Il 4 gennaio scorso, ad Alessandria, si è persa l’ennesima occasione per ragionare a fondo su quelle che sono le effettive possibilità di pace per una zona del mondo martoriata quant’altre mai. La Palestina.
L’intervento di Hani Gaber e del medico Hanri Mathar (palestinese che ha dovuto lasciare prima Haifa e poi Nazareth), hanno rimesso, per fortuna , i dati della questione nei loro corretti termini. Ma andiamo ai fatti…
Bene l’insieme della proposta, curata dall’ANPI con la partecipazione dell’associazione “L’Ulivo e il Libro” con altre. Buoni anche gli interventi, quello introduttivo di Marcello Vecchio, quello di Carla Gagliardini (vicepresidente ANPI provinciale) e diversi altri. Purtroppo ci si è fermati alla crosta, senza la possibilità/volontà di andare oltre. Che ci fossero in ballo più di cinquantamila morti a Gaza e più di centomila feriti non è, purtroppo, una novità. Possiamo anche definire ciò che si sta verificando come “genocidio”, “pulizia etnica” eccetera, poco cambia la questione. Perché l’obiettivo nostro non deve essere quello della ripetizione di dati e fatti già noti agli addetti ai lavori, quanto piuttosto studiare possibilità di uscita, occasioni di ribaltamento di una situazione di fatto incancrenita. E questo, il 4 gennaio, non è successo. C’è stata piuttosto la gara a vedere chi si discostava dal refrain “Israele Stato assassino”, “Boicotta Israele in tutte le forme” senza andare oltre. E’ stato anche evocato il difficile rapporto tra la Polizia della West bank, vicina a Al Fatah e al Governo di Abu Mazen che, secondo gli Accordi di Oslo del Novantanove deve provvedere alla sicurezza e alla “quiete pubblica” in CisGiordania e, in teoria, anche a Gaza. Una “sicurezza” e una “quiete pubblica” condizionate dalla presente ossessiva e continua dell’esercito israeliano, delle sue spie, dei suoi sicari. Comunque, per concludere la parte riguardante l’incontro pubblico,… Gagliardini e alcuni altri hanno insistito su “quanto sta succedendo a Yenin” e a come è stata bloccata l’emittente (molto seguita) Al Jazeera. Gaber, con pacatezza, ha risposto che i provvedimenti presi (tra cui la temporanea sospensione delle trasmissioni di Al Jazeera stessa) servono ad evitare momenti di scontro fini a loro stesi, piccole scaramucce che giustificherebbero le immancabili pesanti rappresaglie israeliane. Con distruzioni di campi, case, proprietà e uccisioni di uomini e donne in modo indiscriminato. Per questo Hani Gaber ha messo in guardia tutti: “Se noi tiriamo troppo la corda, anche se sarebbe giusto, verremmo distrutti, annientati dal potere militare dei Sionisti”. E questo non ce lo possiamo permettere. Ma cosa è successo con Al Jazeera?
Questione Al Jazeera e suo oscuramento
Tutto parte dalle Jenin Brigades, gruppi coalizzati in armi. Si presume siano molto vicini alle posizioni di Hamas e alla Palestinian islamic Jihad PIJ. L’Autorità Palestinese, facente capo ad Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di arginare l’estremizzazione delle proteste, sconfinanti in atti di terrorismo ma, evidentemente, con risultati discutibili. A inizio dicembre ha operato sulla distribuzione di acqua e sulle forniture elettriche per aumentare la pressione e per ripristinare “law & order”, la legge e l’ordine, ma anche questi provvedimenti “argine” non sono stati sufficienti ad arginare una pur comprensibile tendenza alla ribellione e a forzare la mano israeliana con una nuova dura “intifada”. Secondo Al Jazeera, però, si è andati oltre il limite, con la polizia dell’Autorità Palestinese che è arrivata a restringere alcune libertà personali, tra cui quella di espressione, oltre al “domicilio coatto” per alcuni capi jihadisti. .
Si sono avute violenze durante interrogatori molto duri, con minacce e pressioni di ogni tipo e questo Al Jazeera lo ha documentato. Alcuni dei membri della PIJ sono stati imprigionati e, talvolta, con la richiesta di fare pubblica ammenda in registrazioni video, da divulgare in seguito.
Nel corso degli anni, l’AP ha, d’altra parte, intensificato la repressione contro gli oppositori e i dissidenti palestinesi. Nel 2021, l’AP ha arrestato il critico e attivista Nizar Banat, morto in custodia senza riuscire a far luce correttamente sulla sua morte. Secondo Amnesty International ha segnalato l’accaduto ma senza risultati tangibili. Più di recente, il 28 dicembre 2024, un cecchino (presumibilmente vicino all’Autorità Palestinese, anche se le attribuzioni vanno – come era prevedibile – a qualche colono in vena di forzature o, peggio, di qualche gruppo militare israeliano non controllato) ha ucciso a colpi di arma da fuoco Shatha al-Sabbagh, una giornalista che aveva parlato con i residenti del campo dell’operazione di sicurezza.
La sua famiglia ha incolpato le forze dell’AP, ma l’AP ha negato la responsabilità e ha incolpato non meglio identificati “fuorilegge” per la sua morte. Quattro giorni dopo, l’AP ha bandito Al Jazeera, ritenuta la rete mediatica più popolare nella Cisgiordania occupata.
“Se questa decisione verrà applicata, significherà che Al Jazeera… non sarà in grado di monitorare ciò che sta documentando e divulgando oggi“, ha affermato Munir Nuseibah, analista politico del think tank palestinese Al-Shabaka.
“Ciò avrà ripercussioni sulla causa palestinese nel suo complesso. Al Jazeera … racconta la Palestina al mondo“, ha detto dalla stessa emittente in una intervista molto seguita (e ripresa centinaia di volte sulla pagina web). “Il modo in cui l’Autorità Nazionale Palestinese sta affrontando la situazione in questo momento è che c’è una sola verità e quella verità è la loro narrazione“, ha detto Jadallah di Al-Haq. Chiaro segnale di frattura fra due delle molte componenti che compongono la galassia palestinese e che dai tempi di George Abbash e del FPLP costituiscono una perenne spina nel fianco all’A.P. Una divisione che ritroviamo nei dibattiti organizzati in Italia (e in Europa) con una perenne tensione fra chi è “sempre e comunque contro Israele, auspicandone la scomparsa” (la frase è di George Abbash) e chi invece, seguendo i dettami degli accordi di Oslo del Novantanove, cerca vie d’uscita per una convivenza possibile. Esattamente ciò che ha fatto Vivian Silver per tutta una vita con il risultato di essere incenerita con la sua casa nel Kibbutz Be’eri vicino a Gaza nel 2023. (1)
Ma esiste una sinistra progressista in Israele?
I sinistrorsi israeliani sono più divisi ed emarginati che mai dall’assalto del 7 ottobre 2023, con la lotta congiunta palestinese-ebraica a un punto di rottura. Detto questo…le aspettative per una situazione migliore non mancano.
Lo scorso giugno, la notizia di una fusione tra due partiti politici israeliani , da parecchio tempo sulla scena politica locale, dai nomi solo parzialmente evocativi di Labor e di Meretz, è passata senza troppa pubblicità e con una certa distrazione da parte di media e simpatizzanti progressisti. Con l’ex egemone Labor Party che occupa solo 4 (quattro) dei 120 seggi della Knesset e Meretz completamente spazzato via nelle elezioni del 2022, invece non dovrebbe sorprendere più di tanto tale operazione. Semplice “operazione sopravvivenza”. In mancanza di una convincente visione alternativa alla perpetua sottomissione dei palestinesi sotto lo stivale dell’esercito israeliano, la sinistra parlamentare israeliana, ora guidata da Yair Golan, un ex generale dell’esercito, che ha guidato una brigata investigativa durante l’invasione del Libano, è stata condannata all’irrilevanza.
“Non esiste una politica di sinistra in Israele; questa è una realtà che molte persone trascurano“, ha twittato l’attivista palestinese Hamze Awawde a luglio sull’onnipresente “X”. Le sue osservazioni sono arrivate dopo che la Knesset ha approvato una risoluzione che si opponeva allo Stato Palestinese con 68 voti contro 9 (nove), con solo i consiglieri di partiti che fanno riferimento ad arabofoni interni a Israele, quindi “ palestinesi “ in disperata votazione contraria. “Sebbene esistano alcuni movimenti di sinistra di base, la politica di sinistra come forza politica semplicemente non esiste in Israele“. La questione di come i “progressisti” possano cambiare al meglio la politica israeliana dall’interno, in assenza di una leadership politica di sinistra, alimenta un dibattito infinito tra gli attivisti sul campo. Discorsi sul “si sarebbe dovuto fare così…”, “è solo colpa vostra, dei vostri partitini, se siamo caduti così in basso” sono all’ordine del giorno ma tendono ad affievolirsi ogni volta che cade un missile in qualche giardino o si hanno notizie drammatiche sulle centinaia di ostaggi in mano ad Hamas. . Recriminazioni presenti soprattutto durante le (poche) manifestazioni di piazza autorizzate, sempre più caratterizzate dalla presenza di famiglie e persone direttamente toccate dalle emergenza con pochissima presenza della “politica” organizzata..
Sin dal processo di pace di Oslo (e di qui si è partiti con riferimenti ad Arafat e a Rabin) (2) si sono avvertite spinte e controspinte che hanno portato all’autoannientamento delle rappresentanze politiche democratiche nella Knesset. La completa emarginazione della sinistra, imposta dalla Polizia, sempre molto condizionata dalla politica governativa di Israele, ha solo accelerato il fenomeno di sostanziale “straniamento” ben prima del 7 ottobre . Persino i familiari degli ostaggi israeliani, che chiedono un cessate il fuoco per liberare i loro parenti, vengono molestati e diffamati come “traditori” appartenenti a formazioni di “sinistra” o peggio (si sente spesso la frase “servi degli arabi”, quanto mai irritante). Anche la crescente repressione della componente arabofona residente in Israele, ha radicalmente limitato l’orizzonte del dissenso o dell’azione politica collettiva specie in quest’ultimo anno. Pochi giorni dopo l’attacco criminale di Hamas, i cittadini palestinesi interni ed esterni ai confini ebraici, hanno dovuto affrontare una campagna di intimidazione, persecuzione, sorveglianza e molestie sostenuta dal Governo di estrema destra.
Tuttavia, quest’anno appena concluso, specie nella sua seconda parte, ha visto gli “attivisti israeliani di sinistra” persistere nei loro sforzi per costruire un futuro più pacifico, giusto e paritario per cittadini israeliani e palestinesi. Esattamente quello che non desiderano gli estremisti palestinesi filohamas o tutti i loro collegati. E ancor meno tutti i settori che fanno riferimento a Netaniyau, a Smodrich e ai vertici dell’Esercito. In questo quadro la “questione Jenin – Al Jazeera” assume contorni ancor più paradossali e incredibili. Una divisione nella divisione fra palestinesi che, evidentemente, fa gola a molti e non fa che aumentare l’autostima dei Sionisti puri. . Come ha detto il 4 gennaio scorso Hani Gaber “console di Palestina” qui al Nord, “attenzione a cadere nella trappola di chi manovra Al Jazeera, cioè il Qatar , con dietro una galassia informe e potentissima che comprende anche Israele e U.S.A”. Posizione comprensibile (e da noi condivisa) ma che presuppone un clima rispettoso delle varie componenti in campo, disposte ad ascoltarsi e a costruire percorsi utili a fermare il Sionismo strisciante del governo israeliano.
foto gentilmente concessa da Moises Gnavir
Altra questione. esiste una “sinistra pacifista” in Israele?
Il “campo della pace” più mainstream, più vicino alla sinistra ebraica, ampiamente rappresentato da ONG e finanziato dalla filantropia internazionale, si sta attualmente ricostituendo dopo lo shock degli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la disperazione del successivo assalto di Israele alla Striscia di Gaza.
Più alla loro sinistra c’è una rete più piccola di organizzatori che riceve meno attenzione internazionale e che spesso si ritrovano emarginati persino dagli operatori di pace “classici”. Si va dagli antisionisti ai non sionisti a coloro che rifiutano del tutto tali categorie. Questi attivisti si trovano all’estrema sinistra della società israeliana, a volte identificati come “sinistra radicale”.
A differenza del campo della pace (una specie di Tavola della Pace ebraica), si sono opposti inequivocabilmente alla guerra attuale fin dall’inizio e chiedono lo smantellamento del regime di occupazione, apartheid e la evidente supremazia ebraica teorizzata come routine in Israele. Sottolineano l’organizzazione dal basso, rafforzando la lotta congiunta ebraico-palestinese e sottolineando i legami tra il dominio coloniale di Israele sui palestinesi e la disuguaglianza etno-classista all’interno della società israeliana.
Quasi tutti i giorni, questi attivisti si trovano a pianificare o partecipare a proteste contro la guerra, o impegnati in una “presenza protettiva“, ovvero a sostenere fisicamente le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata che sono a rischio di espulsione a causa della violenza dei coloni e dell’Esercito. Molti di loro hanno scontato una pena detentiva per essersi rifiutati di prestare servizio militare obbligatorio e si uniscono regolarmente alle proteste guidate dai palestinesi sia in Cisgiordania che all’interno di Israele.
Nessuno si fa illusioni sul fatto che la pressione interna su quel che rimane della sinistra sarà il fattore decisivo nel costringere Israele a porre fine alla sua carneficina a Gaza. E non solo…tutti chiedono ai governi stranieri di smettere di inviare armi a Israele. Come risultato di queste dimostrazioni tra il reale e il teatrale è, purtroppo, la solita rassegnazione combinata con una tristezza profonda. Ma sono testardi e vedono il loro attivismo come il minimo indispensabile data la loro posizione di relativo privilegio, pur riconoscendo il limitato impatto materiale delle loro azioni.
Operazioni sul campo che lasciano poche tracce…
Le quasi due dozzine di attivisti che hanno parlato con la BBC, con i principali media americani e mondiali, riconoscono anche che un cessate il fuoco di per sé non cambierebbe la situazione politica. Anche se si raggiungesse un accordo, il processo di resa dei conti con l’essere parte di una società settaria e razzista, che ha superato nuove soglie nella sua disumanizzazione nei confronti dei palestinesi, è appena iniziato. “Così tante persone qui sono in preda a una frenesia fascista“, ha detto l’attivista e podcaster Yahav Erez. Uno dei pochi che si rende conto di vivere in una condizione di genocidio autorizzato, con quasi tutti quelli che ti circondano senza nessuna empatia verso chiunque non sia ‘il loro’ popolo. E…”sei ancora in contatto con loro; come puoi dare loro legittimità”‘ .
Di fronte a queste sfide apparentemente insormontabili, i radicali di sinistra di Israele hanno puntato gli occhi su un cambiamento politico a lungo termine. Il primo ministro Benjamin Netanyahu non è immortale; il centro militarista e l’estrema destra messianica sembrano attualmente essere i suoi successori più probabili. L’obiettivo dei rimanenti “progressisti” è gettare le basi che potrebbero renderli una forza politica valida una volta finita la guerra. Per farlo, ora sono costretti a riesaminare il modo in cui concepiscono il loro potere, la loro base e la loro capacità di creare un cambiamento. Su questo “Al Jazeera” ha provato a fare qualche inchiesta, intervistando genitori affranti di giovanissimi soldati al fronte con una evidente vergogna dipinta in faccia, così come hanno ripreso, di spalle, una soldatessa di una trentina d’anni senza tre dita, diventata “pacifista” per forza dopo aver visto con i suoi occhi bambini decapitati, giovani donne incinte bruciate, parti di corpi in bocca a cani famelici e molte altre “belle” cose. Tentando di concludere l’excursus pacifista con una serie di flashes su opere, sculture, pitture, scenografie e filmati di giovani di entrambe le parti, guarda caso molto amici e “complici” nonostante tutto. (2)
Barra a sinistra…ma sarà possibile?
Negli ultimi due decenni, il centro e la destra israeliani hanno spinto per “gestire” o “ridurre” il conflitto, giusto il tempo di verificare che qualcosa degli “Accordi Oslo” non poteva funzionare. L’idea che Israele potesse controllare a distanza gli abitanti di gaza e della West Bank, combinando questa facciata democratica con una occupazione di fatto e con un assedio possibile grazie allo strapotere dei tanks e degli elicotteri da guerra. Il tutto mentre si perfezionavano i rapporti con i Paesi Arabi “amici”. Egitto, Giordania, Arabia saudita, Qatar ecc.
Per un po’, questo è sembrato funzionare. Gli attivisti sia della sinistra radicale che del più ampio “Campo della pace” hanno lottato per generare attenzione popolare e una qualche empatia nei confronti dei palestinesi. Operazione riuscita solo in minima parte perché la maggior parte degli ebrei israeliani è stata in grado di svolgere la propria vita quotidiana come “normale” senza dare ai palestinesi troppa attenzione. “Sarò molto onesta: eravamo bloccati“, ha detto Sally Abed, una delle principali attiviste palestinesi del movimento ebraico-arabo Standing Together in una intervista riportata sul canale BBC in lingua araba. “Nessuno ha parlato dell’occupazione, nessuno ha parlato di pace. L’atteggiamento era: “A chi importa?” . E si sono visti i risultati. Sotto sotto covava la cenere, con Hamas e tutte le forze più estreme a far proseliti, a vincere le elezioni grazie al “porta a porta” martellante, a creare le condizioni per l’attuale disastro.
Dopo il 7 ottobre e la rappresaglia israeliana, cosa si prospetta all’orizzonte?
Nonostante gli astronomici fallimenti governativi e militari dal 7 ottobre in poi, i leader israeliani non hanno cambiato il loro approccio. Per la stessa Sally Abed, i politici di tutti gli schieramenti hanno continuato a presentare al pubblico solo diverse sfumature della stessa politica. “Anche se si va fino in fondo, a sinistra [nella Knesset], nessuno offre alternative e pone ostacoli credibili”.
Fuori dai corridoi del potere, la crescente opposizione alla guerra ha portato a occasionali esplosioni di energia nel “Campo della pace” israeliano, simboleggiate dall’incontro del 1° luglio “È ora – La grande conferenza di pace”. (3) . Esattamente quell’occasione in cui 6.000 partecipanti ( l’evento più grande raduno anti-guerra del paese dall’ottobre 2023), al di fuori delle proteste di piazza, hanno fatto sentire la loro voce. Tra l’altro, schermi giganti proiettavano un video del 2019 di un gruppo di musicisti della città meridionale di Sderot che si erano uniti ad artisti di Gaza per creare insieme un video musicale e di danza. Come per sottolineare ulteriormente la netta distanza tra quel periodo e l’attuale, è seguito immediatamente un segmento della canzone “Imagine” di John Lennon. Una occasione di incontro per i progressisti, che hanno cercato di indirizzare le proteste per il cessate il fuoco e per articolare un programma esplicitamente anti-occupazione. Abed ha spiegato che Standing Together, che occupa uno spazio a metà strada tra il tradizionale campo della pace e la sinistra radicale, mira a fungere da “peso che tira [a sinistra] coloro che sono appena alla nostra destra, che sono per lo più con noi ma non hanno la forza di dire quello che diciamo noi“. Un altro tassello importante nel mosaico delle forze positive di Palestina (e di Israele).
Ma per evitare il destino del Campo della pace israeliano post-Oslo, gli organizzatori dell’iniziativa di luglio hanno detto in che dovranno imparare dai fallimenti della sinistra nel corso della sua storia e, più di recente, dalle debolezze delle proteste di massa contro la restaurazione attuata dal governo di estrema destra. Iniziative che, come quella di luglio 2024 dovranno superare enormi difficoltà fra tensioni con la Polizia antisommossa, a fronte di una società lobotomizzata dalla propaganda e rinchiusa in un menefreghismo di comodo.
Quelle dimostrazioni, che si sono svolte settimanalmente da gennaio 2023 fino al 7 ottobre, hanno visto centinaia di migliaia di israeliani scendere in piazza in nome della democrazia. Eppure i leader delle proteste pro-democrazia hanno cercato con tutte le loro forze di “limitare la portata del dibattito alla riforma giudiziaria e alle accuse di corruzione di Netanyahu“, secondo Noa Levy, segretaria della sezione di Tel Aviv-Jaffa del partito Hadash guidato da filosofi della politica sostanzialmente marxisti, nonché consulente legale e co-fondatrice della rete di rifiuto dell’esercito Mesarvot. Contro questi tentativi, Levy e altri attivisti hanno formato un “blocco anti-occupazione” all’interno del più ampio movimento di protesta, sottolineando l’apartheid e la privazione dei diritti dei palestinesi come elementi centrali di qualsiasi discussione sulla democrazia israeliana.
Il movimento di protesta mainstream (meno disposto al confronto duro con Polizia e Autorità israeliane) ha generalmente trattato il blocco anti-occupazione, che a volte ha radunato diverse migliaia di dimostranti, come un irritante paria, con le sue bandiere palestinesi, i suoi canti arabi e slogan come “Nessuna democrazia con l’occupazione“. Eppure, anche all’interno di questo blocco, definiamolo pure mainstream, c’erano forti disaccordi.
Il Radical Bloc, un collettivo di poche centinaia di israeliani di estrema sinistra formatosi accanto al blocco anti-occupazione, è presto emerso come forza indipendente ed è diventato un punto fermo nelle manifestazioni per il cessate il fuoco dal 7 ottobre. A differenza del più ampio blocco anti-occupazione. Quest’ultimo gruppo intende il sionismo come un progetto coloniale di insediamento e, pertanto, proprio in quanto cittadini consapevoli di Israele (sic) lotta per una società equa per tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, nonché per il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Da “Questo non è un conflitto, è un genocidio“, e “Pilota, smettila di uccidere bambini“, a “Nonna, dov’eri durante il genocidio di Gaza?”, i loro slogan e cori alle dimostrazioni del cessate il fuoco hanno rappresentato più di una semplice irritazione per i manifestanti tradizionali, ma piuttosto una forte critica nei confronti di un pacifismo di facciata assolutamente inutile. Almeno questo è quanto è stato comunicato tramite la BBC arabic.
Necessaria una unità di intenti per fare un salto di qualità
“Se pensiamo che le cose non possano essere aggiustate, non stiamo facendo una politica di cambiamento” . Ancora una volta è Sally che si fa sentire ma, a ben vedere, sia a Tel Aviv, che ad Haifa come pure a Gerusalemme, il loro numero non supera mai le cento unità….I disaccordi tra queste fazioni non possono essere liquidati come frammentazioni di sinistra o meschine lotte intestine. Riflettono le loro diverse risposte alla stessa domanda fondamentale: la società israeliana può cambiare, o è bloccata in uno stato permanente di violenta rabbia anti-palestinese?
L’opinione della sinistra israeliana (o di quel che ne rimane, scusate la ripetizione…) sui percorsi da intraprendere non è solo divisa è proprio su piani diversi. “Non credo che possiamo cambiare le opinioni delle persone dall’interno“, ha detto Moises Gnavir., un’attivista del Radical Bloc. “Non stiamo convincendo nessuno che non sia già con noi“. L’obiettivo, ha detto, non è quello di cambiare le menti degli israeliani, ma piuttosto di essere una voce della verità in una società che è in uno stato quasi compulsivo di negazione della violenza che sta infliggendo. “C’è una ‘sindrome di Davide e Golia’ qui”, ha continuato Moises. “Noi [ebrei israeliani] ci presentiamo sempre come Davide, e deve sempre esserci un Golia che ci attacca. Anche se uccidiamo più di 50.000 persone, siamo sempre le vittime“.
Yahav Erez, invece, vede le cose diversamente. Il sionismo non è un’identità innata per gli israeliani, ma piuttosto un’ideologia politica che può essere sfidata come qualsiasi altra, e impegnarsi in questo rimane un compito essenziale per i progressisti israeliani. “Parlo con persone le cui storie sono la prova vivente che puoi cambiare“, ha detto alla solita Al Jazeera. “Il sionismo non è qualcosa con cui nasci e poi è ciò che sei per il resto della tua vita“. Yeheli Cialic, un attivista del Partito comunista israeliano ed ex coordinatore della rete di rifiuto dell’esercito Mesarvot, concorda. “Non voglio che [gli israeliani] vengano dipinti come [diversi da] qualsiasi altro stronzo al mondo“, ha detto. “Se pensiamo che le persone siano stagnanti e che le cose non possano essere sistemate, non stiamo facendo una politica di cambiamento. E questo è irresponsabile, perché abbiamo a che fare con vite umane“. I diversi approcci al pubblico israeliano tendono a emergere intorno alla scelta della lingua, che si tratti di cartelli di protesta, chat di gruppo o post sui social media. Nel novembre 2023, le occasionali collaborazioni tra il Radical Bloc e il più ampio blocco anti-occupazione si sono concluse a causa della riluttanza di quest’ultimo a usare il termine “genocidio” per descrivere le azioni di Israele a Gaza.
“La loro strategia era di parlare il più possibile al grande pubblico“, ha spiegato in un perfetto inglese il nostro Moises. “La nostra strategia era di essere intransigenti nelle nostre dichiarazioni; se il grande pubblico non può [chiamare il genocidio per quello che è], almeno stiamo dicendo la verità“. Cialic, al contrario, descrive l’uso di un linguaggio intransigente all’interno della sinistra israeliana e tra gli attivisti all’estero come prova di una mentalità da “perdente”. “È la politica dell’autoespressione e non la politica di costruire potere o giocare per vincere“, ha sostenuto. “Quando tieni un cartello in ebraico per strada, stai conversando, cercando di comunicare qualcosa al pubblico israeliano. Se il tuo messaggio fa subito chiudere le persone, o non lo capiscono nemmeno e si arrabbiano, allora hai fallito nel tuo atto di comunicazione e hai fallito in questa azione politica“.
Gli attivisti che cercano di fare appello al pubblico israeliano si scontrano con la totale impermeabilità dell’attuale governo israeliano alle pressioni popolari. Anche se le proteste per il cessate il fuoco dovessero aumentare, è improbabile che abbiano un impatto sulle azioni militari di Israele. E questo è vero non solo in Israele, ma in tutto il mondo: dagli Stati Uniti e dalla Germania all’Egitto e alla Turchia, enormi proteste hanno invaso le strade per chiedere giustizia in Palestina, con scarso impatto sulle politiche dei loro governi. Questo problema porta a un più ampio senso di mancanza di scopo tra gli attivisti, dove è praticamente impossibile valutare se i loro sforzi stiano facendo qualche differenza.
“Non c’è un singolo elemento all’interno del governo che valga la pena provare a fare pressione“, ha affermato Amjad Shbita, segretario generale del partito Hadash e cittadino palestinese di Israele. “Anche sotto i precedenti governi di Netanyahu, quando scendevamo in piazza dicevamo: ‘Ok, Bibi non ci ascolterà, ma ci sono altri elementi più moderati su cui la pressione funzionerà’. Questa non è la nostra situazione attuale“. Con scarsi risultati per la protesta dal basso, i progressisti israeliani sono costretti a contare su forze esterne: pressioni diplomatiche e richieste di uno stato palestinese, tribunali internazionali, movimenti di boicottaggio e sanzioni. Incredibile…ma le cose stanno esattamente così.
Alla fine di ottobre 2024, più di 3.500 cittadini israeliani hanno firmato una lettera aperta chiedendo ogni possibile forma di pressione globale su Israele per fermare il genocidio a Gaza. “Purtroppo, la maggioranza degli israeliani sostiene la continuazione della guerra e dei massacri“, hanno affermato, “e un cambiamento dall’interno non è attualmente fattibile“.
Una partnership difficile fra componenti che non si apprezzano
Con poche possibilità di fare pressione sul loro governo o di persuadere i loro concittadini, molti “israeliani di sinistra” hanno cercato di sostenere una lotta congiunta palestinese-ebraica. Tuttavia, gli attacchi del 7 ottobre e la successiva violenza di massa a Gaza hanno spinto le organizzazioni palestinesi-ebraiche vicine a un punto di rottura.
“All’inizio di ottobre, nessuno immaginava come ci si potesse sedere nello stesso posto e riconoscere il dolore reciproco. Era inimmaginabile“, ha ricordato Abed, di Standing Together. “Molti ebrei israeliani di sinistra hanno cambiato la loro visione di base di chi conta come “noi”“, ha spiegato Levy di Hadash. “Ora pensano a ‘noi’ come ebrei e a ‘loro’ come arabi che devono dimostrare di essere ‘nostri’ partner. Improvvisamente, la partnership stessa è diventata una questione”.
Nisreen Morqus, segretaria generale del Movimento delle donne democratiche in Israele (noto con l’acronimo ebraico “Tandi”) affiliato ad una delle principali formazioni di ispirazione marxista, vede queste tensioni come una parte naturale della lotta comune, che riaffiora durante ogni escalation di violenza. “I sentimenti nazionalistici possono sopraffare i nostri principi e la nostra ideologia “, ha affermato. “Quando ciò accade, dobbiamo ascoltare il punto di vista di tutti, ma dobbiamo anche continuare a lavorare per avere un impatto sulle politiche del governo e del pubblico. Per questo abbiamo bisogno di una lotta comune, non separata“. La lotta congiunta non significa collaborare a ogni iniziativa, ha spiegato Shbita di Hadash; piuttosto, gli attivisti devono discernere quando l’azione congiunta è più strategica. Per Shbita, “gli arabi e gli ebrei che protestano insieme pubblicamente hanno un drastico valore aggiunto; le persone ci vedono insieme e provano speranza“. Ma nelle elezioni comunali o nazionali, dove i partiti arabo-ebraici tendono a ottenere risultati inferiori alle aspettative e ad affrontare ulteriori ostacoli politici e burocratici, sostiene che “una collaborazione arabo-ebraica troppo stretta può a volte essere molto meno efficace“. Indipendentemente dal fatto che alcune tattiche siano perseguite congiuntamente o separatamente, Shbita ha concluso, “ciò che è importante è che le persone abbiano il cuore nel posto giusto, il che significa essere aperti e vedere questo come un’unica lotta unificata“. E per convincere la loro base che una lotta così unificata esiste, gli attivisti apprezzano la capacità di dimostrare che gli interessi ebraici e palestinesi sono complementari e interconnessi, che gli ebrei-israeliani hanno qualcosa da guadagnare dall’acquisizione di libertà e diritti da parte dei palestinesi. Questo punto non è ovvio per la maggior parte degli israeliani al di fuori della sinistra. Invece, la pace è spesso vista come qualcosa di simile alla “generosità” verso i palestinesi, che avrebbe un costo per la società ebraico-israeliana.
Contro questa visione dominante, le forze progressiste affermano che gli ebrei israeliani hanno effettivamente interesse a rinunciare ai privilegi della supremazia ebraica, poiché questi privilegi si basano su un falso patto. La sottomissione palestinese richiede livelli crescenti di disumanizzazione e violenza che non risparmiano i suoi presunti beneficiari; il regime di supremazia ebraica può essere mantenuto solo da una società militarizzata che esige uniformità e obbedienza da tutti i suoi membri, indirizzando la sua violenza anche verso l’interno, verso immigrati, donne, persone queer, disabili, poveri, dissidenti e tutta la cultura araba. Una questione delicatissima che riguarda l’essenza stessa di Israele. Nelle stesse famiglie dei manifestanti o degli obiettori di coscienza sono in molti a pensare che “nel territorio di Palestina, nella terra promessa di Abramo non ci sia posto per eguali diritti per tutti”. Per pari condizioni economiche e sociali di partenza da cui partire. Di garanzie per la casa, per i trasporti , per il lavoro, per gli studi. In fondo, in fondo, anche fra le pareti domestiche delle famiglie ebraiche più illuminate resta l’idea del “popolo eletto” che “possiamo concedere qualcosa, anche molto…ma non tutto”.
Da un altro punto di vista, la solidarietà non è semplicemente un’espressione discorsiva di sostegno da un gruppo all’altro. Piuttosto, è un processo di trasformazione sociale e politica che sostituisce la logica della separazione e le relazioni di violenza con nuove alleanze politiche attraverso una lotta politica congiunta. Tale solidarietà inizia con il riconoscimento che i destini di tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sono materialmente e irrevocabilmente intrecciati.
“L’occupazione è alimentata da considerazioni economiche e materiali”
Una debolezza della residua sinistra locale, poco attenta alle iniziative anti-occupazione, è stato il frequente licenziamento sprezzante di metà della popolazione ebraica del Paese come irrilevante per la costruzione del potere politico di sinistra: ovvero i Mizrahim, che hanno origini in Medio Oriente e Nord Africa e che sono stati storicamente emarginati in Israele per mano degli ebrei ashkenaziti con radici in Europa. Ciò deriva dalla nozione popolare che i Mizrahim siano legati alla politica di destra, e in particolare al partito Likud di Netanyahu.
“C’è una visione stereotipata secondo cui i Mizrahim sostengono la destra che sostiene l’occupazione, ovvero che se non fosse per i Mizrahim, forse non ci sarebbe un’occupazione“, ha spiegato il professor Moshe Behar, co-fondatore del Mizrahi Civic Collective. Questa visione permane negli spazi anti-occupazione, nonostante gli studi dimostrino che la differenza tra il voto di destra dei Mizrahi e degli Ashkenazi fluttua ampiamente nel tempo e che l’istruzione è un indicatore di voto più significativo dell’etnia. Sostanzialmente come in tutta Europa (soprattutto in Italia) è la discriminante culturale a fare la differenza. Purtroppo a fronte di una maggioranza di “persone attente al proprio particulare” per citare Machiavelli.
Secondo Behar, la sinistra anti-occupazione vede le divisioni etniche tra i cittadini israeliani come una “questione di secondo ordine o marginale” nella lotta per i diritti dei palestinesi. Eppure le due cose non possono essere separate, perché “la questione della Palestina non si basa solo su problemi politici all’interno di due nazioni, una ebraica e una palestinese; l’occupazione è alimentata da considerazioni economiche e materiali“. Ed è stata “proprio la sinistra tradizionale che ha separato le divisioni etniche e di classe dai diritti politici dei palestinesi occupati e apolidi in Cisgiordania e Gaza ad aver indebolito la sinistra dal 1967“, ha aggiunto. Questa debolezza è stata palesemente evidente nelle manifestazioni pro-democrazia dell’anno scorso, che non sono riuscite a mobilitare o anche solo a provare ad attrarre i mizrahi. Le proteste hanno trascurato l’impatto che le riforme giudiziarie dell’estrema destra avrebbero avuto sulle comunità povere, operaie ed emarginate di Israele, una svista che ha galvanizzato una risposta da parte degli attivisti mizrahi e dei movimenti di sinistra. Come ha spiegato Behar, le proteste per la democrazia “non hanno fatto menzione del sistema di welfare, della sindacalizzazione, dei diritti dei lavoratori o di come le riforme giudiziarie avrebbero completamente smantellato i sistemi di istruzione e sanità pubblici”. Ciò ha reso facile per la destra mobilitare il risentimento populista e la politica identitaria revanscista dei Mizrahi contro l’élite ashkenazita, la circoscrizione che ha dominato le proteste.
Secondo Sapir Sluzker Amran, avvocato per i diritti umani e co-fondatore del movimento femminista mizrahi Shovrot Kirot (che ha recentemente annunciato che avrebbe cessato le sue attività alla fine dell’anno , in ebraico מזרחי שוברות קירות, praticamente “rompiamo il muro divisorio”), la destra ha ridicolizzato con successo le proteste come “privilegiati, di sinistra, ricchi ashkenaziti che hanno avuto il controllo [del paese] per tutti questi anni, e ora piangono perché qualcuno sta cercando di toccare il loro privilegio“.
Partendo da considerazioni prettamente economiche (“maggiore equità in salari e pensioni” e “più occupazione giustamente retribuita per tutti”) , il Mizrahi Civic Collective e Shovrot Kirot sfidano la cooptazione populista e conservatrice dei “semplificatori” Mizrahi. Secondo Behar, negli ultimi 15 anni circa, “molto di ciò che era la sinistra Mizrahi è stato incanalato in questioni di cultura, rappresentanza, musica e arte“, emarginando sia le questioni palestinesi che quelle socioeconomiche. “È l’abbandono della sua base materiale che ha reso così facile per la destra cooptare le posizioni Mizrahi”. Per Netta Amar-Shiff, avvocato e co-fondatrice del Mizrahi Civic Collective, i progressisti israeliani devono smettere di trattare l’opposizione all’occupazione come un indicatore di classe, status o istruzione. “Il sostegno alla pace non è un bene culturale“, accessibile solo agli israeliani di un certo background, ha sottolineato. “Stiamo offrendo qualcosa che attualmente non esiste nel campo della pace: una comprensione più ampia, uno spettro più ampio di approcci politici. E se scegliete di ascoltarci, allora tutti noi insieme, forse, saremo in grado di affrontare la disuguaglianza e la guerra“.
In “periferia” il confronto vero
Collegando le lotte anti-apartheid e di classe etnica, i progressisti israeliani potrebbero essere in grado di capitalizzare piccole crepe nel sostegno del regime in quella che Israele chiama la sua “periferia”: le regioni attorno al Negev/Naqab nel sud del paese e la Galilea nel nord. Ciò è particolarmente vero tra i beduini, i mizrahi e i residenti della classe operaia delle aree circostanti la Striscia di Gaza, che sono stati tra le comunità più gravemente danneggiate dall’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas.
Il loro abbandono da parte del governo quel giorno, così come nei piani di riabilitazione che seguirono, è stata una chiara continuazione di una lunga storia di discriminazione istituzionale. Ora più che mai, le simpatie politiche delle comunità trascurate e vulnerabili sembrano essere un obiettivo, fatto che non è passato inosservato a destra. Omer Rahamim, il capo del Consiglio Yesha, un “gruppo ombrello” di consigli municipali di coloni, ha avvertito che la i cittadini e le cittadine con orientamenti di destra al momento del voto ” ha sempre votato per il Likud ma che lo abbandonerebbe se diventa troppo favorevole ai Mizrahi“. Nel frattempo, nuove iniziative, come “Okef Israel” di Shovrot Kirot, mirano a costruire un’infrastruttura politica alternativa attraverso la quale i rappresentanti delle città e dei villaggi non riconosciuti della periferia possano impegnarsi in raccolte fondi e politiche congiunte. “C’è un’apertura a nuovi approcci [tra i residenti“, ha detto Amar-Shiff. Ma la destra è più preparata a capitalizzare queste aperture. “Posso venire a Ofakim [una città prevalentemente Mizrahi nel sud di Israele, che ha visto una delle battaglie più significative del 7 ottobre] come una brava donna e offrire il mio aiuto alla comunità per raggiungere i suoi obiettivi politici, ma c’è anche il Garin Torani [una rete religioso-sionista di nuove comunità missionarie che mirano a “giudaizzare” più quartieri e città]. E hanno più che semplici belle parole. “Possono offrire armi, alloggi, assistenza all’infanzia e programmi doposcuola“, ha continuato nella sua breve intervista ad Al Jazeera. “E portano la loro versione dell’ebraismo, che è un ebraismo di odio“.
Il Mizrahi Civic Collective, d’altro canto, pratica ciò che chiama “reciproco salvataggio“, l’idea che diverse comunità materialmente vulnerabili nella regione (ad esempio i residenti delle “periferie” geografiche e sociali di Israele e i palestinesi nelle aree rurali della Cisgiordania) abbiano il potere di salvarsi a vicenda dalla violenza e dall’espropriazione, e che tale reciprocità sia altamente politica.
Molti a sinistra, diffidenti delle iniziative di coesistenza depoliticizzata e critici di qualsiasi affermazione di equivalenza tra ebrei israeliani e palestinesi, rifiutano questa idea. Ma come ha spiegato Amar-Shiff, non propone che ebrei e palestinesi operino su un piano di parità. “La reciprocità non smantella di per sé la gerarchia tra israeliani e palestinesi o le gerarchie all’interno di quelle società“, ha affermato. “C’è [ancora] una gerarchia; non c’è simmetria”. E, come si diceva prima, questo fatto della distinzione di casta, di possibilità economiche e sociali è ovunque in Israele fra le famiglie ebraiche più o meno praticanti. Quasi una maledizione, più che una benedizione, questa storia del “popolo eletto”.
“Non sto dicendo che il popolo ebraico stia attualmente affrontando una minaccia esistenziale“, ha affermato Amar-Shiff. “Sto dicendo che porto dentro di me questa minaccia, sia perché vengo dallo Yemen, dove abbiamo avuto le nostre atrocità, sia come ebreo. Non possiamo lasciare che la destra sia l’unica a parlare di questa [paura], perché la destra la porta in un luogo violento di reciproco annientamento“.
In effetti, gli orrori del 7 ottobre hanno rivelato il potere del reciproco salvataggio alla maggior parte degli attivisti ebrei-israeliani con cui ha parlato “+972 monthly” , che hanno ricordato i momenti in cui amici o compagni palestinesi hanno espresso solidarietà e preoccupazione subito dopo gli attacchi. Più di ogni altra cosa, i loro rapporti politici con i palestinesi hanno rafforzato la loro determinazione e il loro impegno a resistere al regime israeliano, facendo breccia nella disperazione e nell’impotenza prevalenti.
E noi, qui in Italia, siamo ancora alle schermaglie.
Carla Gaglardini, e chi è intervenuto in modo circostanziato dal “pubblico” lo scorso 4 gennaio, ha sicuramente ragione. Esiste un problema di unità e di forza da ricompattare in Palestina e “non bisogna concedere nulla a Israele, anzi bisogna boicottarne in tutti i modi i prodotti, i legami , i sostegni”. Forse non dovrebbe neppure esserci, Israele, portando alle estreme conseguenze un certo tipo di ragionamento evidentemente non coincidente con i principi del Trattato di Oslo. Una posizione sostenuta da buona parte del governo teocratico dell’Iran, da alcuni gruppi armati (con frange di terrorismo) che abbiamo imparato a conoscere in questi tempi, e fra questi “Hamas”. Ma non è quella la strada per tagliare i “ponti”, quindi tutte le giustificazioni possibili a Israele. E in questo è stato magistrale Hani Gaber nella sua chiusura. “Sappiamo benissimo cosa ci hanno fatto, come ci hanno trattato per ottant’anni”. “Sappiamo benissimo, purtroppo meglio di chiunque altro perchè quei corpi sventrati, quell’odore di morte, quella distruzione l’abbiamo vista direttamente”. “Sappiamo però che non abbiamo la forza per combattere alla pari. I carri armati ci schiacciano. Non guardano in faccia a nessuno”. “Per cui la precauzione dell’ANP, dell’Autorità Palestinese è comprensibile, anche se collide con gli interessi di una superpotenza della comunicazione come “Al Jazeera” . Meglio limitare i danni, evitare atti intesi come provocazioni, ricompattare le varie componenti e andare avanti. Mantenendo i piedi ben saldi sulla nostra terra. “Ci hanno chiesto di condividerla con un popolo che ha sofferto moltissimo e che ha perso sei milioni di persone nei campi di concentramento nazisti”. Bene. la risposta di Hani Gaber è lapidaria: “Con il rispetto reciproco e pari opportunità per tutti si può costruire un futuro insieme”. Rispetto reciproco significa “riconoscimento di Stati, dei loro confini, avviando consultazioni per rendere semplici e normali gli attraversamenti da uno Stato all’altro”. Purtroppo non siamo riusciti ad andare oltre nel dibattito. Come si è visto ci sarebbe molto da discutere su quanto sta succedendo “in ciò che resta della sinistra” in Israele, con dati aggiornati e mettendo in luce le opinioni dei protagonisti. Si sarebbe potuto discutere di quello…speriamo in un prossimo incontro meno “scontato” e limitato all’esposizione delle reciproche valutazioni generali. L’esempio di Vivian, ben descritto nella nota qui sotto, ce lo ricorda con forza e determinazione.
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.1. Vivian Silver (Winnipeg, 2 febbraio 1949– Be’eri, 7 ottobre 2023) è stata un’attivista canadese naturalizzata israeliana per i diritti delle donne. È morta il 7 ottobre 2023, in seguito all’invasione di Hamas nel suo kibbutz Be’eri. È tra le fondatrici dell’organizzazione Women Wage Peace.
Vivian Silver è nata e cresciuta a Winnipeg, Manitoba, Canada. Per la prima volta lei si recò in Israele nel 1968, durante il suo primo anno di college . Ha frequentato l’ Università Ebraica di Gerusalemme, dove ha studiato psicologia e letteratura inglese. Vivian Silver è stata anche fortemente coinvolta nella “North American Jewish Students Network” (rete studentesca di ebrei nordamericani), dove era l’amministratore del Jewish Student Press Service. In questa veste, lei iniziò a pubblicare articoli sulle relazioni israelo-palestinesi. Durante il suo ultimo anno di college, ha co-fondato la Student Zionist Alliance nel suo campus e successivamente è stata invitata alla conferenza nazionale della Student Zionist Alliance a Montreal di quell’anno. Nel 1973, assieme a Shifra Bronznick, organizza la prima Conferenza nazionale delle donne ebree.
Vivian Silver nel 1974 divenne membro del kibbutz Gezer. A Gezer divenne la segretaria del kibbutz, una delle poche donne a farlo. Il primo attivismo di Vivian Silver si concentrò sui diritti delle donne e sulle disparità di genere nella società israeliana. A tal fine, nel 1981, fondò il “United Kibbutz Movement’s Department” per promuovere l’uguaglianza di genere . Ha anche lavorato all’interno della Knesset nel sottocomitato per il progresso delle donne nel lavoro e nell’economia, per il New Israel Fund e nel comitato direttivo di Shatil. Insieme al marito e ai due figli, nel 1990 si trasferì a Be’eri, un kibbutz vicino al confine con la striscia di Gaza. Durante questo periodo, conobbe meglio la comunità beduina locale e gli abitanti di Gaza. Dal 1998 ha ricoperto la carica di direttore esecutivo per il Negev Institute for Strategies of Peace and Development (NISPED). Ha lavorato all’interno del kibbutz per organizzare programmi per aiutare gli abitanti di Gaza, come corsi di formazione professionale, e ha assicurato che i lavoratori edili di Gaza nel kibbutz fossero pagati equamente.
Nel 1999, assieme a Amal Elsana Alh’jooj, fonda il Centro arabo-ebraico per l’uguaglianza, il potenziamento e la cooperazione, una derivazione di NISPED. Ne ricopre la carica di direttrice del centro prima della seconda intifada. Il centro ha organizzato progetti in Israele, Gaza e Cisgiordania . Nel 2010, assieme a Alh’jooj ha ricevuto il Premio Victor J. Goldberg per la pace in Medio Oriente, un premio annuale assegnato dall ‘Institute of International Education a coppie di attivisti arabi e israeliani che lavorano per la pace.
Prima della chiusura del confine di Gaza nel 2007, Vivian Silver ha lavorato assieme ai residenti di Gaza in progetti interculturali . Un gruppo da lei fondato, Creation Peace, si concentrava sulla promozione di rapporti commerciali tra artigiani palestinesi e israeliani . Vivian Silver è anche stata un membro del consiglio di B’Tselem, un’organizzazione per i diritti umani avente la sede a Gerusalemme.
Vivian Silver è ufficialmente andata in pensione nel 2014. Successivamente al suo pensionamento e alla guerra di Gaza del 2014, ha co-fondato Women Wage Peace, un’organizzazione interreligiosa di base. Vivian Silver ha anche iniziato a fare volontariato con “Road to Recovery” e “Project Rozana” per trasportare pazienti di Gaza che erano in viaggio a Gerusalemme per cure. Il 4 ottobre 2023, Vivian Silver e la sua organizzazione Women Wage Peace, hanno contribuito a organizzare una manifestazione per la pace a Gerusalemme che ha attirato 1.500 donne israeliane e palestinesi .
Il 7 ottobre 2023, Vivian Silver viene uccisa nella sua casa a Be’eri, allo scoppio della guerra Israele-Hamas del 2023. Sua sorella ha riferito che, durante una conversazione telefonica con Vivian il 7 ottobre, le disse di aver sentito militanti di Hamas fuori casa sua. La stessa Vivian Silver ha anche inviato messaggi agli amici su WhatsApp che riportavano la stessa informazione. La sua casa è stata bruciata e distrutta quando sono arrivati i soccorritori israeliani.
Per varie settimane, il rapimento di Vivian Silver non era stato comprovato. Secondo la sua famiglia e i suoi colleghi la sua ubicazione rimaneva sconosciuta: di lei mancavano notizie dal 7 ottobre. La sua famiglia e i suoi amici hanno creato una pagina Facebook “Missing Vivian Silver”, per cercare di raccogliere maggiori informazioni sulla sua possibile ubicazione. Hanno anche contattato la Croce Rossa e il governo canadese per chiedere assistenza nel suo ritrovamento e per assicurare il suo rilascio. Grazie alle indagini sul DNA eseguite su alcuni resti umani, giunge, purtroppo, la conferma della sua morte .
.2. https://www.npr.org/2024/01/07/1222578695/gaza-october-7-art-israel-palestinians
.4. +972 monthly. “Qual è il dovere della sinistra israeliana in un periodo di genocidio?” https://www.972mag.com/duty-of-the-israeli-left-in-genocide/
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