Ho trovato l’articolo di Rinaldi un’eccellente analisi del contesto sociale e culturale che ha reso possibile la vittoria elettorale di Trump negli USA: una vittoria che certo conferma il trend di avanzata delle destre populiste in tanti Paesi già a costituzione liberal-democratica. Il pezzo forte e illuminante di quest’analisi verte sulla rilevazione della frammentazione dell’elettorato in varie correnti e gruppi, segnatamente in sorte di “bolle” autoreferenziali, alimentate da circoli chiusi creatisi anche grazie alle possibilità offerte da internet e dai social. Questa frammentazione in gruppi affatto eterogenei quanto a composizione e a finalità ha segnato il tramonto (ormai da tempo invero) dei tradizionali blocchi elettorali costituitisi sulla base delle condizioni socio-economiche (esemplarmente proletari che oggi votano a destra), senza che però si costituissero nuovi omogenei blocchi. Rilevato questo odierno assetto sociale e culturale del mondo nordamericano – la cui descrizione mi pare affatto plausibile – Rinaldi fa un impegnativo passo ulteriore: quello di imputare ad esso la causa determinante, ancorché non esclusiva, della vittoria di Trump negli USA, piuttosto che imputarla, come vari analisti politici, agli errori dei democratici, alla crisi economica della middle class, ecc. Se davvero quella sia stata la causa determinante o comunque principale, occorrerebbe a mio avviso poter ponderarne il “peso” rispetto ai molteplici fattori in gioco. Resta comunque quanto meno uno sfondo inedito da cui non si può prescindere.
Le tante correnti protestatarie avrebbero dunque trovato un coagulo – pur contraddittorio al suo interno, osserva giustamente Rinaldi – grazie all’abile assemblaggio fattone dal populismo in stile trumpiano. Il populismo rappresenterebbe dunque un facile contenitore di quelle variegate istanze protestatarie. Ma, avverte ad un tempo Rinaldi, vi sono anche casi di populismo di sinistra (es. il M5S in Italia, e aggiungerei la sinistra rossobruna della Sara Wagenknecht in Germania). Allora viene da chiedersi, come sembra suggerire Rinaldi nella parte finale del suo contributo: visto che quanto meno le “tecniche” populiste – di cui a suo tempo si era fatto teorico Steve Bannon, l’ideologo del primo Trump – sono relativamente neutre rispetto al colore politico, perché non potrebbero essere utilizzate anche a fini “buoni”, cioè a vantaggio della sinistra? Discorso pericoloso se con ciò volessimo opporre un populismo di sinistra a uno di destra, e giustamente Rinaldi si tira indietro all’idea (però, detto per inciso, non vedo nulla di male finché si usano le sofisticate tecniche di profilazione dei soggetti, tramite la frequentazione dei siti internet e dei social, come strumenti per raggiungere più agevolmente certi segmenti dell’elettorato; e del resto l’elettore non è solo il razionale citoyen auspicato da Rinaldi).
Allora, se un populismo di sinistra (vedi i casi sciaguratamente andati al governo in America Latina) non è la “ricetta” per vincere su quello di destra, quale via resta, ci chiediamo con Rinaldi? Ma prima occorre fare un passo indietro e tornare all’analisi di Rinaldi, per il quale le descritte caratteristiche sociali e culturali della popolazione nordamericana di oggi segnalerebbero un più radicale mutamento di carattere “antropologico”: la sinistra (a differenza della destra) non lo avrebbe colto e quindi le sue analisi sarebbero obsolete e le proposte solutive inevitabilmente inefficaci (ed è severa critica che Rinaldi traspone dai democratici USA alle proposte politiche del nostrano PD). Grossa parola quell’“«antropologico”, che fa pensare a una modifica nella struttura psico-sociale essenziale dell’essere umano e non a semplici mutamenti sociali che certo condizionano i singoli individui ma restando sostanzialmente “esterni” all’individuo e dunque transeunti rispetto alla sua natura “antropologica”. Certo Rinaldi dovrebbe precisare la sua nozione di mutamento antropologico; ma se “antropologico” vale nel significato da me testé accennato, c’è poco da sperare in un’evoluzione in senso democratico della popolazione e sarebbe possibile solo un astuto utilizzo da parte delle dirigenze di sinistra – sulla falsariga di quelle di destra – dell’attuale, mutato assetto antropologico. Ma è proprio ciò che si vorrebbe evitare.
Personalmente più che di mutamento antropologico parlerei di importanti mutamenti psico-sociologici. Dei quali certo – per quanto riguarda la dimensione psicologica – abbiamo evidenze portateci da numerose ricerche empiriche, in parte ricordate dallo stesso Rinaldi: attestano come, in virtù della nota plasticità sinaptico-neuronale del cervello specie in età giovanile, l’uso protratto dello smartphone e l’assidua frequentazione di siti internet e dei social comportino peculiari variazioni in importanti funzioni cognitive e affettive (dalle modalità e durata dell’attenzione, ai tempi di risposta e dunque di elaborazione dello stimolo, alla percezione della realtà stessa – sia per via dell’insistenza sulle realtà virtuali sia per la straordinaria contrazione delle distanze spaziali e temporali – , ecc; e, sul piano affettivo, la creazione di nuove tipologie di rapporti intersoggettivi dominati dalla presenza virtuale e immaginaria piuttosto che reale dell’altro, del partner). Se si vuole, siamo liberi di chiamare antropologici questi accertati mutamenti della psichicità, ma in ogni caso è da vedere se e come si correlino con le “bolle” e altri aspetti della frammentazione sociale ed elettorale della popolazione americana e nostrana ben documentati da Rinaldi.
In sostanza, alla domanda su come vincere il populismo di destra una volta andato al governo, nel breve e medio periodo non trascurerei – prima di puntare su interventi educativi, importanti sì ma inevitabilmente di lungo periodo – di far leva sulle contraddizioni in cui prima o poi si imbattono quei governi populisti (data anche l’eterogenea composizione del loro elettorato con le illusorie aspettative di soluzioni rapide e definitive dei rispettivi bisogni): occorre denunciarle ed enfatizzarle. Almeno finché tali governi non soffochino stampa e “libere” elezioni, è sempre possibile in linea di principio vincerli democraticamente: così è successo al primo Trump (caduto soprattutto per le fesserie nella lotta al Covid), a Berlusconi nel 2011 (caduto per le facilonerie finanziarie), al governo dei Kaczynski in Polonia di recente, e un po’ prima a Bolsonaro in Brasile (ciascuno per ragioni varie).
Da ultimo proporrei all’amico Rinaldi una questione complementare rispetto alla questione che qui primariamente pone sulle ragioni della crisi della democrazia (come sia possibile – scrive – che «le democrazie, invece di progredire e di maturare emendando i propri difetti, tendano oggi a scadere in circoli viziosi che danneggiano e indeboliscono sempre più le democrazie stesse»). Si tratta della questione di come e a quali condizioni la democrazia in senso occidentale abbia potuto affermarsi e, di contro, quali oscillazioni e peripezie abbia incontrato nell’Occidente stesso nel corso dell’800 e del ‘900. Soffermandocisi solo o prioritariamente sul come siano possibili, anziché progressi e maturazioni della democrazia, involuzioni «anti istituzionali e anti democrati[che]», si può dare l’impressione di un ingenuo stupore a fronte della violazione di qualcosa, la maturazione democratica, che dovrebbe essere logico, “naturale”. Capire altresì a quali condizioni si è affermata bene o male la democrazia nel corso dei secoli scorsi e per altro in pochi “eletti” paesi. e pure le tante difficoltà e contraddizioni attraverso cui è passata, ci farebbe sorprendere sì, ma non troppo, a fronte di quanto sta accadendo al giorno d’oggi: un’inusitata variazione della ricorrente crisi della democrazia. Occorre andare allora alle “radici” delle sue condizioni di possibilità.
Al proposito, sempre in ordine alle condizioni dell’affermarsi della democrazia in senso occidentale – data la sua matrice illuminista e in senso lato razionalista – è da chiedersi di quali dimensioni psicologiche-affettive di lungo e breve periodo non tengono conto i teorici della democrazia, che la studiano prevalentemente sotto il profilo giuridico e sociologico. In altri termini, sarebbe da chiedersi sotto quali condizioni psicologiche e affettive può effettivamente radicarsi il senso democratico nel citoyen invocato dallo stesso Rinaldi. Quali dimensioni “pulsionali” debbono essere tenute a bada, e quanto può la ragione contrastare o meglio metabolizzare quelle pulsioni arcaiche che portano – piuttosto che all’ossequio a una legge “impersonale” e uguale per tutti, piuttosto che alla tolleranza e anzi all’invocazione del costruttivo contraddittorio – all’identificazione col capo forte, indiscusso, deciso, “virile”, che fa sentire i seguaci (illusoriamente) orgogliosi, e inoltre sicuri in quanto lui è capace di risolvere tutti i problemi?
Mauro Fornaro (25/11/2024)
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