In margine a “Ra Spagnora”, storica epidemia

La “Spagnola”, pandemia di un secolo fa,
in una poesia di Giovanni Rapetti

A partire dal 1917 e per circa una decina d’anni ha imperversato, prima in Eurasia poi un po’ in tutto il mondo, un’altra pandemia. Con esiti ben più drammatici di quella che stiamo vivendo, la cosiddetta “influenza spagnola“. Di questo tratta l’originalissima poesia del nostro Giovanni Rapetti, presentata magistralmente dal prof. Franco Castelli. Una chicca che ci sentiamo di regalare a tutti i nostri lettori, con l’impegno a riprendere – a breve – la “rivisitazione” di uno dei più grandi filosofi / descrittori / poeti del nostro Novecento dialettale.

Dallo straordinario giacimento poetico di Rapetti, ecco una lirica che recupera, dai ricordi dei vecchi soci della SOMS di Villa del Foro, la memoria della terribile “influenza spagnola” che negli anni 1918-1920 fece in Europa due milioni di morti e in tutto il mondo qualcosa come più di 50 milioni di vittime. Veicolata dalle truppe americane destinate al fronte, l’influenza si diffuse negli Stati Uniti ma colpì pesantemente anche l’Europa. L’Italia risultò tra i paesi più colpiti, mostrando gravissime carenze sul piano dell’organizzazione della sanità pubblica, acuite dal contesto bellico.
L’affresco tracciato da Rapetti sulla base delle fonti orali del sobborgo alessandrino, è da apocalisse: mentre al fronte gli uomini si scannano, l’epidemia fa strage nella popolazione civile, stremata dalla fame e debilitata dalle fatiche. (Franco Castelli)

 

Ra spagnora

T’ èjsi ‘r masceli diri ‘d cicia san-na
o cuj mur flòs, pein d’ aria, dra fanfan-na
quat seing dì ‘d frév ra gèint tucava strèra
‘mnì giald cme ‘r foji ‘d muron ch’i cazu ‘n tèra.
“Fè buji di capon”, Barèla diva
dutur san pì cse fèj, ‘sta gèint muriva
“Fimè ch’ u dizinfèta, pipa, tuscan !”
ma ‘r dòni, ‘r maznà, fimaviu ‘r mèrdi ‘d can?

Mòrt Lucrésia, su mari ‘d Pipein ‘d Micòt
cà ‘d Baciuru, ot dì, du fiji e ‘n fanciòt
t’ amniva sta frév fòrta, crova i cavì
cuj débel ‘d mangè mangiavu n’ èjsu avì.

Ra ròba è rasiunaja, cme ‘nt sta uèra
pre ‘r front, là ancura péz da supurtèra
que scondu ‘nt er pajè cuI ch’i pudivu
là stavu bèin i piogg, ra gèint murivu.
J’ Austrìaci àn pèrs ra uèra per is mutiv
pèl ‘d patati e pan facc d’ èrba, stavu viv
finì ch’ j’ àn ausà ‘r man, son stacc pì savi
que nèinta as puntu lé ma t’ ai rivavi.
Er vigil bulè ‘r tèseri, uardè ‘r pan
s’ il cuzivu nèj o bianc, ‘d uardia cme ‘r can
ma i dèincc j’ ava anca chil, ‘r ghein ui piaziva
masandli ‘d sfròz ‘n tòc ‘d lard o d’ aut curiva.

Mòrt ra dòna ‘d Biazein dl’ Ost, stavu ar Casté
mòrt ra dòna der Fransèiz, lasè i fió andré
ra fija ‘d Jaculein, ra pèst ‘d na vòta
tucà ranchè j’ aucc mòrt, strèj ticc, sta vòta.
‘S na vizu se, na frév che ‘t straparlavi
famiji ‘nt u lécc ticc, mur vis-c ‘t tremavi
facc ra pulèinta ant in caudrein, na ciapa
papen-ni doi trèi di, o ‘t crèpi o scapa.
Sunavu manc pì ‘r campan-ni, du dezdot
j’ òm bon an uèra, dòni laurè dì e not
arè, samnè, dè ‘r verdaram, sciè cor fèr
lacè, fè ‘r pan, vein e ligna per l’invèr.
An fin richiamà u Zura e u Ciuc, Pipein
cuj du setantatrèi, preaviz, a Cein
“Que soma a ra fein der mond” diva ra gèint
tit doni suli, vègg e maznà, con nèint.
Majeta,Tunjina du Ciuc, aravu
pià ra midaja dau seindic, ‘d cuI ch’i favu
Nazóla, du setantaseing, seing maznà
‘vì l’ ezònero per sulé, stacc perdunà.
Jitava tachè ‘r béstii ‘s dòni là atur
arè, martlè i fèr, piè ‘n sac adòs per lur
e Gustu, ch’ l’ ava ‘r machini da bati
‘mnì cà fè ra stagion, jità dar mati.

An gir i dizertur, lur s’ arangiavu
Tachein e ra so gheinga, ‘n gir, gratavu
drumì ‘cc ciabòt der vigni, ‘ns is casen-ni
cantavu a l’ òst, ‘ns er pianti cme ‘r durdren-ni.
Zablein, bargéra, purtava cà u giurnal
l’ alziva Arnestina dl’ Ost, cme ‘n papagal
ra gèint atur sentivu e ripetivu
fin quand ch’ r’ à pià ra frév ‘d cuj ch’i murivu.

Der ventiquat zlargà po u simitéri
‘n barba ‘d Nadal er prim ch’ j’ àn strà ‘nt cul téri
Carlein ‘d Carlu, dizertur, àn pià ‘n tiret
d’ anlur l’ àn zlargà turna, ‘n pòst che ‘r prumet.

Sia che tu avessi le mascelle dure di ciccia sana
o quei visi flosci, pieni d’ aria, della fanfana [di nulla]
quattro o cinque giorni di febbre la gente bisognava sotterrarla
divenuti gialli come foglie di gelso che cadono per terra.
“Fate bollire dei capponi”, Barella diceva
il dottore non sa più cosa farci, ‘sta gente moriva
“Fumate che disinfetta, pipa, toscano !”
ma le donne, i bambini fumavano le merde di cane?

Morti Lucrezia, sua madre di Pipein ‘d Micòt
casa di Baciuru, otto giorni, due figlie e un ragazzo
ti veniva questa febbre forte, cadono i capelli
quelli deboli mangiare mangiavano se ne avessero avuto.

La roba è razionata come in questa guerra
per il fronte, là ancora peggio da sopportare
qui nascondono nel pagliaio quello che potevano
là stavano bene i pidocchi, la gente moriva.
Gli Austriaci hanno perso la guerra per questo motivo
pelle di patate e pane fatto di erba, stavano vivi
fin che hanno alzato le mani, sono stati più saggi
qui non a ‘sto punto ma ci arrivavi.
Il vigile a bollare le tessere, controllare il pane
se lo conoscevano nero o bianco, di guardia come cani
ma i denti li aveva anche lui, il maiale gli piaceva
uccidendolo di frodo un pezzo di lardo o d’ altro correva.

Morta la moglie di Biagino dell’ Oste, stavano al Castello
morta la moglie del Fransèiz, ha lasciato i figli dietro
la figlia di Jaculein, la peste di una volta
tocca togliere gli altri morti, seppellirli tutti, sta volta.
Se ne ricordano sì, una febbre che straparlavi
famiglie nel letto tutti, visi accesi e tremavi
fatta la polenta in un pentolino, una pezza
pappine due o tre giorni, o crepi o ti passa.
Non suonavano manco più le campane del diciotto
gli uomini validi in guerra, le donne a lavorare giorno e notte
arare, seminare, dare il verderame, falciare col ferro
mungere, fare il pane, vino e legna per l’ inverno.
Hanno richiamato perfino u Zura e u Ciuc, Pipein
quelli del settantatrè, preavviso a Cein
“Qui siamo alla fine del mondo” diceva la gente
tutte donne sole, vecchi e bambini, con niente.
Majeta,Tunjina du Ciuc, aravano
presa la medaglia dal sindaco per quello che facevano
Nazola, del settantacinque, cinque figli
ha avuto l’ esonero per questo, è stato perdonato.
Aiutava ad attaccare le bestie a ‘ste donne là attorno
arare, martellare i ferri, prendere un sacco addosso per loro
e Gustu, che aveva le macchine da battere
è tornato a casa a fare la stagione, aiutato dalle ragazze.

In giro i disertori, loro si arrangiavano
Tachein e la sua ghenga, in giro, rubavano
a dormire nei casotti delle vigne, sulle cascine
cantavano dall’ oste, sulle piante come le allodole.
Zablein, lattaia, portava a casa il giornale
lo leggeva Ernestina dall’ Oste, come un pappagallo
la gente attorno ascoltava e ripeteva
fin quando li ha presi la febbre di quelli che morivano.

Del ventiquattro hanno poi allargato il cimitero
uno zio di Nadal il primo che hanno sotterrato in quelle file
Carlein di Carlu, disertore, hanno preso un loculo,  ma
da allora l’ hanno di nuovo allargato, un posto che promette.

Ho avuto la fortuna di conoscere di persona Giovanni Rapetti, così come la moglie. Già a metà degli anni Settanta frequentavo, per motivi di lavoro, il  borgo di Villa del Foro, prima da me conosciuto solo per i fondoni del Tanaro (allora) abbondanti di anguille. Una pesca notturna, disagevole, ma di grande impatto. Tanto è vero che me la ricordo ancora oggi. Poi le povere bestiole, ancora vive la mattina del giorno dopo, finivano regalate alla Nilde della Parrocchia della Pista (“perpetua” di allora) oppure a parenti e amici. Molte, quelle piccole, venivano ributtate nelle lanche del grande fiume e, subito dopo si raccoglievano i tramagli e si tornava a casa. Questo fu il mio prima impatto con “ra Vila” come la chiamava Rapetti, almeno una decina d’anni prima di quando ci arrivai come maestro elementare. Proprio Giovanni Rapetti era uno di quegli esperti di cui non si poteva fare a meno. Conosceva tutti i piccoli scolari, dalla prima classe alla quinta e anche quelli che avevano scelto Alessandria o Oviglio per le Scuole Medie. Amato da tutti, quasi un “nonno” adottivo, portatore di saperi arcani, sempre disponibile a fare due chiacchiere, specie se si trattavano argomenti di suo interesse. Questi, a ben vedere, erano praticamente tutti quelli “potabili”. Sapeva di guerre, di tedeschi, di partigiani. Era a conoscenza delle antiche origini romane del suo paese. Ne conosceva ogni angolo e sapeva anche raccontare l’evoluzione (o meglio l’involuzione) urbanistica di alcuni tratti di strada con i relativi edifici. Con lui andammo più volte (con frotte di giovani studenti curiosi al seguito) nella vicina area di San Damiano, quando ancora non c’era l’edificio con i due grandi essiccatoi agricoli. S’imboccava via Maestra. si superava la Società di Mutuo Soccorso fino a svoltare in via della Rocca. A quel punto la meta era in vista: una chiesetta (apparentemente) anonima che molti pargoli impararono a conoscere e a considerare in modo diverso proprio dopo le lezioni semplici e dirette del signor Giovanni.  Alternava sapientemente un ottimo italiano ad un dialetto aspro, dittongato, tronco, difficile da capire pure per un alessandrino. Poi ci furono le visite, con l’allora giovanissima archeologa dott.ssa Venturino ai vicini scavi o, meglio, a ciò che rimaneva di una grande città romano-imperiale che iniziava appena dopo Casalbagliano per arrivare fino all’area della chiesetta di San Damiano. Inesorabilmente si finiva con il riportare qualcosina a scuola (pezzi di coccio di dubbio valore, qualche frammento d’osso, qualche pietra…), giusto per appassionare un pochino di più chi aveva la fortuna di essere nato in quel borgo,  alla storia passata, alle belle figure di popolani che si sono succedute nel tempo, a quelle “case vecchie” che, viste in un altro modo, diventavano testimonianze costruttive e architettoniche di pregio.

 

La spagnola

La poesia (o meglio “il componimento (1)” ) colpisce e si impone fin dalle prime strofe. Ci fa capire che la “fanfan-na” (2) il nulla non guarda in faccia a nessuno e in quattro o cinque giorni abbatte sia le persone in carne che quelle magre e tirate. Quasi una “livella” che arriva silenziosa e inesorabile. I dottori non sapevano cosa fare e, disperati, consigliavano a tutti di fumare forte, per allontanare il morbo. Ma cosa possono fumare gli abitanti di una borgata come quella? Non restano che escrementi secchi di cane e, dal modo tagliente e veloce con cui sgorgano cristalline le parole, si capisce che Rapetti  ha una gran rabbia in corpo.

Rabbia verso chi si è dimenticato della povera gente, con una critica implicita alle autorità costituite (non presenti in nessuna strofa, tranne un vigile trafficone); rabbia che tocca anche  i medici, incapaci di fronteggiare seriamente l’epidemia. E quel “’n jesu avi’” è più di una critica, è un urlo che sgorga dal profondo ma che, lo sa bene Rapetti, , non potrà andare oltre una sorda denuncia. Quello stesso atteggiamento, al limite del sarcasmo,  che chiede di far bollire il cappone (“Fè buji di capon”) cibo della festa di cui si ha un lontano ricordo. Forse utile, con la sua carne e il suo brodo per alleviare le sofferenze dei contagiati ma, alla fine, non risolutivo. Un quadro d’insieme che si fa ancora più fosco con le persone che, quasi come in guerra (cme ‘nt sta uèra pre ‘r front, là ancura péz da supurtèra), nascondevano il poco cibo nel pagliaio, con pidocchi e parassiti pronti a rosicchiare  tutto. Guerra che viene evocata anche per la resa degli Austriaci, pure loro battuti più dalla fame e dai disagi che dalla potenza del nostro esercito. E per questo, come in altre poesie, sicuramente non “nemici” ma compagni di sventura. Atteggiamento distaccato e rassegnato che porta a descrivere l’autorità (“Er  vigil”) come persona apparentemente impassibile ma, in realtà ben interessata a compensi extra in cibo o altro. Anche questa un’immagine veloce, appena schizzata eppure  di un valore enorme, più significativa di pagine e pagine di romanzo. Si termina poi con  tutta una sequela di morti e di “spazi del cimitero” che drammaticamente mancano. Così come mancano gli uomini, fondamentali per i lavori agricoli, tutti in guerra, con le donne (e, a volte i vecchi e i bambini) a far andare avanti i lavori alla bell’e meglio. Qualcuno è rimasto, chi aveva molti figli – ed è stato “perdonato”, cioè autorizzato a restare a casa – e chi, furbescamente, si è imboscato ed ha intrapreso la difficile vita del “dizertur”.  D’altra parte l’occhio vigile di Giovanni Rapetti, traslato in una Villa del Foro degli anni della pandemia spagnola, li conosce tutti, li chiama per nome, sa dove si nascondono e, dalla stessa scelta delle parole loro dedicate, si capisce che la sua non è una condanna ma, quasi, una comprensione per non voler andare “a la uera”, per non sparare ad altri poveri cristi, per sopravvivere .

Le ultime due scene, anche queste  due flashes brucianti, sono terribilmente attuali, con un gruppo di persone inconsciamente raccolte intorno ad una lettrice di giornale, per sapere il più possibile di ciò che succede prima e dopo il paese. Persone semplici, ordinarie, inconsapevoli del grave rischio di contagio a cui vanno incontro. E la “fanfan-na” è in agguato e, senza ritegno, miete altre vittime. Tanto da dover allargare il cimitero con i suoi “tiret”, i suoi loculi. Il cimitero “dra Vila” che improvvisamente è diventato “ ‘n post che ‘r prumet” , un luogo promettente e ambito. Un’altra scudisciata a metà strada fra sarcasmo e rassegnazione. Un occhio impietoso, quello di Rapetti, freddo, indagatore, immerso in una atmosfera plumbea, fumosa, con gruppi di personaggi e “quadri” che si susseguono incalzanti. Un affresco di abbandono e disperazione che ben rende la condizione dei villici di allora.

 

Una lingua e una sintassi funzionale al contenuto                             

I tempi lontani delle analisi linguistiche condotte sotto la guida di Ettore Bonora e Gasca  Queirazza mi portano naturalmente a considerare primarie le scelte lessicali, fonetiche e strutturali del nostro Giovanni Rapetti. Una lingua di confine, ovviamente neolatina ma con una percentuale di termini longobardi, franchi e, addirittura, prelatini, superiori alla norma “padana”. Una lingua che ha le sue radici nell’isolamento dell’area tra Tanaro e Belbo a partire dalla disgregazione dell’Impero Romano fino all’anno Mille. In quel periodo si può dire che la forma linguistica ufficializzata nella zona “dra Vila” si sia stabilizzata. Un vocabolario e una fonetica particolare, poco propensa ad agglutinare termini moderni o delle aree vicine. Siamo di fronte ad una modalità di comunicazione che ci riporta nell’alto Medioevo e di cui Giovanni Rapetti è stato un ottimo difensore prima e propalatore poi. Restando al testo in oggetto (Ra spagnora) fin dal titolo spicca il rotacismo della liquida in condizione intervocalica. Evoluzione fonetica che troviamo in altri termini come “dra” per della, “dar” per dalle, “durdren-ni” per allodoline, con il  risultato di rendere più aspra la parlata. Stesso discorso vale per le dittongazioni, sempre molto nette e accentuate: “seing”, “geint”, “deincc” (per “cinque”, “gente”, “denti”) e per le sincopi e le contrazioni di parole al limite dell’incomprensibile: “cuzivu”, “nej”, “mniva” (per “conoscevano”, “nero”, “veniva”). Una fortissima evoluzione linguistica frutto di una autonomia dalle aree circonvicine, mantenuta per secoli. A volte con forme più aderenti al latino volgare dello stesso volgare fiorentino, padre dell’italiano moderno. E’ il caso di “niente” che nel villaforese stretto (o forse è meglio chiamarlo rapettese) si mantiene molto più vicino all’originale “nec ente(m)” con “neint” (così come succede con la forma alessandrina “nenta” senza la solita dittongazione. Quest’ultima, come la tendenza al rotacismo e alcune scelte lessicali (“chil”, “mata”, per quello e ragazza ) di evidente area valle Tanaro – valle Belbo o, se si preferisce, tipiche di centri dell’alto Monferrato (quello che gràvita in torno ad Acqui e Nizza). Quindi, anche se in modo volutamente sommario, un insieme che porta ad una scorrevolezza di eloquio e ad una musicalità battente e – a volte – chiusa. Velocità e coinvolgimento determinati anche dall’uso della rima baciata, continuamente ripresa dalla prima all’ultima strofa. Anche questa una scelta arcaicizzante che ci porta lontano, all’Umbria di Jacopone o, ricordando il prof. Queirazza, alle Laudi Occitane o a quelle Monregalesi. Una lingua strettamente collegata al contenuto, da cui non può essere scissa.

E ben ce ne accorgiamo quando passiamo dalla lettura originale “dialettale” (per una volta voglio usare il termine, anche se fuorviante) a quella – piatta – in italiano. Giovanni Rapetti, davvero un patrimonio unico della cultura alessandrina, di cui non ci siamo ancora pienamente accorti.

  • “Componimento” forse è ancora poco. Si tratta di un vero moto insopprimibile dell’animo.
  • “fanfan-na” – In ant. spagnolo fanfa  ha un significato simile a “vanteria”, “bolla d’aria”; con qualche legame con il gr. pompholyx  “bolla d’aria”   (da G. Devoto:  Avviamento alla Etimologia Italiana. Le Monnier. Firenze)

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