Memorie di Classe. Il Primo Maggio tra passato e futuro

(1) Il primo maggio, festa dei lavoratori, è una data diventata simbolo per il motivo di un incidente grave accaduto durante una manifestazione per la riduzione dell’orario di lavoro: fin dagli 60’ dell’ottocento i lavoratori dell’Illinois, negli Stati Uniti d’America, avevano lottato per l’approvazione di una legge per le otto ore lavorative, e la legge fu promulgata finalmente il 1° maggio del 1867. Sta di fatto che la normativa non era realmente applicata su tutto il territorio americano, e fu così che il sindacato di Chicago, capoluogo dell’Illinois appunto, annunciò uno sciopero ad oltranza per reclamare la reale estensione a tutti gli Stati dell’Unione dell’orario a otto ore giornaliere, e lo sciopero iniziò, simbolicamente, il primo maggio del 1886. Di fronte ad una tale manifestazione di forza popolare la polizia reagì furiosamente; vi furono cariche degli agenti a cavallo e si sparò sulla folla. Il sindacato non desistette e annunciò una enorme manifestazione popolare per protestare contro la brutale repressione delle forze dell’ordine, indetta per il 4 maggio.

Lì accadde il peggio; verso la polizia, presente in massa in piazza quel giorno per contenere possibili tumulti, qualcuno, in seguito mai identificato ne localizzato in mezzo alla affollata manifestazione, lanciò una granata contro la polizia. Il panico fu generale e le gendarmerie aprirono immediatamente il fuoco contro la massa dei lavoratori. Fu una strage; numerosi furono i caduti e feriti nelle file della polizia, fra i manifestanti non si venne mai a sapere il macabro conto della giornata del 4 maggio. Nei giorni seguenti i capi delle manifestazioni sindacali furono arrestati, sommariamente processati e impiccati e esposti come mezzene al pubblico nella civilissima città americana.

Pensate che strana meraviglia profana! Un giorno di festa nasce da un sacrificio umano, come spesso erano e sono sacrifici le lotte sindacali, un sacrificio di chi vende la sua vita per un lavoro e per un pezzo di pane.

E’ questa una storia del passato? Una storia ormai cancellata da più di un secolo di sviluppo, di progressi civili, spirituali e materiali, che hanno innalzato la dignità di chi lavora al di sopra di una vita che allora, nell’ottocento, ci appare oggi di natura bestiale? Purtroppo, non si può che amaramente osservare che il progresso sia meno progressivo di quanto non si sia abituati a pensare.

Se diamo uno sguardo attento al multiverso mondo del lavoro attuale, vediamo che risaltano immediatamente due fratture profonde:

  • La separazione fra lavoratori specializzati e tecnologicamente capaci di inserirsi nella nuova fabbrica digitale, ( l’industria 4.0 di cui tanto si parla), e lavoratori con scarse conoscenze e con salari sempre più bassi.
  • La sempre più inaccettabile condizione dei migliaia di lavoratori espulsi dal processo di lavoro o costretti ad accontentarsi di lavori ad orario ridotto e lavoratori che, invece, sono indispensabili al processo produttivo e non solo lavorano a tempo pieno ma spesso sono chiamati a sopperire alle punte di produzione con lo straordinario.
  • Il calo del lavoro in generale, la minore necessità di ore lavorate generali, porta al riacutizzarsi del fenomeno della disoccupazione di massa.

Stiamo navigando verso una realtà sociale che è sempre più contrassegnata da differenze di reddito inaudite fra lavoratori, e sopratutto fra percettori di rendite e salari medi. Inoltre, appare non accettabile una struttura collettiva organizzata su una massa sempre più ampia di disoccupati perennemente assistiti da una forma di ‘salario sociale’, e un manipolo relativamente ridotto di lavoratori bene inseriti nel sistema produttivo ma su cui regge il peso della produzione dei settori economici più innovativi e trainanti tutta ‘la città del lavoro’, per dirla con una famosa espressione di un libro di Bruno Trentin.

Traggo da un importante articolo di Luigi Marengo, pubblicato sulla rivista della CGIL ‘Quaderni di rassegna sindacale’, numero tre del 2018, il dato che il risparmio di ore lavorate provocato dalla rivoluzione digitale e della automazione non sarà facilmente riassorbito da un aumento di occupazione in nuovi lavori creati dal nuovo assetto produttivo. Marengo, nell’articolo sopra citato, che ha come titolo ‘ Questa volta è diverso? Automazione e lavoro nella quarta rivoluzione industriale’, ci dice per quale cause questa volta, di fronte alle nuove tecniche produttive che risparmiano lavoratori, non vi sarà un recupero di impieghi in altri settori, magari particolarmente innovativi. I motivi per cui Marengo propende per l’individuazione di un futuro in cui la disoccupazione di massa sarà strutturale sono sostanzialmente questi:

  • La maggiore difficoltà di riconvertire lavoratori abituati a fasi produttive predigitali al passaggio a nuovi impieghi che richiedono conoscenze non facilmente trasferibili rendendo così estremamente difficile e di non breve periodo la ricollocazione di masse sempre più vaste di impiegati e operai.
  • La straordinaria capacità del sistema produttivo basato sull’informatica ad aumentare la produttività senza aumentare i costi variabili; in sostanza per raddoppiare la produzione in aziende di servizi informatici non è necessario aumentare il personale
  • Tutti i lavori impiegatizi entrano in crisi, si pensi solo ai servizi bancari ma anche alla logistica, dove la sostituzione di persone umane con PC è ormai alla portata di mano, e inoltre, nei settori dei servizi, ormai conquistati ad un pieno processo di ‘industrializzazione a produzione seriale’, si collocano evidenti tendenze a concentrazioni in agglomerati societari sempre più grandi e capaci, dunque, di enormi risparmi di occupazione umana.
  • Infine, in una società determinata da tassi di disoccupazione particolarmente alti e strutturali, può logicamente determinarsi una crisi della domanda dei consumi, impedendo così, la possibilità che la espansione economica riassorba parte della disoccupazione

Date queste precondizioni Marengo termina il suo articolo con la proposta di politiche pubbliche atte ad impedire fratture nel mondo del lavoro e sociali che determinerebbero gravissime instabilità politiche delle nostre democrazie. In sostanza, l’autore dell’articolo individua tre settori fondamentali di intervento:

  • La necessità di una importante riduzione dell’orario di lavoro, che richiede inoltre, un controllo dei lavoratori dell’uso capitalistico delle macchine, ovvero, di un ritorno della contrattazione sulla organizzazione e i tempi di lavoro.
  • La necessità di una grande riforma della scuola, che non solo sia in grado di formare i nuovi lavoratori adatti ai processi di automazione, ma che sia permanente, ovvero per tutta la vita, e non solo a tempo pieno, in maniera da preparare i lavoratori alle modificazioni continue del sistema produttivo ( si pensi, su questo, al Magri della ‘Madre di tutte le riforme; la scuola’, articolo apparso sulla seconda ‘Rivista del Manifesto’, 99’ – 2004).
  • La necessità di intervenire nella economia, da parte del settore pubblico, per impedire monopoli nelle produzioni digitali che strutturalmente non hanno aumento dei costi marginali, ( tutti i grandi servizi digitalizzati).

Quante volte in questi anni abbiamo sentito, da tante voci autorevoli, che il lavoro, come istituzione sociale necessaria alla produzione, sarebbe diventato marginale fino a scomparire quasi del tutto. Tuttavia, la crisi economica, aggravata dalle restrizioni dovute alla pandemia da Corona Virus, ha fatto in poco tempo scoprire come la forza del lavoro di migliaia di uomini, ( si pensi alle raccolte dei prodotti agricoli a cui sono utili gli immigrati; si pensi al lavoro indispensabile di medici, infermieri e personale OSS), è un basamento su cui non solo continua a fondarsi la possibilità di produrre, anche di fronte alle nuove tecnologie digitali di cui sopra, ma è inoltre la possibilità di estrarre valore su cui poggia l’intero costrutto ideale e sociale del capitalismo. Senza lavoratori e senza consumatori la società semplicemente, per come è strutturata oggi, va incontro ad un declino tumultuoso e drammatico in maniera irreversibile.

Allora, in questo Primo Maggio, non solo ci dobbiamo chiedere quale futuro avrà il lavoro, il sindacato e quali compiti dovranno assolvere e quali obiettivi si dovranno dare, ma dovremo sollecitare i partiti, che ancora oggi amano definirsi di sinistra e definire che cosa è sinistra.

Esiste una sinistra politica senza che abbia coscienza di che cosa sia il lavoro nella società di oggi, e di quale influenza abbia un lavoro umiliato sul procedere storico della democrazia? Si può essere sinistra senza lavoratori e senza le loro ragioni? Si può essere sinistra se si è insensibili alla devastazione sociale portata da fenomeni di disoccupazione di massa?

I congressi che si annunciavano prima dell’esplodere della malattia, in varie forze politiche democratiche, tra cui il PD, avrebbero certamente una maggiore pienezza e significato se sapessero dare risposta alle domande qui poste.

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Alessandria 30-04-20                               Filippo Orlando.

[1]‘Memorie di classe’ ( 1987 Torino), è una espressione tratta dal titolo, tradotto in italiano, di un volume che analizza la prospettiva storica del concetto di classe, di Zygmunt Bauman, quando Bauman era ancora marxista.

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