Dipendesse da Di Maio e da Salvini, questo governo durerebbe a lungo. Dove la trovano un’altra occasione in cui possono stare – al tempo stesso – al governo e all’opposizione? Salvini si comporta come un premier, fa il Ministro degli Interni quando capita e impiega la maggior parte del suo tempo a fare selfie con la divisa di turno o lanciare il gratta e vinciSalvini. Di Maio si è ritrovato tra le mani un movimento creato da Grillo solo perché il fondatore era «stancuccio», e in quarantottore – a trentadue anni – si è svegliato – deleghe alla mano – l’uomo più potente d’Italia. Quando non è occupato a gestire, può divertirsi ad arringare le piazze contro la corruzione dilagante, pazienza se si tratta di quella del suo alleato di governo.
Trattandosi di due tipi alquanto svegli, i vicepremier lo sanno bene che la situazione attuale – un piede dentro l’altro fuori, e entrambe le mani in pasta – è irripetibile. Giocassero per una vita al totoChigi, un colpo di fortuna così non gli capiterebbe più. Quindi, dipendesse da loro, la spina non la staccherebbero mai. Continuerebbero ad alzare i toni, e ad abbassarli il giorno dopo. Ma fermandosi sempre un metro – o un millimetro – prima del baratro. Il problema è che non dipende solo da loro. Per quanto l’iconografia ufficiale li presenta come due capi assoluti, la realtà – nei rispettivi partiti – è ben diversa. Né i Cinquestelle né la Lega appartengono alla categoria del partito personale, nel formato del controllo assoluto inventato da Silvio Berlusconi. Certo, a quel modello si sono ampiamente ispirati, così come aveva fatto Renzi quando si impossessò del Pd. E se il fenomeno viene misurato sul piano della personalizzazione della leadership, non c’è dubbio che i Cinquestelle delle origini siano andati incontro a un processo di verticalizzazione del comando. E che un analogo meccanismo abbia contribuito fortemente a far decollare la Lega dal 4% che aveva alle elezioni del 2013 a quel 30 e rotti per cento che i sondaggi le attribuiscono oggi in gran parte per la popolarità che Salvini si è conquistata grazie al Web.
Ma la leaderizzazione del consenso – il fatto cioè che siano i leader i principali acchiappavoti – non elimina gli apparati storici, e le bandiere cui i militanti delle origini erano principalmente affezionati. È successo tre anni fa con Renzi, quando l’establishment democrat si è ribellato al nuovo condottiero, e alla fine gli ha fatto la festa. Oggi si vanno moltiplicando i segnali di insofferenza da parte di coloro che vedono nel patto di potere tra i due vicepremier il tradimento delle motivazioni – ideali e organizzative – con cui i rispettivi partiti si erano formati ed avevano messo radici. La frattura più evidente riguarda l’ala radicale dei Cinquestelle, i cosiddetti duri e puri che hanno costretto Di Maio ad irrigidirsi sulla defenestrazione di Siri per oltraggio alla questione morale. Ma la spaccatura che alla fine potrebbe risultare determinante si sta aprendo all’interno della Lega, in quel partito degli amministratori cresciuto guadagnandosi sul campo comune dopo comune e regione dopo regione all’insegna di pragmatismo e buongoverno. Smorzando i toni della polemica ideologica separatista e antimeridionale, e badando soprattutto a fare funzionare velocemente gli affari.
Questo partito con Matteo Salvini non ha legami di filiazione diretta. Si è sviluppato indipendentemente da lui, e dai voti che – stando ai sondaggi – ha raccolto nell’ultimo anno con una serie di – riuscitissime – incursioni mediatiche dai toni esagitati che contrastano con il basso profilo di sindaci e governatori. Per il partito degli amministratori leghisti, questi sono voti di Salvini. Che non risolvono i loro problemi. A loro interessa altro. Che si sblocchino in fretta i cantieri, che le grandi opere ripartano e che si vari il prima possibile l’autonomia che consentirebbe loro di aumentare considerevolmente la fetta di spesa pubblica a loro disposizione. Quanto alla questione immigrati, gli basterebbe fare la voce grossa. Lasciando – come è accaduto finora – che i profughi continuino a ingrossare le fila del lavoro nero di cui al Nord c’è tanto bisogno.
Questi due partiti nei partiti sono rimasti, finora alla finestra. A capire se nel contratto di governo firmato dai rispettivi capi ci fossero anche gli obiettivi che a loro stavano maggiormente a cuore. Ma questi obiettivi si allontanano. Anzi, più tempo passa, più entrano in rotta di collisione. Certo, i due leader sono ancora molto potenti. Difficilissimi da spodestare. Ma stanno probabilmente pensando che, se non vogliono finire come Renzi, conviene loro provare a serrare le fila del controllo interno. Anche se dovesse costargli le attuali poltrone di governo.
(“Il Mattino”, 13 maggio 2019).
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