Dopo mesi in attesa del permesso umanitario, Emergency è entrata a Gaza per offrire assistenza sanitaria di base alla popolazione martoriata dalla guerra. Partendo dalla recente intervista rilasciata da Stefano Sozza al giornale “Il Manifesto” (1) proviamo a scavare un pochino più a fondo e a comprendere le ragioni degli uni e degli altri. Perché mai, come in Palestina, si è trasformato tutto a livello ideologico e di scontro, con un continuo riferimento al “prima”…”Prima c’eravamo noi”…. “Quelle terre sono sempre state nostre” … “Qui voi non c’entrate nulla”… “non lasceremo mai le terre a voi…”, non permettendo, così , di andare alla radice della questione. Perché da ottant’anni Ebrei alla ricerca della loro Terra Promessa, reduci dal più terribile sterminio scientifico, non riescono a trovare un modus vivendi con chi ci vive per lo meno da 1500 anni, con radicamenti pari a quelli dei nuovi arrivati, ora una decina di milioni di unità ma prima della Seconda Guerra Mondiale con presenze sporadiche dell’ordine di qualche centinaia di migliaia di persone? (2). Ecco, se si va a scavare (efficace questo termine che ben si attaglia alla situazione drammatica attuale) ci si accorge che i pregiudizi sono chiaramente subordinati a interessi economici e di possesso di terre, sia coltivabili che edificabili. Nulla di nuovo, beninteso….le guerre, le più cruente come quelle solo abbozzate, hanno sempre un retroterra di interesse economico. Non è una bufala quella del pool di architetti di alto livello che hanno presentato più progetti “futuristici” per la new Gaza, ovviamente e saldamente in mano al Governo israeliano. Palazzi di venti piani, giravolte prodotte da ardite costruzioni tra terre e cielo, viali alberati, servizi di livello, piscine, impianti sportivi, “piano del decoro” all’avanguardia e…. vista mare. Come non è una bufala quella della refrattarietà della società israeliana nei confronti delle popolazioni palestinesi anche quando queste hanno regolare passaporto con la stella di David.
Tra le conseguenze del 7 ottobre 2023, infatti, ci sono anche i blocchi agli accessi in Israele di decine di migliaia di manovali e lavoratori palestinesi. Tanto che gli ufficiali dell`esercito hanno affermato che, poiché molti palestinesi attraversano la barriera di confine illegalmente, sarebbe meglio a questo punto autorizzarne l`ingresso tramite vie ufficiali. In questo modo dal l`inizio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, solo 8mila palestinesi della Cisgiordania sono stati autorizzati a lavorare in Israele, anche se negli insediamenti ce ne sono almeno altri 10mila ancora impiegati, avendo ricevuto l`approvazione dei funzionari di sicurezza e dei consigli regionali locali.
Questioni economiche….come sempre
La decisione di bloccare i permessi di lavoro ai palestinesi in Israele è stata dannosa sia per l`economia israeliana che palestinese. Le imprese israeliane dell`edilizia e dell`agricoltura hanno sofferto molto per la mancanza di manodopera e oltre 100mila palestinesi impiegati in Israele sono rimasti senza lavoro e senza reddito, aprendo la strada ai gruppi terroristici che sfruttano la loro situazione per arruolare più persone nella loro causa. Come risultato congiunto degli sforzi di Netanyau stesso e del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, la questione dei lavoratori illegali palestinesi, per quanto urgente, non è stata ancora portata all`esame del governo. Della situazione di questi lavoratori e dell`impatto sull`economia reale con conseguente revoca di loro permessi in Israele si è occupato anche il giornale elettronico The Times of Israel in un lungo articolo del 22 giugno scorso. «Prima del 7 ottobre – si legge nel pezzo – 200mila palestinesi della Cisgiordania attraversavano il confine per lavorare. Subito dopo l`attacco di Hamas, il governo israeliano ha annunciato la sospensione dei permessi di lavoro per circa 150mila palestinesi della Cisgiordania. Oltre ai titolari di permesso, si stima che altri 50mila lavoratori della Cisgiordania attraversassero – prima – illegalmente il confine ogni giorno. Tra coloro che si sono trovati nell`impossibilità di lavorare in Israele, dove gli stipendi sono più alti che in Cisgiordania, circa 80mila palestinesi impegnati nei cantieri israeliani, tecnici specializzati in settori come la carpenteria in ferro, la pavimentazione, le casseforme e l`intonacatura.
Per Israele, il blocco dei permessi ai lavoratori palestinesi ha determinato un drammatico stop del settore delle costruzioni. Anche altri settori, come l`agricoltura e i servizi, sono stati colpiti, ma non quanto l`edilizia, che rappresenta il 6 per cento dell`intera economia israeliana. Il leader della destra religiosa e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha giustificato il congelamento di questi fondi con un argomento non nuovo: “l`Autorità palestinese incentiva il terrorismo continuando ad erogare stipendi ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e pagando indennizzi alle famiglie degli attentatori uccisi” (3). Le alternative, secondo “fonti della sicurezza” recentemente citate dal quotidiano Yediot Ahronoth hanno stimato che potrebbero esserci fino a 40mila lavoratori palestinesi che lavorano illegalmente in Israele. Tanto che i funzionari dell`intelligence temono che l`alto tasso di disoccupazione in Cisgiordania rappresenti una minaccia per la stabilità dell`area, chiedendo al governo di riconsiderare la politica di chiusura, osservando che è preferibile consentire l`ingresso legale e sotto controllo dei lavoratori piuttosto che affidarsi a quelli illegali (4) indiani in Israele Ma di fronte ai rifiuti dei leader della destra religiosa, sembra che il governo stia correndo ai ripari. Stando a quanto riferito dall`emittente pubblica Kan, il ministero del Lavoro israeliano si è impegnato a riprendere ritmi e modalità economiche consuete ma richiede pace e tranquillità sociale. Quella che non può avere oggi, visto lo sciopero generale che vede impegnata tutta la residua intellighentzija israeliani con idee democratiche e liberali, più il movimento dei lavoratori e degli studenti con le loro sigle. Il punto però resta uno solo… i palestinesi vanno bene per lavori di supporto e a carattere tecnico manuale, assolutamente da bloccare se a livello dirigenziale o simile. “Gli arabi non sono operosi come noi, hanno risposte obsolete e poco utili ai problemi complessi del mondo moderno” quindi… (5)
Stefano Sozza, responsabile della campagna di sostegno a Gaza per “Emergency” è ben consapevole della situazione e, con chiarezza, risponde alla domanda del “Manifesto” e qui sintetizzate.
Stefano Sozza
Le motivazioni che hanno spinto Emergency a questa presenza straordinaria sono molteplici. Partirei elencando le oltre 40mila vittime tra cui 16.500 bambini e gli oltre 93mila feriti che ci sono stati dall’inizio del conflitto. Questi numeri si vanno ad inserirsi in un contesto che è caratterizzato da condizioni di vita estreme. Due milioni e 300mila persone sono soggette a continui ordini di evacuazione e costrette a ritirarsi in quella che è chiamata la zona umanitaria in cerca di sicurezza e di rifugio. Abbiamo visto che la guerra ha portato a una grave mancanza di elettricità, di cibo, acqua, medicinali per tutta la popolazione. La malnutrizione è sempre più diffusa così come le malattie trasmissibili e c’è sempre meno acqua potabile. Per quello che concerne Emergency, (i palestinesi di Gaza) non hanno accesso alle cure mediche di base in quanto il sistema sanitario è collassato. E sono gravi i danni subiti dalle strutture sanitarie in seguito ai bombardamenti. Sin dall’inizio del conflitto ci siamo attivati per valutare la possibilità di un intervento nella Striscia. Per noi essere qui è un dovere ed è anche un onore cercare di dare il nostro contributo a questa popolazione.
Riguardo al luogo in cui stiamo cercando di operare e alle modalità di effetuazione possiamo dire che il al momento il nostro progetto è composto da un capomissione e un logista che hanno lo scopo di individuare un luogo adatto dove poter costruire una clinica per l’assistenza di base alla popolazione. Le zone identificate sono tra Deir al Balah e Khan Yunis, nella parte centrale di Gaza, in particolare la parte ovest di questi due governatorati indicata dalle autorità israeliane come una zona umanitaria, una zona sicura dove i palestinesi devono dirigersi se non vogliono correre il rischio di essere possibili vittime delle operazioni militari.
Partendo dal presupposto che comunque a Gaza non ci sono zone sicure, in questa piccola porzione di terra che tendenzialmente costeggia il mare, di 46 chilometri quadrati e che rappresenta il 12% della Striscia, si concentrano più di due milioni di persone. Il nostro fine è quello di aiutare nel primo soccorso i sovraffollati ospedali locali, diminuendo la pressione dei pazienti. Quindi la clinica offrirà un primo soccorso, stabilizzeremo possibili emergenze mediche e chirurgiche e trasferiremo il paziente in pericolo di vita agli ospedali. Ci occuperemo anche di chirurgia di base per i bambini e di salute riproduttiva per le donne che devono partorire in condizioni pericolose. Avremo uno staff in prevalenza locale, supportato da operatori internazionali. Prevediamo di avere a Gaza otto internazionali e 20-25 colleghi gazawi tra medici, infermieri e farmacisti e personale non sanitario. Questo è un punto fondamentale perché quasi tutti gli abitanti di Gaza hanno perso il lavoro ed è importante cercare di sostenerli.
Più che un racconto si tratta di una vera propria denuncia delle condizioni in cui vengono condannate centinaia di migliaia di persone prima di un anno fa assolutamente pacifiche e prese dal loro lavoro. Sul “pacifiche” ci potrebbe essere qualche obiezione ma continuiamio ad essere convinti che “Hamas” così come lo conosciamo, non sarebbe potuto crescere in uno Stato come la Giordania o l’Egitto o l’Algeria. La fine dei “Fratelli Musulmani” sotto questo aspetto è stata ermblematica. Di fatto Hamas, sganciandosi dall’Autorità Palestinese, criticando ciò che resta dell’OLP e andando a ricoprire uno spazio estremista un tempo coperto dall’FPLP, fa il miglior servizio alla Destra israeliana, permettendole di giustificare ogni tipo di nefandezza. Lo stesso Stefano, d’altra parte, fa presente che è entrato nella striscia il 15 di agosto superando non poche difficoltà. L’unico valico per Gaza attualmente percorribile per gli operatori umanitari è quello di Kerem Shalom ed è obbligatorio coordinarsi prima con Nazioni Unite. La prima sezione di strada dentro Gaza infatti viene percorsa tramite un convoglio blindato. Secondo i testimoni diretti, salta subito agli occhi la distruzione che la guerra ha provocato: edifici distrutti, strade dissestate e deserte, pochissima gente in giro e tanta desolazione. Non appena si entra in una zona umanitaria il contesto, però, cambia completamente. E Stefanio Sozza è colpito soprattutto dalla concentrazione di persone, dalla presenza di tende e di strutture semplici e fatiscenti praticamente ovunque. Ogni spazio che una volta era libero è stato utilizzato dalle famiglie sfollate come base. Non c’è elettricità, non c’è copertura Internet e se c’è è minima, il sistema di smaltimento dei rifiuti è collassato, le reti fognarie sono danneggiate e scaricano direttamente sulla strada. Una cosa che lo ha soprattutto impressionato è come l’economia di guerra abbia fatto salire alle stelle i costi dei beni primari. Un litro di benzina, ad esempio, oggi costa 12 euro, ieri costava 17 e prima della guerra solo 1 euro. È una fluttuazione continua che riguarda anche i generi alimentari, e le famiglie che hanno perso il proprio lavoro, i propri averi e non hanno i soldi per garantirsi un sostentamento minimo, non possono che affidarsi alle distribuzioni di cibo e acqua garantite dalle organizzazioni umanitarie. Su questo sfondo c’è la violenza della guerra, i bombardamenti, i droni che pattugliano incessantemente il cielo, le operazioni militari, gli ordini di evacuazione che spostano migliaia di persone già stremate da quasi 11 mesi di guerra. La situazione è catastrofica. Conclude, poi, affranto: “In dieci anni di lavoro umanitario ho vissuto diversi contesti come il Sudan, la Siria, l’Afghanistan e l’Ucraina, ma questa è senza ombra di dubbio la peggiore crisi umanitaria che abbia mai visto”.
Una situazione che “Al Ahram”, giornale del Cairo, definisce “dai due volti” perché “se da una parte vi è distruzione, sono morte quasi 50 mila persone e ne sono state ferite in qualche modo almeno duecentomila” dall’altra il popolo palestinese stoicamente resiste, fa barricate, si oppone con quello che può e cerca di mantenere le posizioni, anche tra le linee del potente esercito israeliano. Tutti “shehid” tutti martiri e eroi che, alla fine, sempre secondo Al Ahram, non potranno che vincere.
Ma di quale vittoria si tratta? Del ricacciamento in mare di circa dieci milioni di israeliani in maggioranza non osservanti, provenienti da una ventina di Stati diversi, con abitudini, tradizioni e organizzazioni sociali totalmente diverse le une dalle altre? Dal Mediterraneo al Mar Morto con una sola Palestina araba e , forse, qualche sporadico focolare ebraico? Sarebbe questa la vittoria? O, dall’altra parte, l’agglutinazione di Alture del Golan, Striscia del Litani, Gaza e West Bank ad un unico Stato ebraico confessionale, razzista e chiuso a chi non è ebreo? Anche questa, alla lunga una sconfitta, tutt’altro che una vittoria. Comunque, per il momento, sarebbe opportuno iniziare con un “cease fire” mettendo le premesse per un dopo distruzione di Gaza…possibilmente anche con recupero delledelicatezzee attenzioni che si riservavano l’un l’altro ebrei e arabi. Vedremo….
…
.1. https://ilmanifesto.it/emergency-sbarca-a-gaza-qui-la-peggiore-delle-crisi
.2. Enc. Treccani: “Popolazione (p. 87). – Non è stato eseguito nessun censimento dopo quello del 18 novembre 1931, che dava 1.035.821 abitanti; ma i calcoli dell’Ufficio di statistica permettono di seguire il movimento ascensionale della popolazione e i mutamenti demografici, commessi soprattutto con l’immigrazione ebraica degli ultimi anni. Al 30 giugno 1937 la popolazione era valutata a 1.383.000 ab., dei quali 876.000 musulmani (di contro a circa 760.000 nel 1931), 386.000 ebrei (di contro ai 175.000 nel 1931), 110.000 cristiani (90.600 nel 1931), 13.000 Drusi, e 182 Samaritani. L’immigrazione fu, secondo le cifre ufficiali, di 65.867 persone nel 1935 (di cui 63.086 ebrei), di 31.671 nel 1936 (29.727 ebrei). Le nascite furono del 45 per mille e le morti del 16,1 per mille nel 1936.
L’immigrazione ebraica affluisce in gran parte nei centri urbani (le colonie agricole ebraiche, cresciute a 206, avevano nel 1936 una popolazione complessiva di circa 97.000 ab.) e perciò talune città si sono negli ultimi anni enormemente accresciute, soprattutto Tel Avīv, che dal 1931 ha triplicato la popolazione, e con circa 140.000 ab., nel 1936, è oggi la città più popolata. Gerusalemme conta circa 125.000 ab. (90.000 nel 1931), Ḥaifā quasi 100.000 (50.900 nel 1931). Giaffa, che nel 1931 superava ancora Ḥaifā, non è più che al quarto posto, per quanto la sua popolazione sia salita a 71.000 ab. Per contro in tutti gli altri centri che non sono meta di immigrazione l’aumento è stato modesto: Gaza, Hebron e Nābulus contano oggi intorno a 20.000 ab. ciascuna, Lydda e ar-Ramleh circa 12.000, Safed e Nazareth 10.000. Finanze (p. 92). – I disordini politici del 1936 e 1937 hanno inciso molto sullo sviluppo economico del paese e si sono ripercossi anche sul bilancio (in milioni di dollari).
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