Con questo “Once e tarì fra Verga, Pirandello e Boccaccio”, verrebbe da dire, si ha il superamento di fatto della dicotomia “euro si’ – “euro no”… Tutto viene relativizzato all’epoca in cui le monete correnti hanno, per l’appunto “corso”. Un bel modo di vedere la nostra storia monetaria con un occhio di riguardo alla nostra migliore Letteratura (n.d.r.).
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Numerosi sono i romanzi in cui si citano le più disparate monete ma pochi fra i lettori vi si soffermano. Questo è normale, i più si preoccupano della vicenda e dei protagonisti nel loro complesso più che di certi particolari. Dovremmo però riflettere maggiormente su alcuni particolari e sulle situazioni socio- economiche che rappresentano.
Consideriamo ad esempio il romanzo di Verga, “Mastro don Gesualdo”, in cui si narra della sconfitta umana di un imprenditore di successo. Nell’opera sono presenti tanti passaggi in cui si parla di prezzi e monete: si pensi ad esempio all’asta per l’affitto delle terre del Comune. E’ un momento di vita della Sicilia borbonica dei primi venti anni del xix secolo, subito dopo la caduta di Napoleone. La gara diventa uno scontro di natura sociale fra mastro don Gesualdo, astro borghese, sorto quasi dal nulla, e i possidenti storici come il barone Zacco e il baronello Rubiera. Alla richiesta di controllare le credenziali finanziarie di Rubiera, don Gesualdo si sente rispondere che “la parola del barone Rubiera val più delle vostre doppie.” Ma mastro don Gesualdo non fa una piega, seduto “accanto al sacchetto di doppie”, e spinge l’offerta dalle convenienti tre onze e quindici tarì a salma a sei e quindici, sbaragliando gli avversari.
Il lettore comprende che si tratta di valori alti, ma, preso dalla girandola di onze, tarì, baiocchi e doppie, va oltre, senza porsi troppe domande e concentrandosi solo sulla vicenda. Ma cosa emerge dall’asta? Che la storia si svolge nel catanese, nel regno delle due Sicilie,fra il 1820 e il 1848, come si evince dalla citazione dei moti del 1820 e 1848 e del colera del1837.
Siamo nella Sicilia orientale, dove nobiltà antica e imprenditorialità borghese e poveri contadini, s e lavoratori di successo intrecciano le loro vicende. E’ una Sicilia diversa da quella dei fasci dei lavoratori e degli emigranti che prenderà piede dopo il 1880. E’ una regione gelosa della propria identità,che difende da tutti, Borboni, Savoia e,successivamente, Repubblica italiana. E’ una terra con usi e costumi propri e proprie monete, che continueranno ad essere citate dalla gente anche quando queste saranno le stesse della parte continentale del regno.
Dopo il 1816, nel regno di Napoli, con il ritorno dei Borboni, successivo al Congresso di Vienna(1814/15), viene abolita la riforma monetaria decimale introdotta da Murat e si ripristina l’antica monetazione .
Ci sono però delle novità, il ducato d’argento, unità base del sistema monetario, non vale più 120 grana ma 100, per rendere più agevole il computo nelle transazioni commerciali. Di fatto è il mantenimento del sistema decimale ma all’uso borbonico, in nome dei principi di legittimità , restaurazione e identità . E sempre in nome della propria identità, la Sicilia divideva il ducato non in grana ma in baiocchi. Cento grana divisi in dieci carlini a Napoli, cento baiocchi divisi in dieci tarì a Palermo. Il tarì appartiene alla storia dell’isola, nasce aureo, è erede della dominazione araba e diventa il simbolo dei Normanni. L’ etimologia è araba: significa fresco di conio, appena battuto, quindi moneta più che affidabile nel peso e nella lega. A noi, abituati a banconote, monete segno metalliche e soprattutto al denaro elettronico, appare strano sentir parlare di monete tosate: pezzi d’oro limati per lucrare sulla polvere d’oro che se ne ricavava.
Il tarì d’oro è definito da alcuni collezionisti “goccia d’oro”,per dimensioni e lega: generalmente è un pezzo aureo quasi puro il cui peso supera appena il grammo. I multipli si aggirano su 1,80/2,2 grammi, a volte superando questo peso, mentre le frazioni si aggirano sui 0,60 grammi. Esiste un’unità di conto, l’oncia da trenta tarì che in epoca sveva si concretizza con la circolazione di sacchetti sigillati contenenti tarì d’oro del peso complessivo di un’oncia. I sacchetti, muniti di sigillo regio, dovevano essere accettati senza indugio, ma guai a praticare la frode: il colpevole sarebbe andato incontro alla pena di morte. Il controllo di Federico II sull’oro e sulla circolazione monetaria in genere era ferreo, quasi dittatoriale, arrivò ad imporre la circolazione forzosa del denaro di mistura e di arrogare solo al re l’uso dell’oro.
Le successive dinastie(Angioini, Aragonesi, Spagnoli) introdussero nuove monete, come il carlino, ma il tarì rimase radicato negli usi della popolazione siciliana. Il baiocco appare più tardi, nel XIV secolo,l’etimo è incerto, forse di origine merovingia, il valore è di dodici denari, cioè un soldo. La moneta si diffuse soprattutto negli stati della Chiesa, passando dall’originario argento al rame. Nel XIX secolo fu l’unità base dello stato pontificio fino al 1865,quando venne introdotto il sistema decimale. Sul ducato non c’è molto da dire perché è stato detto tutto. La sua origine sta nel ducato d’oro di Venezia di fine XIII secolo, dal quale nasceranno gli omologhi che circoleranno in Europa fino ai primi del ‘900. un po’ come il fiorino di Firenze, ricordato ancor oggi dal forint ungherese.
Nei secoli successivi circolarono ducati(e tarì) d’argento. Ma se tutti conoscono il ducato, si può dire lo stesso per l’onza? Questo termine nella lingua siciliana indica l’oncia. Dell’oncia unità di conto abbiamo detto. La prima oncia d’oro,equivalente a sei ducati, fu coniata nel regno di Napoli e di Sicilia da Carlo III di Borbone nel 1742. Oltre all’oncia furono battuti l’oncetta(tre ducati) e i multipli da 15 e 30 ducati d’oro.
Nel XVIII secolo la circolazione monetaria è ancora essenzialmente metallica, anche se ci sono esperimenti(fallimentari) di circolazione cartacea(Law) e in Sicilia, in nome della propria identità e dell’oncia da trenta tarì, il termine oncia(onza) si riferisce non alla moneta da sei ducati ma a quella da tre. I pezzi da sei venivano chiamati doppie. A questo punto si comprendono certe espressioni del romanzo verghiano.
“Lei non paga un baiocco”,”Però un baiocco non lo tira fuori”, “Neanche un baiocco”: espressioni del genere indicano situazioni in cui le persone sono restie a pagare o non hanno la minima disponibilità finanziaria. “Non trovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l’immagine”; “con due baiocchi di carta rasata”. Nel primo caso si parla del costo di un’immaginetta sacra,due baiocchi appunto, tanto dà don Ferdinando Trao per acquistarla. Nel secondo, Ciolla risponde al baronello Rubiera, che credeva di conquistare le grazie di un’attrice spendendo appena i due baiocchi necessari per pagare una busta e foglietto eleganti su cui scrivere versi infuocati. Illuso! Ci voleva altro per una commediante perennemente affamata e alla ricerca di una sistemazione.
Don Gesualdo, al momento della partenza per Palermo, vorrebbe regalare al fedele mastro Nardo qualche baiocco, ma è sprovvisto di denaro…quale delusione per un uomo che ha mosso in un solo momento migliaia di onze: è la fine di un mito. Essere senza un baiocco o un tarì ha lo stesso significato, la differenza la fa la classe sociale: nobili e borghesi non possono girare senza due tarì in tasca, senza questi sono dei poveracci e basta. “Si lagnò di essere tenuto come uno schiavo,peggio di un ragazzo, senza due tarì da spendere”. Così risponde alla madre il baronello Rubiera quando è costretto ad ammettere che ha chiesto denaro in prestito a mastro don Gesualdo per soddisfare la propria passione per l’attrice Agle.
Quando però si parla di pezzi da dieci o dodici tarì d’argento allora si parla di monete che un poveraccio vede raramente nella propria esistenza. Quando mastro don Gesualdo si accaparra l’appalto del ponte versa la cauzione tutta in “pezzi da 12 tarì l’uno su l’altro.” Eppure da ragazzo quante volte era stato battuto dal padre,mastro Nunzio, a causa della morte per sfinimento di uno degli asini impiegati per il trasporto della calce. Come se il sovraccarico e la distanza dipendessero da lui. Ogni asino morto era una perdita di dieci o dodici tarì, un piccolo capitale. Così per ogni pratica funebre, medici, speziali e sacerdoti ricevevano un compenso di dodici tarì dallo stato.
Dodici tarì erano una grossa moneta d’argento di più di 27 grammi, molto simile allo scudo(cinque lire) del regno d’Italia, anche se di valore superiore(£ 5,10). il nome ufficiale era piastra ed equivaleva ad un ducato e due tarì, ma comunemente i sudditi del Borbone la chiamavano pezza. Questa era talmente prestigiosa che circolò nel sud Italia almeno fino al 1870. Se dodici tarì equivalevano a £ 5,10 del neonato regno d’Italia(1861) a quanto corrispondevano un tarì, un ducato e un’ onza? Il tarì era valutato £ 0,44, il ducato 4,40 , mentre l’oncia(o onza) corrispondeva a 13,20 lire.
Usi, costumi e modi di dire sono duri a morire. Mia madre mi raccontava che quando aveva cinque o sei anni, era del 1922, era così vivace che i nonni e gli anziani zii la chiamavano “tornesella”, piccolo tornese, perché si muoveva continuamente e ricordava una moneta da un tornese(mezzo grana) sempre in movimento da una tasca all’altra. Anche se i tornesi in Basilicata non circolavano ormai da almeno mezzo secolo ne era rimasto vivido il ricordo in certi modi di dire, come oggi ”non avere un soldo” o “essere senza una lira”. Lo stesso dicasi per l’onza. Nel 1906 Pirandello scrive “La giara”, appartenente alla raccolta ”Novelle per un anno”, in cui si narrano le vicissitudini di zi’ Dima Licasi, conciabrocche, in seguito alla riparazione di una grossa giara, di proprietà di don Lollò Zirafa, proprietario terriero sempre pronto alla lite giudiziaria; l’artigiano rimane intrappolato nel grosso vaso, per la cui riparazione vuole essere pagato. Zirafa, temendo l’accusa di sequestro di persona, è pronto a pagarlo ma vuole essere risarcito, perché, per liberarlo, deve rompere la giara.
Don Lollò paga il conciabrocche, che rifiuta ogni risarcimento, affermando di trovarsi benissimo nella giara e, quasi per dispetto, con il denaro ricevuto offre da mangiare e da bere ai contadini del posto, che, eccitati dal vino, cantano e ballano.
Di fronte a quella scena, don Lollò perde le staffe e con un calcio fa rotolare la giara, rompendola e liberando così zii Dima.
“La giara nuova! Quattr’ onze di giara! Non incignata ancora!” Urla don Lollò alla vista della grossa anfora rotta.
“Ecco vi pago la giornata. Cinque lire! Vi bastano?” Urla a zii Dima, prigioniero nella giara, buttandogli dentro la moneta.
“ Un terzo? – domandò lo Zirafa – Un’ onza e trentatré?”
– Meno sì, più no.
– Ebbene- disse don Lollò- passi la tua parola e dammi un’ onza e trentatré.
– Che?- fece zii Dima, come se non avesse inteso.
– Rompo la giara per farti uscire- rispose don Lollò- e tu , dice l’avvocato,me lo paghi per quanto lo hai stimato: un’ onza e trentatré.”
un’ onza e trentatré è questo il risarcimento che chiede don Lollò e la conseguente liberazione di zii Dima.
A quasi cento anni di distanza si parla ancora di onze nelle novelle pirandelliane, ma con un certo ibridismo, vista la menzione delle lire italiane. Per cui la domanda è: l’onza di questa novella ha ancora lo stesso valore di quella del romanzo verghiano?
Forse no, forse ai primi del ‘900 è un’ unità di conto con un valore arrotondato a dodici lire, come si può evincere dall’espressione “un’ onza e trentatré”, intendendosi non trentatré tarì ma centesimi, visto che trenta tarì, in Sicilia, avrebbero fatto un’ oncia. L’oncia è comunque presente nel meridione d’Italia sin dal principio del Medio Evo e un esempio lo troviamo nel “Decameron”di Giovanni Boccaccio, precisamente nella X novella della IV giornata.
In breve: la moglie di un medico nasconde l’amante in una grossa cassa, che viene portata via, di nascosto, da due usurai. Il giovane, scoperto, viene scambiato per un ladro, ma è salvato dalla testimonianza di una giovane serva della signora, che racconta come sono avvenuti realmente i fatti. L’amante viene scagionato, mentre i due ladri vengono condannati al pagamento di un’ammenda di dieci once d’oro. La vicenda è ambientata nella Salerno dei primi del ‘300 e tutto è descritto con grande conoscenza di costumi e ambienti, tipica di chi,come Boccaccio, è vissuto a lungo nel regno di Napoli. Quindi l’ammenda in once e non fiorini. Il giovane Boccaccio soggiornò a lungo a Napoli(1327/1340), per apprendere l’arte bancaria , al servizio dei Bardi e Peruzzi, ma fece altro, corteggiò Fiammetta, studiò letteratura e compose poemetti, però qualcosa di economia l’apprese e in particolare l’importanza del denaro , la differenza fra le monete e i cambi di valute.
Nella novella in questione l’oncia non è una moneta ma un’unità di conto adottata dagli Angioini nel momento del loro insediamento nel regno di Sicilia(1266). Essi introdussero il carlino d’argento, pari a metà del tarì d’oro. Quindici carlini d’argento equivalevano a un carlino d’oro. Sessanta carlini d’argento corrispondevano ad un’oncia d’oro di conto,costituita da quattro carlini d’oro, oppure quattro reali o quattro augustali e quindi trenta tarì d’oro. L’oncia d’oro di Napoli corrispondeva a cinque fiorini d’oro di Firenze e a cinque ducati d’oro di Venezia, i dollari del ‘300: un fiorino e un ducato valevano dodici carlini d’argento. Una precisazione:gli Angioini mantennero i tarì e gli augustali svevi, però i primi erano accettati a peso, i secondi venivano spesi per valore nominale, perché perfetti per peso, lega e dimensioni, furono le monete anticipatrici del Rinascimento.
Fatta questa precisazione, se ne aggiunge un’altra: in certe edizioni del “Decameron”, nelle note della X novella si legge che un’oncia equivale ad un fiorino. Errato! L’ equivalenza è un’oncia per cinque fiorini. Forse la precisazione non è importante da un punto di vista letterario, ma l’errore non rende chiara l’entità dell’ammenda. Boccaccio non è solo un fine analista dell’animo femminile, ma si rivela anche un grande conoscitore delle cose napoletane. Non scrive a sproposito, quando parla di oncia si riferisce ad un’unità di conto, quando parla di fiorino intende chiaramente la moneta di Firenze , diffusa in Italia e in tutta Europa.
Andreuccio da Perugia (V novella, II giornata) quando giunge a Napoli ha una borsa colma di fiorini d’oro.
Nella III novella della VI giornata, un marito avaro e cattivo permette ad un vescovo lussurioso di andare a letto con la propria moglie in cambio di 500 fiorini. Una cifra consistente, in realtà non sono fiorini d’oro, ma popolini, fiorini d’argento, opportunamente dorati. Così al marito rimangono il danno e la beffa. Popolini è il termine con cui si indicavano i fiorini d’argento, equivalenti ad 1/20 di fiorino d’oro e molto simili nell’incisione a quest’ultimo.
Nella III novella della IX giornata, Calandrino eredita dalla zia duecento lire in denari piccoli, detti anche neri, perché di mistura, cioè una lega con una percentuale minima di argento. I denari piccoli erano le monete delle transazioni quotidiane, quelle della spesa dal verduriere o dal fornaio, erano le monete dei lavoratori e dei poveri.
Non è un’affermazione campata in aria: nel Medio Evo esistevano due sistemi monetari, quello degli umili, essenzialmente denari piccoli, e quello dei ricchi, formato da monete d’oro e d’argento, fiorini e grossi, ad esempio . Queste ultime si rivalutavano periodicamente nei confronti dei denari piccoli, con i quali si pagavano i salari dei dipendenti delle varie arti, che rimanevano invariati, con ovvie e pesanti disparità sociali.
Nella società descritta da Boccaccio il denaro non viene più visto come strumento infernale: si pensi al mutamento del comportamento della Chiesa nei confronti dell’usura.
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