L’uomo senza identità: “L’innominabile attuale” di Roberto Calasso

Roberto Calasso è un importante editore, fondatore con Roberto Bazlen e Luciano Foà dell’Adelphi. Solo che all’epoca della nascita della casa editrice, nel 1962, aveva ventuno anni. Si stava laureando in Letteratura inglese ed era poliglotta. Calasso è anche un notevole e prolifico scrittore (del genere che è detto misto, essendo a un tempo narratore di antichi miti, profondo conoscitore e commentatore della letteratura, e filosofo). Tra i suoi libri ce ne sono ben nove intesi da lui come parti autonome, ma interconnesse, di un’opera unitaria: “La rovina di Kash” (1983), storia di una mitica città africana che avendo mancato di compiere il ciclico omicidio rituale del suo re, rompendo così un ordine immutabile, sacro, rispettato da tempo immemorabile, andò in rovina; “Le nozze di Cadmo e Armonia” (1988), la sua fortunatissima opera sui miti greci, in specie di amore e morte; “Ka” (1996), su Veda, buddhismo e miti antichi; “K” (2002), su Kafka; “Il rosa di Tiepolo” (2006) ; “La folie Baudelaire” (2008); “L’ardore” (2010), il suo più importante libro sul mondo vedico, dell’India antica; “Il cacciatore celeste” (sui primordi mitici dell’umanità), e, infine, “L’innominabile attuale” (2017, pagg. 189, E. 20) sull’uomo della secolarizzazione, che qui particolarmente interessa, anche perché – ammesso che sia così anche in seguito – il libro si presenta come punto terminale, “conclusivo”, dell’“opus”.

   L’idea centrale di tutto l’insieme sembra quella della contrapposizione tra due forme dell’esperienza umana: una religiosa, in cui la contingenza degli eventi umani che ci accadono è profondamente connessa ad un pensare per miti e miticamente, tutto correlato ad una dimensione o senso dell’eternità e infinità, che riempie di significato, alias d’anima, ogni attimo dell’esistenza; ed una secolare, più banalmente umana e solo umana, per così dire antropomorfica, immersa nella “contingenza del mondo”, fondata su un pensare strumentale. Questo secondo genere d’esperienza, puramente umano, o “umano troppo umano”, è certo stato a lungo necessario e persino utile, e lo è anche ora, ma è cresciuto sempre più, a scapito dell’altra modalità del pensare (mitica e mistica), e a un certo punto l’ha schiacciata,  e infine pressoché annullata, generando però – tramite tale soppressione del senso dell’infinito e dell’eterno – un modo d’essere “dissacrato”, fine a sé stesso, in cui tutto è “liquido”, e si liquida, e, insomma, risulta senza consistenza e senza senso (in fondo perchè pretende d’essere senza “fondamento”, e così lo perde). La prevalenza di tale secondo tipo umano (troppo umano), detto “homo saecularis”, è “a questo punto della storia” considerata dall’autore un che di antropologico (o quasi): una sorta di punto d’arrivo tragico nella lunga storia dell’”homo sapiens”. Come ha potuto accadere?

   Per Calasso il punto di svolta è stato il periodo della storia europea compreso tra 1933 e 1945, illustrato tramite molte testimonianze a caldo nella seconda e più vasta parte del libro. Ma con molti cenni decisivi, qui e anteriori, ad una fase d’incubazione molto più antica. Al proposito sembra che due siano stati, per Calasso, i passaggi fondamentali: uno per lui ha avuto a che fare con lo stravolgimento di un fenomeno tipico dell’universo “religioso”, che è il sacrificio; l’altro ha avuto a che fare con la modalità di conoscenza alternativa al pensiero mitico e mistico, che da un certo punto in poi lo soppianta.

  Il discorso sul “sacro sacrificio”, connesso al sangue sacrificale, reale o in simboli, è molto complesso, e meriterebbe una trattazione a parte. Comunque si può – certo riduttivamente – provare ad esprimerlo nei seguenti termini. La grande via d’accesso all’infinito, all’eterno, cioè al divino – che naturalmente è “il fine” dell’uomo religioso – è il rito (come ben spiegato pure da Kerenyi). E infatti è centrale già ne “La rovina di Kash”, e in “Cadmo e Armonia” e, forse, più che in tutto l’opus, in “L’ardore”. Gli dèi vivono del sangue sacrificale, e motivi del genere ci sono nella Bibbia, nei miti greci e in quelli indiani. A volte l’autore sembra pensare che il sangue sia una specie di energia vitale che fa girare le ruote della storia. Ma a un certo punto il sacrificio non è più stato al dio per conservare un ordine cosmico o per accedere al contatto salvifico con il dio stesso, ma si è fatto eliminazione dell’uomo “per l’uomo”: in una sorta di apoteosi del potere umano fine a sé stessa, che considera chi sembri sbarrare a chi incarni il potere la strada come materia di scarto da eliminare.

  Il tutto è stato reso possibile dal fatto che via via la conoscenza tecnologica, e anzi “il pensare” di tipo strumentale, ha soppiantato la dimensione mitica e mistica per cui la vita era tutta sacra, in certo modo piena di dèi (o “d’anima”). Calasso definisce la modalità strumentale del pensare, meramente antropomorfica, un pensiero inteso come “protesi”. Ne coglie l’origine già nel Paleolitico superiore (p. 45), quando l’uomo raccoglitore o mangiatore di avanzi di animali uccisi dai predatori si fa predatore lui stesso, supplendo all’inferiore dotazione naturale facendo la protesi di zanne e artigli tramite pietre scheggiate, lance e frecce. Ma via via l’intelligente fare protesi si estende a dismisura (a scapito del pensare miticamente e misticamente). Una svolta decisiva si ha a partire dal XVII secolo, segnatamente da Cartesio, filosofo e scienziato che – certo riflettendo nel suo pensiero processi scientifico tecnologici ed economici più vasti, “en marche” – nel “Discorso sul metodo” (1637) ha desacralizzato totalmente la natura, vegetale come animale, dicendo che tutto ciò che non è realtà pensante in modo cosciente (“cosa pensante”, “res cogitans”), pensiero puro, cioè spirito, è mera materia, pura realtà estesa (“res extensa”), di cui si può fare quel che si vuole, considerando vacui rumori senza senso persino le grida degli animali, che sarebbero meri cigolii, non essendovi in essi un “pensiero riflettente” (vera “res cogitans”, realtà pensante).

   Ma questa desacralizzazione della materia, una volta compiuta non poteva arrestarsi di fronte alla materia umana. Lo si vede bene nelle teorizzazioni sull’”uomo macchina” di alcuni materialisti illuministi (p. 53), che preludono al moderno capitalismo. Al proposito Calasso valorizza la contrapposizione che il Marx del “Capitale” (1867 e anni seguenti) faceva tra merce come “valore d’uso” e merce come “valore di scambio”, perché con la seconda, in cui la merce conta solo perché ha un prezzo, il focus passa dall’uomo che la usa al far sempre più soldi, che nel moderno capitalismo diventa il senso stesso della vita economica, sino a fare dell’energia umana una macchina o forza di produzione. Su quell’onda la scienza e la tecnica giungono presto a pretendere di essere qualcosa di assoluto (positivismo), al solo servizio della “società”, vista come realtà fine a sé stessa. Nasce allora quella che Calasso definisce una “scienza triste”, la “sociologia”, che tutto vuol ridurre alla società, Sacro compreso, come si vede nell’opus di Durkheim “Le forme elementari della vita religiosa” (1912), in cui il senso stesso della religione sarebbe solo quello di cementare, con credenze irrazionali, ma utili, l’unità sociale. Per tale “sapere” il dimostrare che il fenomeno religioso è riducibile alla sua funzione sociale sarebbe sempre supremo scopo “scientifico” (pp. 29-32 e 51-52).

  Sulla scia di un tale capitalismo e di una tale cultura si rinnega innanzitutto la democrazia liberale, quella basata sugli individui uno per uno, sulla divisione dei poteri e sul principio per cui ogni cittadino vale uno e la maggioranza che prevale, di vota in volta, ha ragione. Accadrebbe da Saint-Simon a Sorel, da Lenin a Hitler: tutti critici assoluti del cosiddetto “atomismo” della democrazia degli individui o liberale, che avrebbe enfatizzato – secondo loro – la separatezza o estraneità tra i singoli, come se non fossero una comunità (appunto come se fossero solo atomi che hanno la compiutezza in se stessi): tutti teorici e politici tendenti ad un “assetto organico” della vita collettiva, preteso non più atomizzato (p. 29 e p. 40). Perciò rifiutavano la democrazia “procedurale”, che per Calasso è la quintessenza della libertà possibile, da difendere a ogni costo, persino quando a vincere legittimamente siano forze fondamentaliste, come accaduto talora in Algeria e Egitto, se si vogliano evitare rigurgiti terroristi e reazioni antioccidentali ancora peggiori (p. 24, p. 27, p. 38).

   Nel processo in oggetto, che va dal positivismo all’organicismo preparando l’assetto post-liberale, un ruolo decisivo è stato giocato dalla Grande Guerra, vista da Calasso – sulla scia dell’amato Karl Kraus de “Gli ultimi giorni dell’umanità” (1922) – come un immane lavacro, un sacrificio collettivo degli innocenti, che preludeva a un mondo post-religioso, quale sarebbe stato quello dei totalitarismi, in cui la cieca forza pretendeva di farsi diritto, senza alcun limite sacro sopra di sé. Semmai la pura forza del potere era volta a sacralizzare se stessa, con una sorta di religiosità alla rovescia, capace anche di incantare con i suoi rituali di massa, pure fascisti francesi amici dei nazifascisti, e non certo stupidi, ancor prima della seconda guerra mondiale, come Brasillach (pp. 119-120), o di fuorviare scrittori del calibro di Jünger (p.154), e di ingannare scrittori come André Gide (p. 129). Quei rituali di massa sembravano sommamente mistico religiosi, ma in essi il momento religioso – in quanto era mero culto della potenza, fondato sul sacrificio dei reali o presunti o immaginari nemici, sacrificio inteso addirittura come “disinfestazione” – aveva un carattere demoniaco. Così si giunse allo sterminio degli ebrei e al tentato sterminio dei pazzi, che negava all’altro da sé la qualifica umana (pp. 135-140), per celebrare il culto della propria potenza fine a sé stessa. Perciò Calasso nota che “Negli anni fra il 1933 e il 1945, il mondo ha compiuto un tentativo di autoannientamento parzialmente riuscito” (p. 13).

  La disfatta del 1945 non avrebbe eliminato la tendenza, ma l’avrebbe in certo modo normalizzata (dotata di pseudo-razionalità), sino a dar luogo a un mondo senz’anima, in cui il pensiero “come protesi” giunge ormai al tentativo di fare la protesi dell’intelligenza stessa (pp. 80-81), anche se Calasso giustamente fa notare che il problema della natura ultima della coscienza sfugge a qualunque riduzionismo pan-scientifico e che su ciò ci dicono di più i libri più sentenziosi dell’antica India dei Veda, ossia le “Upanishad”, che non i teorici dell’intelligenza artificiale. In un mondo del genere si vive “come se” il divino, il mitico, il sacro in sé e per sé non esistessero. Persino i fenomeni minoritari dei gruppi yoga o buddhisti e delle varie sette del genere sono visti da Calasso come una sorta di mera valvola di sfogo, come una specie di ricreazione dell’homo saecularis, che “normalmente” non sa più che farsene del sacro, dell’infinito, dell’eterno, del mitico e del divino (p. 32, p. 47). Lo stesso risveglio islamico, così forte da Komeini in poi, per Calasso non sembra essere un fenomeno autenticamente religioso, ma una sorta di reazione violenta contro il modo di vivere occidentale, reazione che sarebbe l’unica base del fondamentalismo e in specie del terrorismo.

  A questa sorta di crollo resisterebbero pochi individui o gruppi (p. 55, p. 69), confermando la verità di quel che Baudelaire aveva scritto su un foglietto senza data, che testimoniava un suo sogno o visione di catastrofe quasi identico al crollo dei grattacieli (lì “torri”) di New York del 2001, ossia l’incombere di una catastrofe, per cui sarebbe stato necessario dare l’allarme, avvertendo innanzitutto “i più intelligenti” (p. 163).

   L’analisi, come descrizione, e sommaria ma profonda spiegazione, del primato dell’”homo saecularis” in Europa e in America, è convincente. Tuttavia la partita tra “homo religiosus” e “homo saecularis” a me pare ancora aperta. Persino le sette induiste, buddhiste o neo-cristiane non sono solo folklore (come non lo erano state le antiche), ma possono essere, o almeno essere per molte persone, terreno di coltura di fenomeni autenticamente religiosi allo stato nascente; così come le centinaia di milioni di induisti o buddhisti, e il miliardo e più di musulmani, fatto di gente che per un mese all’anno digiuna dall’alba al tramonto per il suo Dio, non sembrano avvalorare l’immagine di una secolarizzazione ormai onnipervasiva. La tendenza più forte nel mondo avanzato, il quale finisce per condizionare tutto e pressoché tutti, è certo quella messa in luce da Calasso, ma la soluzione del conflitto tra le due modalità dell’essere umano non sembra scontata, bensì più aperta che mai.

 

(FRANCO LIVORSI, L’uomo senza identità: “L’innominabile attuale” di Roberto Calasso, “Qui libri”, a. IX, n. 45, gennaio-febbraio 2018, pp. 28-30. L’autore ha introdotto qui alcune variazioni minime, per rendere più comprensibile il discorso).

 

L'innominabile attuale

Giambattista Tiepolo, “L’Olimpo e i continenti, Asia” (1753) – Residenz, Würzburg

 

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