Manderlay (2005) di Lars Von Trier
Secondo film della teorica trilogia “U.S.A. – Terra delle opportunità”, Manderlay prosegue nella forma scarna, essenziale, dreyeriana nella sua maniacale asciuttezza e scarsità di oggetti, del precedente Dogville (2003), in cui si narra la fuga di Grace dal padre gangster verso una comunità che dapprima sembra accettare benevolmente la protagonista, per poi gettarla nell’abisso dell’ipocrisia e della violenza.
In Manderlay, Bryce Dallas Howard sostituisce la Nicole Kidman di Dogville, certamente meno rinomata della Kidman, ma che, nonostante la difficoltà palese di affrontare un film di Lars Von Trier, riesce a coinvolgere lo spettatore nella visione di questo dramma.
Infatti, Manderlay narra, su una specie di palco, di teatro irradiato da una luce soffusa e delicata, le disavventure di Grace, una donna che crede in principi solidi, quasi intoccabili, della società occidentale: sembrano severi gli occhi di Lars Von Trier, che dà una visione cupa del sistema americano, volto alla sopraffazione e all’autoaffermazione, contro i principi di democrazia e libertà che gli U.S.A. propugnano in Europa e nel mondo intero.
Rispetto a Dogville, Manderlay sposta l’attenzione da un tema prettamente etico-filosofico a una tematica più strettamente storico-politica: quella della schiavitù dei neri.
Infatti, siamo nel 1933, Grace si trova a Manderlay, assieme al padre, e viene chiamata da una donna, che chiede pietà per un suo compagno di sventure, uno schiavo che sta per essere punito dalla sua padrona bianca.
Grace interviene, salva lo schiavo e attacca veemente la vecchia padrona, ormai in procinto di morire: questa chiede a Grace di distruggere un libretto, dove sono state inserite le regole di amministrazione della colonia.
Grace, facendo valere le Leggi Occidentali di democrazia e uguaglianza, “spiega” agli schiavi le innovative idee Occidentali di libertà e di condivisione di pareri, naturalmente argomentando, pur in maniera parziale, la funzione del voto; obbliga, parallelamente, gli eredi della vecchia padrona a pentirsi dei loro peccati, anche con sistemi molto duri e violenti.
La trama poi si svolge in un clima apparentemente favolistico, che nasconde però le caratteristiche di un vero e proprio dramma, di una sorta di incubo: i neri, diventati autonomi, decidono di tornare al loro vecchio sistema di schiavitù, non tanto perché voluto dal padrone bianco, ma perché è il sistema che ritengono più conveniente per loro stessi; non sono pronti alla democrazia dei bianchi, come in fondo non lo sono neppure i bianchi stessi…
Grace, decisa ad andarsene, si trova come una schiava nelle loro mani, giacché deve “sostituire” la vecchia padrona bianca, destinata per volontà dei neri a comandare, a ricordare che i bianchi sono i “presunti” padroni, che però non sono padroni neanche in casa loro (per parafrasare Freud).
Grace, allora, attende il ritorno del padre, che la deve portare via da quella comunità “malata”, ma lui, vedendo Grace frustare uno dei neri non per una sua propria volontà, ma per una sorta di rabbia repressa, la lascia “spadroneggiare” sulla comunità, fintanto che lei decide di scappare, diretta verso chissà quali altre avventure o, meglio, sventure…
Manderlay mostra le contraddizioni di un sistema, quello americano, che lentamente vorrebbe liberarsi dagli spettri del sistema schiavistico, ma non riesce ad esprimere neppure un “sano” sistema democratico ed ugualitario: tutta la trama sembra seguire una logica legata al pragmatismo, o, meglio, all’utilitarismo tipico della cultura anglosassone ed americana, dove non vige una vera regola del “giusto”, quanto quella dell’utile.
Come esempio di esasperazione di tale “regola”, viene in mente la scena in cui la comunità, per implementare il raccolto e migliorare le proprie condizioni di vita, viene convinta da Grace a tagliare gli alberi del giardino della vecchia padrona: la comunità allora è colpita da una tempesta di sabbia, che rischia di produrre una carestia letale per Manderlay, e ciò che potrebbe sembrare utile per la comunità, in realtà risulta fatale per la medesima.
Sembra una condanna del regista, che castiga gli schiavi, ma soprattutto Grace, per aver seguito una logica puramente utilitaristica, senza meditare sulle conseguenze delle proprie azioni.
Certamente, homo faber Fortunae suae, ma qui sembra che ci sia un destino avverso che colpisca chi non valuta ciò che è giusto e spezza degli equilibri per un presunto tornaconto.
La scena della morte della piccola Claire, figlia di due schiavi, che muore perché la vecchia Wilma ruba le razioni di carne di asino destinate alla bambina per sedare la propria fame, mostra altresì come la democrazia americana sembra prendere corpo quando la giuria degli schiavi chiede la morte di Wilma.
Grace accetta quella decisione, perché basata sul principio “one man, one vote”, ma usa uno stratagemma piuttosto ingiusto per condannare Wilma: una bugia sembra salvare Wilma dalla condanna a morte; la vecchia si addormenta contenta per la sventata condanna; Grace spara alla vecchia e sembra rendere giustizia, ma in cuor suo non riesce a convincersene fino in fondo, come una condanna morale che la possa attanagliare per sempre.
Il nero è il colore principale del film: il nero è il colore della pelle degli schiavi, che vivono sotto un sistema schiavistico già abolito settanta anni prima, mentre le vicende del film si svolgono in una sorta di colonia sudista (in Alabama) nel 1933, quando, appunto, la schiavitù era già stata abolita; ma nero è anche il volto dei padroni che, puniti da Grace per la loro tracotanza e la loro apatia verso il sistema schiavistico, vengono costretti a colorarsi i volti di nero e a servire i “padroni” neri…
Ingannevoli e bifronti sono i metodi con cui Grace gestisce la colonia, ma, soprattutto, ne valuta gli abitanti, e proprio un inganno colpisce Grace nel suo rapporto con Timothy, che si mostra per uomo di un certo valore, di una nobile stirpe nera, quando invece è solo un uomo ambiguo che deruba la comunità dei soldi del raccolto per giocare d’azzardo: Grace, apparentemente imparziale ed equilibrata, cade nell’angosciante dubbio sulla sua conoscenza della colonia e capisce invece quanto siano puntuali e “necessarie” le leggi del libro della vecchia padrona, che identificano nei vari schiavi delle caratteristiche particolari; così, di fatto, Timothy risulta un soggetto ambiguo, ruffiano, pertanto pericoloso…
Alla fine, il film Manderlay testimonia la denuncia di un europeo scandinavo rispetto al sistema americano: Grace scappa, lontana, senza una vera meta, e seguono immagini di forte impatto che richiamano al razzismo in America e risuonano come condanna morale da parte dell’europeo Lars Von Trier, contro un mondo, quello americano, fatto di opportunità (probabilmente), ma anche, soprattutto, di ingiustizie e ipocrisie (sic).
Forse questo film non sorprende come il precedente Dogville, seppur fatto di spunti pirandelliani, brechtiani, senza dimenticare il teatro dell’assurdo di Beckett, ma convince in una trama più lineare, che a tratti richiama una sorta di giallo, di rebus da risolvere, come quello della corretta lettura del “libro delle Leggi”, scritte non dalla vecchia padrona, ma dalla volontà degli schiavi stessi, che accettano la schiavitù come un sistema sicuro, utile e pratico, non instabile e corruttibile, come quello democratico americano.
La novità spaventa, i vecchi retaggi mantengono una stabilità inspiegabile per la giovane Grace, destinata a una fuga verso una libertà che chissà mai se riuscirà a raggiungere, forse nel terzo film della trilogia, se mai ci sarà…
Marco Penzo
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