A volte succede che ci visiti qualcuno, che qualcuno scopra le nostre magagne, le nostre piccole/grandi manchevolezze. Fra queste l’incapacità di comprendere l’importanza di un nome dato ad una piazza, non solo una celebrazione, ma il desiderio di identificarsi in qualcosa di superiore. Di fatto una materializzazione di uno di quei discorsi che fecero tremare Mussolini all’inizio del Ventennio ma che, evidentemente, pochi riescono a ricordare. E la gestione del “verde pubblico” con ardite soluzioni tutte da verificare… completano l’opera.
Ben volentieri, perciò, accogliamo l’Osservatore romano che ci onora di un suo contributo tutto centrato su Piazza Matteotti, bella piazza alessandrina dedicata a Giacomo Matteotti, antifascista di rilievo. Eccolo in pronta pubblicazione…
…
C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei non più piccoli lettori.
No, signori, avete sbagliato. C’era una volta un giardino.
Il giardino di un re, allora?
Magari, magari fosse il giardino di un re, come quel Carlo III del Regno Unito, che s’intende d’arte, di giardinaggio e di architettura paesaggistica. E no, purtroppo c’era una volta un giardino all’italiana di tutti (e quindi di nessuno), in una piazza dal nome importante, che tutti chiamano con un altro nome, perché in questa città stramba, in cui sono casualmente approdato, vige la fatale abitudine di disprezzare, cambiare, deturpare o distruggere tutto ciò che è bello o storico. Se qualcosa è bella e storica a un tempo, poi, sparisce ancor più in fretta.
Mi dice il mio superiore, che vive qui da una decina d’anni: “Vada in piazza Matteotti. Lei che viene da Roma avrà la sorpresa di vedere che anche qui c’è una piazza elegante, circondata da bei palazzi ottocenteschi, con due grandi fontane, alcuni spiazzi rotondi e un giardino d’impianto all’italiana. Non è enorme, ma piacevolissima, vedrà”.
Esco e domando al primo passante che incontro dove sia questa piazza Matteotti. Non lo sa. Così un secondo e un terzo. Finalmente una vecchia, l’ultima cui chiedo informazioni, prima di tornare in ufficio per verificare di non essere stato gabbato, mi dice che qui si chiama piazza Genova e mi indica la strada. Penso che forse, in questa landa, Matteotti pareva un nome troppo nobile, per tenerselo caro e mi incammino perplesso nella direzione che mi è stata mostrata.
Ed ecco finalmente una piazza, che si apre oltre un arco in mattoni rossi. Mi guardo intorno, ma non vedo alcun giardino. C’è un orto, invece, un orto disordinatissimo, pieno di ulivi stenterelli, che qualche spiritoso ha piazzato ovunque vi fosse uno spazio non più ampio di un metro quadrato.
Ulivi.
In Piemonte.
In una città che, stando alle statistiche, nonostante i cambiamenti climatici, vive ancora nottate invernali con temperature sotto zero.
Che si stiano preparando a un’estensione del conflitto russo-ucraino e abbiano cominciato a impiantare orti di guerra? Non si capirebbe, altrimenti. Iconoclasti sì, ma così, con un giardino, mi pare troppo.
Giro attorno alle due parti della piazza e mi rendo conto che gli alberelli non cresceranno mai, in questa regione, ma, se anche un miracolo li facesse crescere, morirebbero soffocati l’un l’altro, tanto è minuscolo lo spazio che il giardiniere creativo ha lasciato intorno a ciascuno.
Be’, dunque il giardino è diventato un orto del Getsemani, senza un Cristo che prega, però.
A pregare resto io, che spero di poter essere ritrasferito a Roma al più presto.
Osservatore romano
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