Il 21 ottobre ultimo scorso, alle 17,30, presso la Camera del Lavoro di Alessandria, la Fondazione Longo ha organizzato un confronto, che mi è parso molto interessante, sul tema: Il principio di uguaglianza per la sinistra in Europa oggi. L’ha coordinato la nostra amica Margherita Bassini. I relatori erano: Stefano Petrucciani, Donald Sassoon e Aldo Tortorella. Purtroppo il tempo per discutere dalla sala, con tre relatori e a quell’ora, era poco, tanto che il solo breve intervento è stato quello di Giorgio Barberis (professore dell’Università Piemonte Orientale), che ha avuto il merito di porre a Tortorella la domanda vera, sulle ragioni per cui una forte e motivata sinistra legata al mondo del lavoro, che una volta c’era, a un certo punto non c’è stata più: il che ha poi consentito a Tortorella di approfondire temi decisivi.
A me sono venute in mente tante cose che non mi paiono peregrine e che provo a sintetizzare. Ma prima voglio dire che l’iniziativa della Fondazione Longo è stata veramente meritoria. Tutti e tre i relatori sono gente di prim’ordine. Stefano Petrucciani è un professore ordinario di Filosofia politica della Sapienza di Roma, che ha tra l’altro pubblicato opere proprio su Marx (Karl Marx. Filosofo, politico, economista, Carocci, 2018), ma anche, per la Laterza, su Habermas (Introduzione a Habermas, 2000). Sassoon è uno storico di fama internazionale, autore anche di libri su Gramsci e su Togliatti, tra i quali possiamo ricordare: Come nasce un dittatore. Le cause del trionfo di Mussolini (Rizzoli, 2010); Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa del XX secolo (Editori Riuniti, 1998); Quo vadis Europa? (Castelvecchi, 2014) e, in questi giorni, Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi (Garzanti, 2019): lavoro che gli è appena valso il Premio Acqui Storia. Quanto a Tortorella, sarei tentato di dire solo che è Tortorella. Ma siccome ormai molti hanno la memoria corta dirò soltanto che è, oltre che l’attivo direttore del bimensile “Critica marxista”, un protagonista della storia del comunismo italiano dai tempi di Togliatti, ed è stato il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer, specie nei suoi ultimi anni. É una figura certo dello stesso livello di Napolitano, ma su un versante “più di sinistra”. Tortorella, con i suoi novantatre anni compiuti (classe 1926) sembrava il più giovane e convincente tra i relatori.
Gli altri due forse sono stati un poco penalizzati dal “generale orologio”, ma io, che da oltre cinquant’anni zappetto gli stessi orti, qualcosa ho colto. Petrucciani, da buon studioso di Marx, ha fatto una distinzione che dubito sia stata intesa da più di tre o quattro persone tra i numerosi presenti. Ha spiegato che Marx non è stato un filosofo dell’uguaglianza. Questa sarebbe venuta dall’assolutista Hobbes, che vedeva lo stesso bisogno naturale di vivere e soprattutto sopravvivere come diritto naturale che tutti avrebbero, e che lo Stato moderno, imponendo la legge a tutti e per tutti, deve garantire (anche se per Hobbes, verso il 1650, era lo Stato assoluto). Poi l’istanza di uguaglianza si estende e precisa prima nella rivoluzione parlamentare inglese del 1689 e nel coevo pensiero di Locke e poi, soprattutto, dalla Rivoluzione francese in poi (lì soprattutto come uguaglianza giuridica tra i citoyens di fronte alla legge, da cui però dilaga in ambiti diversi); poi si affina nel liberalismo, nella democrazia e nel liberalsocialismo.
Marx incarnerebbe un’altra linea. Egli comincia il proprio iter proprio smascherando non solo la “falsa” uguaglianza”, ma la falsità dell’uguaglianza, in specie nel saggio La questione ebraica (1844, in: Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, 1965), in cui fa una critica dettagliata dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Conferma l’approccio sempre, sino alla Critica del programma di Gotha del 1875, più volte evocato anche nel dibattito, non sempre chiaramente e “a proposito”. Infatti non è emerso il succo (né sul 1844 né sul 1875 richiamati), un succo che compendierei in breve così: 1) l’uguaglianza, come pure la fratellanza (che io porrei oggi subito dopo la libertà) o egoismo o altruismo, per Marx erano astrazioni, utilizzate o rifiutate dalle forze umane produttive in campo, borghesi o proletarie, che ne fanno un uso diverso in contesti diversi, in base ai loro bisogni e interessi collettivi rispettivi; 2) la partita sociale fondamentale si gioca nella “società civile”, nel mondo economico e sociale in cui si produce e quindi vive, alias nella struttura o economia, mentre le istituzioni politiche, governo compreso, rispetto a tale campo hanno un ruolo appena sussidiario, sebbene necessario; 3) perciò in materia di forma del governo s’impone un forte relativismo, che potrà indurre a caldeggiare un assetto pressoché di autogoverno libertario in certi contesti (Francia della Comune del 1871, in specie), oppure parlamentare o anche dittatoriale rivoluzionario (1848/49), oppure aperto al parlamentarismo (come in Inghilterra o dagli anni Ottanta del XIX secolo).
Tale impostazione, come ha compreso Petrucciani, non è priva di aporie, o contraddizioni, perché invece abbiamo ormai imparato, dalla storia, che le istanze di uguaglianza e libertà sono complementari, a livelli crescenti, come nel liberalismo, nella democrazia e nel liberalsocialismo. Su ciò ha detto cose interessanti pure Sassoon, segnalando la necessità di comporre tra loro svariati diritti, ben al di là dell’appello ad una generica uguaglianza. Sassoon mi è parso legato oggi – oltre che ad una tematica accentuante la pluralità e la necessità di composizione tra diritti – ad una visione che accentua il carattere determinante delle scelte politiche dei leader, come l’autogoal del referendum conservatore sulla Brexit, che ha innescato la crisi attuale del parlamentarismo inglese (la “più grave dal 1945”), o il modo molto accidentale in cui il laburista Corbyn si è affermato come leader.
Tortorella è stato, nel dibattito, il più profondo e persuasivo (forse anche perché gli era stato in anticipo riservato il ruolo principale). I punti chiave ricavabili dal suo discorso mi sono parsi due. Uno concerne la centralità necessaria del legame tra il vissuto delle masse popolari e la pratica politica, specie della sinistra; l’altro, il rapporto stretto che una politica riformatrice deve sempre garantire tra cultura e politica. Mi pare che per lui le due stelle polari di una sinistra al passo con i tempi siano queste.
Primo punto. Forse la necessità di mantenere un legame forte con il popolo che dà, o non dà, esplicitamente o implicitamente, il mandato alle forze politiche, sussiste meno per la destra o il centro moderato, che rappresentano gente che non contesta le disuguaglianze “reali”, e spesso le apprezza; ma a sinistra, se si perde il credito spontaneo delle grandi masse, che vivono il disagio sociale, si deperisce, ci si snatura e si fallisce più o meno inesorabilmente. Anche oggi – ha spiegato Tortorella – la sinistra ha fatto e fa bene a sostenere il governo Conte bis in alleanza col M5S, ma se insieme non fa in modo o non riesce a recuperare un legame profondo con il mondo dei lavoratori, la destra populista è destinata o può di nuovo, e con forza, prevalere. Anche perché il mandato delle classi lavoratrici non è per sempre, come la storia insegna: se il popolo lavoratore non si sente rappresentato dalla sinistra volge le vele alla destra populista, in Italia oggi rappresentata soprattutto dalla Lega di Salvini. (In certo modo non defluisce nell’area prossima, ma opposta, specie in epoche di crisi).
Secondo punto. La matrice della sconfitta della sinistra è culturale, anche se indotta da ragioni economico sociali complesse, non certo liquidabili con facili slogan. La sconfitta è anche culturale perché il 1989-1991, col crollo del comunismo di stato, ha messo in crisi tutto il mondo sociale già socialcomunista, con la sua narrazione, organizzazione e insediamento sociale. Sulla crisi si sono poi innestati gli effetti della globalizzazione economica e di una nuova rivoluzione tecnologica, che riducono gli spazi del keynesismo e dello Stato sociale, provocando disoccupazione e perdita di valore della forza lavoro. Che fare allora?
Dal più al meno le indicazioni emergenti dal discorso di Tortorella mi sono parse tre: 1) ritrovare un legame forte con il mondo dei lavoratori, sentendosi e facendosi sentire come parte sua, senza di che la sinistra si snatura e perde sempre più forza e si fa surrogare dalla forma storica del populismo di destra, che dal 1922 al 1945 è stato incarnata dai fascismi e ora, qui, dalla Lega; 2) lavorare, contemporaneamente, per ritrovare una narrazione ideale politica che sia al tempo stesso realistica e finalistica, pragmatica e di liberazione umana; 3) operare per unire la sinistra.
Concordo con tali istanze. Sulla prima ho sempre in mente le pagine del Marx di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850, e a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1964), in cui, magari esagerando – come spesso faceva – se la prendeva – per spiegare la sconfitta della sinistra da parte della reazione e della destra neo-bonapartista montante del giugno 1848 e fine 1849 in Francia – con una sinistra fuori tempo massimo, che si era limitata ad aggiornare vecchie idee liberali e repubblicane risalenti alla Rivoluzione francese o poco oltre, invece di pensare in grande stile nell’ottica del presente-futuro. Non si può essere prigionieri del passato, neanche proprio, e vincere.
Purtroppo oggi – ne arguisco io – vale pure nei confronti di Marx e del marxismo (a meno che non sorga un nuovo marxismo al passo con i nuovi tempi, il che però mi pare improbabile). Se i rivoluzionari del 1848 si attardavano sui diritti dell’uomo del 1789 o su Rousseau o Robespierre, noi potremmo attardarci proprio su Marx o magari Berlinguer (o fossero pure Riccardo Lombardi o Giorgio Ruffolo, o altri similari), che sono tutti da ritrovare, ma per passare oltre. Mi pare che siamo in una sorta di terra di nessuno, in cui mancando grandi idee e movimenti riformatori vincono i reazionari e i moderati, che in un mondo senza principi sguazzano come pesci nel mare, incarnando, in un’epoca di crisi la tendenza al “ritorno del rimosso”, ossia a restaurare in forma nuova un passato “morto”, come i sovranismi e populismi d’oggi.
C’è però un punto molto importante in cui, pur con questo forte e vasto apprezzamento per il discorso di Tortorella, credo di pensarla diversamente da lui. Io credo che oltre alle ragioni macrostoriche ed economico sociali “oggettive” (enormi, sia chiaro), nel crollo della vecchia sinistra italiana – o nella sua mancata autoriforma per non crollare – abbiano molto inciso anche gli errori del PCI di Berlinguer, di cui Tortorella è stato strettissimo collaboratore. Su ciò vorrei essere intellettualmente sincero il più possibile, perché la questione è centrale.
Considero Enrico Berlinguer uno degli uomini moralmente più grandi che l’Italia abbia mai avuto: una “Grande Anima”, nel senso di Fichte, una persona che era normalmente dello stesso livello morale che possiamo trovare nelle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci (1926/1937, ma 1947, e a cura di P. Spriano, Einaudi, 2014): niente di più e niente di meno. Forse lo si può paragonare solo a Sandro Pertini, ma a mio parere la grandezza morale di Berlinguer era pure superiore. L’apparire e l’essere in Berlinguer erano infatti un tutt’uno. Il suo “oro” non era mai di “ottone”. Era un uomo totalmente per bene in un mondo politico italiano di cinici e furbetti, troppo spesso pronti a tutto e buoni a niente. Tuttavia non mi sono sentito, neanche quando ero un dirigente comunista, di vederlo come un grande uomo politico. Mentre invece ho sempre pensato che Togliatti – che pure – per dirla “popolarescamente” – in più casi come capo storico aveva dovuto o voluto essere un “figlio di buona donna” – fosse o fosse stato un grande uomo politico: con lo stesso ruolo, e forse mente e carattere – in tal caso per il comunismo italiano e occidentale – di un Cavour per l’unità d’Italia. Quel che aveva fatto Togliatti per trasformare una setta bolscevizzante come quella del 1926/1943 in un grande partito di massa di doppia natura, socialdemocratico-comunista (o se si preferisce socialdemocratico-stalinista), è senza uguali in Europa. E l’aver fatto credere, o costretto a credere, la generazione del mitra, ma anche degli operai rivoluzionari del nord Italia, che fare e difendere la Costituzione, e un partito di grandi masse e non certo primariamente dell’”avanguardia cosciente”, fosse “fare” o “preparare” la “rivoluzione socialista” in Italia, fu un capolavoro politico. Anche la proposta di vedere sin dal 1961 ogni area del comunismo mondiale come autonoma (policentrismo), oppure le parole del Memoriale di Yalta del 1964 su democrazia e socialismo scritte alla vigilia della morte, sono notevoli. Anche l’aver interpretato la teoria “gramsciana” dei “blocchi storici” mi era ed è molto piaciuto: mondo della sinistra, operaia e contadina sul piano sociale, alias comunista e socialista sul piano politico, come blocco storico riformatore, da una parte; e, dall’altra, mondo della destra (o centrodestra) borghese capitalista e della piccola borghesia regressiva, democristiano liberale e fascista. E, inoltre, coscienza del fatto che un blocco cresce disgregando l’altro (attraendo a sé una parte assimilabile), e che quindi quello “lavorista” e “di sinistra” deve saper attrarre a sé il ceto medio “produttivo” – di fatto e in politica la sinistra cattolica – “inserendolo” nell’alleanza primaria tra comunisti e socialisti, rappresentativi del mondo dei lavoratori dipendenti): il tutto accompagnato dalla coscienza che in base a ciò dovesse avvenire una continua lotta del proprio “blocco storico” su tre terreni da connettere di continuo: l’economico, il politico e il culturale. Era una logica che tatticamente poteva mirare ad alleanze sin troppo vaste e spregiudicate sul piano tattico (sino alla Democrazia Cristiana, da dividere e possibilmente spezzare, attraendone la sinistra, politica e sindacale), ma di alternativa di sinistra tra blocchi sociopolitici opposti sul piano strategico e storico. E con una forte coscienza che comunisti e socialisti appartenessero allo stesso tronco, alla stessa matrice, pur essendo rami diversi. Su ciò posso pure proporre una piccola testimonianza. Nel 1974 facevo parte della segreteria di federazione alessandrina del PCI e organizzai un convegno, un seminario di studi, a Valtournanche, su Togliatti, introdotto da me e concluso da Ernesto Ragionieri, che fu il vero protagonista. Nei “pour parler” chiesi a Ragionieri che cosa pensasse Togliatti della possibile riunificazione socialista della sinistra. Ragionieri, che era il curatore e il massimo studioso (a mio parere ineguagliato come interprete del “pensiero politico”, con tutto l’apprezzamento per la biografia Togliatti del mio amico Aldo Agosti pubblicata da UTET nel 1995), mi rispose che Togliatti non solo riteneva giusto l’obiettivo di un partito unico tra comunisti e socialisti (necessariamente socialista e democratico), ma pensava che in futuro sarebbe stato inevitabile, non transigendo solo sulla questione del centralismo democratico.
Ma con Berlinguer in proposito qualcosa di decisivo cambiò, a mio parere in peggio. In ciò si sente che Berlinguer è stato l’uomo designato dal gauchiste Longo a essere il Vice unico sin dal 1968 (al posto di Napolitano). Il vecchio Longo, che, quando morì, Berlinguer commemorò dicendolo il “Garibaldi del nostro tempo”, sapeva che Belinguer era comunque un vero comunista, e Napolitano un “socialdemocratico europeo”. Berlinguer voleva conservare il PCI, modificandone in parte, anche per mantenerlo tale, la strategia. Voleva che nel PCI tutto cambiasse così da restare come prima (“comunista”). E, soprattutto, non accettava la metamorfosi socialista del PCI, puntando semmai a una “terza via” immaginaria (né leninista né socialdemocratica).
Preparò sì una prospettiva di governo, ampia quanto e più di quella sognata da Togliatti, ma a mio parere con due limiti fatali. Il primo concerneva il rapporto con l’URSS e il secondo il rapporto con il socialismo italiano ed anche europeo.
Sull’URSS e problemi annessi innovò certo più di ogni altro leader italiano, aderendo alla NATO nel 1974 e promuovendo lo “strappo” dall’URSS nel 1981. Ma troppo tardi e troppo timidamente. La linea della “solidarietà nazionale” – il monocolore democristiano sorto nel 1976 e presieduto da un tipino come Andreotti, sostenuto dall’astensione e poi assenso del PCI per tre anni circa, e fatto passare per anticamera della Grande Alleanza detta “compromesso storico” – defunse nel 1979; perciò rompere con l’URSS nel 1981 era chiudere la classica stalla dopo che i buoi erano scappati. Ma, soprattutto, l’atto fu troppo timido, legato alla frase per cui “l’URSS aveva perso la sua forza propulsiva”. Non fu mai detto, e credo neanche pensato, che in URSS e in Europa orientale non c’erano neanche le “basi” del socialismo, non solo perché la proprietà statale invece che privatistica di parte anche cospicua dei mezzi di produzione, è rilevante giuridicamente, ma irrilevante socialmente, ma anche e soprattutto perchè un assetto che resta autoritario e burocratico anche dopo cinquanta o sessant’anni non può essere post-capitalistico, né tantomeno socialista, in nessun modo. Sicuramente Berlinguer e compagni sapevano, ben prima del 1981, che la vera rottura con l’autoritarismo sovietico e con l’URSS sarebbe stata inevitabile, al cuore dell’Occidente o comunque del Mediterraneo, e anche idealmente. Ma si voleva farla senza “pagare il dazio”, ossia senza mettere in subbuglio la coscienza di decine o centinaia di migliaia di compagni, di vertice e di base, per i quali in URSS c’erano le basi (o anche di più) del socialismo, identificate appunto con lo statalismo (con piena dimenticanza del fatto che se lo Stato è dominato dai corpi separati, cioè da burocrazia polizia ed esercito di professione, anche “in nome” del proletariato o del “popolo”, non può essere visto come potere “del” proletariato o “del” popolo lavoratore, né in base al marxismo né in base al buon senso). Ma, soprattutto, se i cinesi per rompere con i sovietici e viceversa avevano dovuto trattare gli avversari da “rinnegati”, e così avevano fatto persino gli jugoslavi, era illusorio che gli italiani o altri europei potessero astenersene. Pietro Nenni quando aveva “iniziato” la lunga marcia dei socialisti verso la DC aveva cominciato restituendo il “premio Stalin”. La volontà di rompere con i sovietici senza rompere l’unità interna era illusoria, anche se totalmente comprensibile, perché comunque sarebbe stata un dramma collettivo 8però a mio parere, sin da allora, salutare, anche in termini democratico rivoluzionari). L’idea che Pajetta – come ben ricordo – potesse tornare, nel 1976 o giù di lì, dai congressi del Partito Comunista dell’Unione Sovietica parlando di quel che gli aveva detto “il compagno Breznev” e poi – in teoria – andare alla riunione della NATO era un’assurdità. Certe rotture vanno preparate con lunghe battaglie politiche e culturali, e sono produttive se fatte non già “quando si perde”, ma mentre si vince. C’era un legame di ferro tra legittimazione a governare e rottura con l’URSS, al quale i comunisti italiani volevano a ogni costo sottrarsi o rimandare il più possibile, anche per l’ovvio timore per l’unità del Partito e dei suoi simpatizzanti qualora quel mito fondativo fosse caduto troppo bruscamente. Così compirono l’atto di separazione dall’URSS proprio quando erano stati costretti ad andarsene all’opposizione e dopo che il grande tessitore di tutte le aperture a sinistra (purché omeopatiche), nella storia della Repubblica, Aldo Moro, era stato persino assassinato dalle Brigate Rosse.
Si potrebbe ritenere che il punto sull’URSS concerna il passato, e gli storici. Ed è vero, perché l’URSS non c’è più. Invece la questione – “un po’ connessa” – del rapporto con il socialismo democratico europeo ed italiano è stata ed è ancora dirompente. Secondo me anche oggi. Viene ancor oggi aggirata dai molti comunisti che ritengono, al di là dei nomi, di essere stati socialdemocratici “anche prima” (quando tra loro esser detti tali era un’offesa). Ma una socialdemocrazia in cui nel 99 per 100 dei casi si votava all’unanimità (“muovendosi tutti insieme”), e che considerava l’URSS e gli Stati ad essa legati come socialisti almeno nella mitica “struttura”, non è mai esistita nel mondo.
Il punto chiave da intendere, per me, è che i lunghi anni di chiacchere su una “terza via”, né leninista né socialdemocratica, consentirono di rimuovere il problema dell’unità socialista (cui era poi legata pure la possibile alternativa di sinistra, senza democristiani), e obnubilarono la necessità di riunificare tutta la sinistra sotto le bandiere del socialismo democratico europeo, anche di sinistra e verde. La corruzione di frazioni del “socialismo di governo” avrebbe dovuto essere motivo in più per rinnovare tutta la sinistra in una casa comune e con progetti di governo e ideali comuni. Al momento del crollo del muro di Berlino del 1989, invece di aprire un cantiere in positivo, per la riunificazione socialista della sinistra – che pure era un fine in base all’idea di blocco storico e l’idea di “comune matrice” più volte ribadita da Togliatti – si preferì la ricerca di una “cosa” tutta nuova, che lasciò andare in rovina il Partito Socialista Italiano, e “al deposito” il PCI (“due” disastri evitabili), aprendo un cantiere per edificare qualcosa sin lì mai vista. Si potrebbe pensare che il limite sia stato di Occhetto, l’ultimo segretario del PCI e il primo del Partito Democratico di Sinistra (e io lo pensai, troppo faziosamente, e lo scrissi), ma poi la cosa seguitò, sino alla fondazione del Partito Democratico al Lingotto di Torino, in cui si provò a fare una specie di partito del defunto compromesso storico, che unisse, e anzi fondesse, post-comunisti e post-democristiani, e dal più al meno tutti i riformisti. Io disapprovai. Ma poi la cosa durò e dura, e non è stato bene dividere il PD, andando ancora più “indietro”, come hanno fatto prima i fondatori dello sterile movimento Liberi e Uguali, e come ha fatto ora Renzi – che pure nell’insieme aveva ben governato questo Paese – fondando Italia Viva, con l’illusione o di ricreare una “vera” sinistra o un “vero” centro.
Ma – pur senza voler negare affatto quello che la storia ha combinato, ossia il PD – resta il fatto che la democrazia senza idea socialista, in Europa, a sinistra, è una casa senza fondamenta. Non siamo in America: qui senza il tessuto connettivo dell’idea socialista, rossa o rosso-verde, la sinistra balbetta. Non ha identità, autorevolezza, anima, miti fondativi, qualità, motivazioni degli attivisti e dirigenti che volino appena un po’ più alto della più banale gestione del quotidiano (in un’età di immani cambiamenti come la nostra). Il risultato lella perdita dell’identità sia socialcomunista che socialista – diciamo pure “socialista” – è stato una sorta di “fine della politica” (the end, buona notte signora Politica). In pratica la sinistra italiana – con tutto il suo storicismo e comunismo – ha abolito il passato. Un vago costituzionalismo ha sostituito sia la cultura socialista che quella cattolico democratica, giustapposte sin dall’inizio come i coniugi che a Torino dicono mal cubià (“male accoppiati”). E infatti ora si sono di nuovo separati, anche se divisi faranno meno “all’amore” di prima, rischiando anzi l’onanismo, finché “va”.
Così la sinistra italiana storicamente di gran lunga prevalente – venisse nei padri fondatori dal PCI o dalla DC – ha estremizzato i tratti da società “liquida”, in cui tutto si è fatto relativo, del mondo d’oggi (come nella triste teoria di Zygmunt Bauman espressa in La societò liquida, del 2000, e Laterza, 2004). I partiti hanno rinunciato a essere “parte”, sicché è rimasta in tavola una sorta di marmellata costituzionale, in cui possono riconoscersi più o meno tutti, realizzando i peggiori incubi di L’uomo a una dimensione (1964, e Einaudi, 1967) di Herbert Marcuse. Ormai è possibile – all’ombra di un vago e vacuo democraticismo che non fa male a nessuno – sostenere tutto e il contrario di tutto senza problemi: sul maggioritario e la proporzionale, sulle alleanze o la negazione delle alleanze, sul reddito di cittadinanza o quota cento, e così via (sino all’uso disinvolto del crocifisso o del rosario nei comizi, per ora solo di Salvini). Tanto è “lo stesso”: basta essere “al potere”. Il PD può aver fatto polemiche infuocate col M5S e poi scoprire che è quasi composto da “compagni”, con cui potrebbe e vorrebbe allearsi, se quelli “ci stessero” o quando “ci stiano”, anche nelle Regioni e Comuni; oppure aver votato tre volte contro la riduzione dei parlamentari e poi volerla. Il M5S può aver tuonato contro la casta e poi sistemarsi al governo e sottogoverno. Renzi può passare da eroe del bipolarismo e maggioritario spinto come nel 2016, al parlamentarismo e proporzionalismo puro, e la Lega di Salvini passare da un giorno all’altro dal parlamentarismo puro al presidenzialismo. Per me non sono solo esiti dell’era del pensiero liquido, ma della disfatta storica della sinistra e della decadenza dell’Italia.
Si può uscirne?
É difficile, ma si può “ripartire”. É difficile per ragioni chiarite sia da Sassoon che da Tortorella. Il carattere sovranazionale dell’economia ha dato un colpo al cuore al Welfare State e al keynesismo. E la rivoluzione tecnologica informatica ha fatto e fa il resto, creando disoccupazione e facendo decrescere il valore della forza lavoro. Tutte le soluzioni del passato sono in crisi. Ma per ricostruire bisogna avere una cultura al passo con i problemi dei tempi. Questa, come ogni cultura politica epocale, da un lato ha da essere pragmatica e dall’altro ideale (finalistica, e per me post-materialistica). Inoltre deve avere profonde radici, per quanto nella “nostra pianta” possano esser tagliati i rami secchi e fatti innesti. Per ragioni legate alla spinta regressiva contro il nuovo che avanza, da cui la gente si deve difendere quando il nuovo attacca le basi stesse del “ben essere”, questo “rinnovamento” pare riuscire meglio a destra, dove il populismo, da noi con Salvini, in qualche modo ha innovato rispetto ai fascismi, sulla radice nazionalista carismatica e sovranista di sempre. Invece la nostra sinistra, anche per la pretesa di “saltare” l’idea socialista invece che “rinnovarla” (anche a causa di un antisocialismo antico), è in crisi profondissima, più o meno come Il cavaliere inesistente (1959, Einaudi) di Italo Calvino, Gurdulù, che si identificava con tutto, per cui di fronte a un secchio di latte mise la testa dentro credendo di esserlo. Invece ha un futuro chi ha pura un passato (“veniamo da lontano e andiamo lontano”, diceva Togliatti). Con i twitter, ma anche con la “navigazione a vista”, come se passato e futuro non fossero importanti, si può fare la piccola cronaca, ma mai la storia. Ritrovare il filo del tempo, connettendo passato presente e futuro, è sempre decisivo, nella vita personale come nella storia (pure della sinistra). Si debbono sempre trovare – in tal caso come sinistra che voglia rinascere – cose, fatti, movimenti, idee, programmi, speranze, sogni, sacrifici, tentativi, fallimenti, comunità, passioni, capi storici, libri e ancora libri importantissimi, e che a tanti di noi hanno riempito testa e cuore dando un senso alla vita. Al tempo stesso vanno superati, ma prima vanno capiti e interiorizzati. Per i più queste cose sembra che non siano mai esistite. Invece di combinare il rosso sociale col verde ecologista, si è posto tutto in liquidazione. Così siamo precipitati non solo nella disfatta della sinistra, ma in una decadenza della stessa democrazia italiana. Per uscirne bisogna innovare molto, in idee e programmi, ma a partire dalle radici.
L’ho già fatta troppo lunga, ma vorrei almeno richiamare ancora due istanze.
La prima istanza è che ci vogliono programmi concreti che garantiscano: governi di legislatura; buon bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato; impegno fortissimo per unire l’Europa in un solo “Stato di Stati” (federale), anche a piccoli passi, ma senza tornare indietro; lavori pubblici intensi, rapidi e trasparenti; forte legalità interna; processi brevi; investimenti e lavoro concreti; pulizia nelle strade ovunque, smaltendo la “monnezza” con mezzi di smaltimento adeguati; lotta alle droghe; lotta alle mafie; gestione plurinazionale delle migrazioni; conti dello Stato via via a posto; cogestione e cooperazione nell’economia.
La seconda istanza è proprio una cultura che dia identità ideale ai movimenti di liberazione: lavorista, ecologica e federativa, a partire dai mille rivoli dell’idea socialista, che in materia ha già moltissimo insegnato, sognato, teorizzato e praticato, e che si può superare, ma solo dopo averla ripresa, in avanti.
In mancanza di ciò la democrazia – ancora una volta a partire dall’Italia – può solo declinare di continuo, sino ad un abisso che ancora non vediamo, ma che incombe.
di Franco Livorsi
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