Se i mercati bocciano Trump

È trascorsa un’altra settimana, e Wall Street continua ad andare giù. Contrariamente alle aspettative pre-elettorali di osservatori ed elettori. E, in primis, di Donald Trump, che dei mercati sostiene di esser uno dei massimi esperti, anche per propri palesi interessi personali in materia. Le spiegazioni sono le più diverse. Gli indici erano al limite della bolla speculativa, e una correzione – tecnicamente – era plausibile. Ma in molti si stanno chiedendo come mai sia stata così brusca, e abbia coinciso proprio con l’ingresso di Trump alla Casa Bianca.

Anche perché alla discesa degli indici americani ha corrisposto la risalita di quelli europei, e con una inversione di rotta dei rendimenti dei bond giapponesi – considerati un importantissimo termometro dei sommovimenti finanziari globali – il cui aumento ha determinato una stretta nella liquidità disponibile. La concomitanza di spostamenti così rilevanti ha ulteriormente aggravato la percezione della gravità della situazione. John Authers, nella consueta Newsletter su Bloomberg, ha segnalato come sia cambiato l’outlook di David Kostin – uno dei più influenti analisti di Wall Street – sulle possibilità che la borsa americana possa raggiungere per fine anno gli obiettivi che fino a poco fa molti davano per scontati. E ha suonato l’allarme per un probabile ulteriore peggioramento. Se ciò accadesse, come reagirebbe Trump?

Per il momento, il presidente dà mostra di non essere preoccupato, e continua sulla solita linea: la correzione degli indici è colpa degli errori precedenti dell’amministrazione Biden. Qualche osservatore si è perfino avventurato a dire che a Trump non importerebbe molto, visto che chi investe in borsa non fa parte di quella maggioranza di bianchi disagiati – colletti blu e disoccupati del Sud – che rappresentano buona parte della sua base popolare. Ma è un parere molto opinabile, visto che l’andamento di Wall Street si riverbera inevitabilmente – e pesantemente – anche su quello dell’economia, nella quale sono sempre i più poveri a rimetterci soldi e lavoro. Un’altra attenuante sarebbe che siamo ancora molto lontani dalla prossima scadenza elettorale, nel novembre dell’anno prossimo. E a Trump potrebbe addirittura fare comodo una flessione oggi per potere approfittare di un rimbalzo nei mesi cruciali che precedono il rinnovo parziale del Congresso, con il rischio di un ribaltone.

Ma al di là – e al di sotto – delle varie interpretazioni, l’umore dell’opinione pubblica sta cambiando. La reazione prevalente è che lo sconquasso in borsa rifletta soprattutto le decisioni schizofreniche di Trump sulle tariffe, con uno stop and go che è il contrario di ciò che vogliono i mercati: stabilità e prevedibilità. Un’altalena cui si sono aggiunti gli executive order a raffica con cui la Casa Bianca sta destabilizzando il proprio stesso apparato amministrativo. Licenziamenti in massa di dubbia costituzionalità cui si oppongono i tribunali federali, liti continue tra i ministri e Elon Musk per le sue incursioni nelle stanze dei vari dipartimenti, e un ribaltamento secolare delle alleanze internazionali, con la rottura con Canada e Europa nel bel mezzo di un flirt con la Russia. Lasciando l’establishment mondiale tra il preoccupato e l’esterrefatto.

E in bilico tra due ipotesi. La prima è che si tratti di una vera e propria rivoluzione. Condotta – almeno per il momento – senza spargimento di sangue, ma con cambiamenti nel sistema degli equilibri internazionali che non si erano registrati nemmeno in occasione delle due guerre mondiali. Le stesse grandi rivoluzioni comuniste, sia quella russa che quella cinese, avevano riguardato prevalentemente la redistribuzione del potere all’interno dei confini nazionali. La rivoluzione di Trump sta, invece, costringendo i paesi più influenti sullo scacchiere mondiale a ripensare le proprie strategie economiche e militari all’interno di uno scenario multipolare in cui non si riesce a valutare la collocazione dell’America.

L’ipotesi, però, della portata rivoluzionaria degli interventi di Donald Trump trova un limite – almeno al momento – nella sua durata temporale. Ora che Trump si sta comportando come un sovrano assoluto, quanto a lungo gli verrà dietro il suo partito che compatto lo ha sostenuto durante la campagna elettorale? E quanta parte dei suoi interventi riflette una strategia consapevole, e non è invece anche frutto di un erratico e impulsivo temperamento?

Mai in un regime democratico erano circolate – sempre più insistenti – domande di simile portata, la cui risposta dipendesse dalle decisioni di un solo uomo. Una ragione di più per avere paura. O per invitare alla calma.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 17 marzo 2025)

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