Noterelle veloci in merito alla riflessione di Filippo Orlando su democrazia e liberalismo

Ho letto con grande interesse le riflessioni di Filippo Orlando intorno al tema dei rapporti tra democrazia e liberalismo e vorrei, se possibile, aggiungere alcuni chiarimenti, in forma molto schematica, per non appesantire eccessivamente il discorso:

  • A me pare che nel suo saggio, così come nei suoi innumerevoli libri, Livorsi non abbia mai affermato di voler “consolidare il liberalismo”, men che meno intorno al principio della “sacralità della proprietà privata”, giacché la sua concezione è piuttosto quella di una nuova politica rosso-verde, che coniughi i principi dell’ecologismo con quelli di una evoluzione liberal-socialista dei sistemi politici
  • Mi pare anche di poter dire che l’aspetto nodale intorno a cui argomenta Livorsi nel suo saggio sia non già il valore del liberalismo, quanto piuttosto, ben diversamente, la realistica istanza di una governabilità del sistema-Paese, ch’egli ritiene l’unica garanzia, oggi, per una ripresa della democrazia, contro i rischi di democratura che lumeggiano a Oriente, in Paesi come la Russia o l’Ungheria e ch’egli rileva nel populismo salviniano
  • Per quanto io nutra una personale simpatia per Lenin, occorre riconoscere che non soltanto la rivoluzione bolscevica fu totalmente contraria alla democrazia liberale, intesa come borghese e meramente formale e vi contrappose la democrazia diretta e assembleare dei soviet, ma anche che, dapprima con il “Comunismo di guerra” e poi con l’imposizione di un partito unico, tutto può essere stata la Rivoluzione d’ottobre, tranne che il motore, o anche soltanto il facilitatore del suffragio universale di stampo liberale
  • Il “padre del liberalismo” è Locke e non certamente Hobbes, la cui concezione dello Stato è invece funzionale all’assolutismo e, oggi, alla dittatura totalitaria e che non a caso fu ripresa da Carl Schmitt, il giurista principale della Germania nazionalsocialista, giacché la concezione hobbesiana ipotizza il trasferimento di tutti i diritti naturali al corpo politico, all’interno di un potere statuale fagocitante, che si incarica di normare il numero più elevato possibile di comportamenti umani, senza la vigenza del diritto di resistenza, proprio in ragione dell’idea che dinanzi alla forza della violenza individuale soltanto un potere irresistibile può garantire la pace sociale e il diritto alla vita, l’unico che Hobbes riconosce
  • Tra liberalismo e democrazia rappresentativa non vi è distinzione storica e neppure distinzione teorica: la nascita del liberalismo coincide con la nascita della monarchia costituzionale in Gran Bretagna (con l’arrivo di Guglielmo d’Orange dopo la Glorious Revolution del 1688); la teoria liberale fonda il principio di diritti naturali dell’individuo, principi inalienabili, che, secondo Locke, discendono tutti dal diritto fondamentale, che è il diritto alla proprietà privata, giacché egli ritiene che la proprietà privata discenda non dal diritto di occupazione di res nullius (cose di nessuno, di cui posso impossessarmi), bensì dal diritto, come persona giuridica, di fare tutto ciò che si vuole dell’oggetto posseduto, in quanto esso è posseduto in virtù del principio di specificazione (l’oggetto è mio, non perché non era di alcuno e l’ho occupato, ma perché era un oggetto naturale e, mediante il mio lavoro e le mie doti, l’ho trasformato in un oggetto che ha valore di scambio come merce). Quindi l’individuo è portatore di diritti, in quanto possessore di proprietà privata, persona giuridica quindi; e poiché gli individui sono formalmente uguali dinanzi alla legge in quanto portatori di diritti inalienabili, tutti hanno il diritto di partecipare alla vita politica scegliendo i propri rappresentanti, all’interno di uno Stato “leggero”, che non deve interferire nella sfera privata del singolo, ma assume il mero ruolo di arbitro neutrale in caso di conflitto tra individui diversi
  • Hobbes, come prima di lui Machiavelli, sottolineava il ruolo di collante sociale della religione, intesa come quadro valoriale condiviso, su cui il potere sovrano può contare per mantenere la pace sociale; ma egli a tal punto sottolineava l’assolutezza del potere statuale da asserire che la religione è sottomessa allo Stato, per ragioni giuridiche: poiché quella religiosa è un’assemblea e per essere legittima un’assemblea deve essere indetta da un’autorità e l’unica autorità è quella del sovrano, ecco che la religione dipende dal sovrano e non viceversa (e in tal modo riuscì a giustificare il principio secondo cui il re inglese era ed è ancor oggi capo della Chiesa anglicana).

Perdoni Filippo Orlando queste noterelle, ma da vecchia insegnante di Filosofia e Storia mi è parso intrigante ricordare al volo questi elementi.

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