della premiership moderna, che fece di Palazzo Chigi un bottino non negoziabile al tavolo interpartitico. Il fallimento della staffetta tra Craxi e De Mita rese plasticamente visibile questa mutazione genetica. Da primus inter pares il presidente del Consiglio era assurto a dominus della scena politica. Il paradosso fu che questo adeguamento – parziale – dell’Italia alla scena istituzionale europea era stato faticosamente preparato da quell’elite laica – da Manzella a Cassese ad Amato – che voleva promuovere un bipartitismo più efficiente. E invece i partiti si schiantarono. Craxi fu l’unico ad avere intuito che soltanto una grande riforma presidenziale avrebbe potuto garantire un riaggiustamento dei poteri. Come negli Stati Uniti e in Francia. Ma si prese gli insulti e l’abominio che trasformano nel Belpaese ogni visionario in Cassandra.

Così, il sistema dei partiti venne – a parole – rifondato all’insegna del bipolarismo. Un figurino costituzionale che piaceva teoricamente a tutti (era l’epoca in cui Westminster era di moda, prima che finisse in Brexit). All’atto pratico, le redini del cambiamento le prese Silvio Berlusconi, inventando il partito personale. Fondendo in modo geniale la vecchia forma del partito con il trend della personalizzazione che soffiava impetuoso in Occidente. Il ventennio della Seconda repubblica fu segnato da partiti sempre più deboli, e sempre più personalizzati. Con il parlamento che perdeva funzioni a vantaggio dell’esecutivo. E con la presidenzializzazione del sistema che coinvolgeva – come meravigliarsi? – anche il Colle più alto. Che, con Giorgio Napolitano, divenne il nuovo punto di tenuta dei rapporti sempre più precari dei due poli in disfacimento. Fino alla scelta di sostituire Berlusconi – e la sua fallimentare maggioranza – con un premier venuto da Bruxelles. Negli anni che precedettero la svolta, il mainstream dei costituzionalisti sostenne che l’Italia – di fatto – si era evoluta in repubblica semi-presidenziale.

L’esordio della Terza repubblica fu all’insegna del tentativo di Renzi di normalizzare – e conciliare – i due trend. Personalizzando l’ultimo partito ancora oligarchico rimasto in campo e, al tempo stesso, provando a rafforzare formalmente i poteri del premierato. Sappiamo come andò a finire. Il Pd si divorò il suo leader – sottovalutando quanto fosse indigesto – e il paese affondò il suo progetto di riforma costituzionale. Non sorprende che sia durato così poco – e sia stato così tumultuoso – il tentativo successivo di fare rinascere i partiti. Prima rabberciando i frammenti della gloriosa armata post-comunista, poi addirittura provando a partitizzare il movimento che ne aveva sancito il de profundis. L’approdo sotto i nostri occhi è il parlamento personale di cui ha scritto Michele Ainis. In cui ogni deputato approfitta di ogni sussulto per vendersi al migliore offerente. A farne – ovviamente – le spese è stato il Premier di turno. E a pugnalarlo è stato il leader che più di ogni altro aveva assaporato le vertigini del potere para-presidenziale, e i suoi tranelli.

Le conclusioni sono – drammaticamente – semplici. I partiti continueranno ad avvitarsi nella spirale autodistruttiva cui li condanna una costituzione che pretende che siano loro a dettare le regole del gioco in un’epoca che vede il trionfo dei leader forti – eroi veri o di celluloide che siano. E il paese potrà solo augurarsi che sia il Colle – senza reticenze – a surrogare l’inevitabile deficit di legittimazione popolare che si crea per un premier che deve essere eletto da un parlamento senza partiti. Una surroga che non può durare in eterno. La Francia uscì dalla Quarta repubblica dando vita – con coraggio – alla Quinta. In Italia abbiamo accumulato trent’anni di ritardi istituzionali sulla Storia. Pesano molto di più dei debiti che si chiede a Draghi di sanare. E sono molto più pericolosi.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 4 febbraio 2021)

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