Pensierini inattuali – Il filo rosso della Storia

Pensierini inattuali

Il filo rosso della Storia

I

Vorrei provare a scrivere una serie di piccoli saggi raggruppati – non casualmente – sotto il titolo comune “Pensierini inattuali”. Quello che segue è solo l’antefatto, oltre che il primo della serie.

Il proposito ha pure a che fare con un mio stato d’animo nella “storia che passa”. Lo esprimerei così: in questo tempo mi sento profondamente “inattuale”. Non credo sia per la mia età da uomo ormai irrimediabilmente vecchio. Il fatto è, piuttosto, che mi sento psicologicamente troppo lontano dall’andazzo di gran lunga prevalente in “tutte le parti in lotta”, pur non rinunciando a votare e sostenere, da battitore libero, quella parte che mi paia la migliore, o quantomeno la meno peggiore, in campo, che in questa fase storica mi sembra il Partito Democratico. Ma lo faccio, ormai, con molto disincanto, semplicemente cercando di valorizzare quello che in questo periodo passa il convento della Storia. Altri tempi dovranno venire, quando però io sarò ormai uno stoccafisso.

A proposito di spaesamento mi vengono in mente alcuni grandi saggi giovanili di un filosofo da me sempre molto amato, Friedrich Nietzsche, che – senza o, dal 1962, con – Marx mi accompagna dalla mia ormai remota adolescenza: “Considerazioni inattuali” (1874/1876)1. Anch’io, in generale, e tanto più in quest’Italia, mi sento “inattuale”, e persino un poco “outsider”. Questo mondo non è più il mio mondo, anche se – come ogni buon compagno – che a differenza dei reazionari non guarda “all’indietro”, ma “sempre avanti” – il mio tempo non lo cerco tra i fantasmi del passato, ma nel “non ancora” accaduto. Al tempo passato bisogna dare una spinta perché precipiti più presto, diceva quel matto – però nel senso veneto del “Se no’ i s’è mati no’ ‘i volemo – del Federico2, il quale però, a furia di cercare l’oltre rispetto a un’humanitas di cui intuiva la mala sorte e – più ancora – la bassezza, nel 1889 a Torino, in via Carlo Alberto, perse il ben dell’intelletto, e rimase in uno stato di totale follia sino al 1900, quando, a cinquantasei anni, morì.

L’oltrepassamento del presente era un punto chiave anche per Marx. Egli – quasi a tempo con le “Considerazioni inattuali” di Nietzsche – nel 1873, in un suo “Poscritto” alla seconda edizione del primo libro del suo “Capitale” (la prima edizione era comparsa a Amburgo nel 1867), si occupò della dialettica. Questa, com’è noto, è la visione che pone l’urto degli opposti – antitesi contro tesi in vista di una nuova sintesi – come base del divenire, tanto del pensiero quanto della storia. La concezione era stata elaborata soprattutto da Hegel, che vedeva nel comporsi, scomporsi e opporsi sino alla sintesi, e oltre, dell’Idea, la base del divenire. Questo sarebbe accaduto nella mente umana a tutti comune, nell’Idea; ma ciò che è a tutti comune, nella vita di relazione, sarebbe sintetizzato dallo Stato, considerato come bene comune, eticità vivente3. L’idea del conflitto ideale e sociale come base del divenire era stata ripresa da Marx, che però l’aveva rovesciata in senso materialista e rivoluzionario, vedendo il punto chiave nella “società civile”, o mondo dell’economia, e non nello Stato, e nel conflitto degli interessi delle classi economiche, e non delle visioni del mondo, la base di tutto. Nel “Poscritto” richiamato del 1873 diceva che la dialettica nelle mani del “filisteo tedesco” era stata utilizzata per contrabbandare il reale come razionale (cioè come “necessario”, e “quindi” giustificato), mentre essa, rigorosamente intesa ed applicata, sarebbe “scandalo e orrore” per “la borghesia e i suoi corifei dottrinari” perché “nel divenire”, tramite la negazione di quel che sembra consolidato (antitesi contro tesi versus sintesi), mostra la fatalità dei prossimi crolli: attesta, insomma, il carattere “felicemente” morituro di ogni presente, da guardare come se fosse sempre sul punto di schiattare, in vista del “dopo”, comunque più avanzato anche se non necessariamente migliore4.

Qui e ora, però, la dialettica ristagna. Il grande fiume della nostra Storia sembra diventato un immenso pantano, inquinato e pieno di plastica galleggiante, anche se magari proseguirà come fiume carsico sino al “mare dell’essere”, depurandosi (come pure auspicava – per ogni uomo creativo, cioè profondamente umano – “quel Federico”5). La Storia, insomma, sembra ristagnare, benché tutta l’Europa sia formalmente in pace dal 1945. Ma lo era pure stata, finalmente in pace, nel tempo in cui Nietzsche aveva scritto le sue “Considerazioni inattuali” e Marx la pagina sulla dialettica su cui mi sono soffermato. Si apriva, anzi, dopo la Comune di Parigi del 1871 (che in realtà “chiudeva” il ciclo delle rivoluzioni europee apertosi nel 1848) l’epoca detta della “belle époque”, durata sino allo scoppio della Grande Guerra: un immane conflitto che però arrivò, inaspettato e terribile, nel 1914. Al 1914 seguirono – in una sorta di guerra dei trent’anni come ha poi spiegato lo storico federalista Ludwig Dehio6 – efferatezze senza fine, che furono segnate – tra conflitti esterni e interni agli Stati – da non meno di settanta milioni di morti “ammazzati” tra inizio della Grande Guerra e Liberazione dal nazifascismo. La catastrofe di quel mondo finito nel 1914, che era stato certo più sereno e soprattutto libero di quello venuto ai poli opposti “dopo” in molti paesi (in Italia e in Germania “da destra”, e in Russia “da sinistra”), avrebbe potuto forse essere evitata7, sia pure con difficoltà; ma per evitarla sarebbe stato (e sarebbe) necessario non essere stati (e non essere) “marci dentro”, negli assetti statali in competizione e soprattutto nelle menti; o almeno sarebbe stato (e sarebbe) necessario esserlo molto, ma molto, meno. “That is the problem”, come nell’”essere o non essere” di Amleto8.

Oggi viviamo in un mondo che sembra di nuovo in disfacimento come all’inizio del XX secolo. L’ordine bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale è andato in pezzi sin dal crollo dell’impero sovietico e dell’URSS tra il 1989 e il 1991. Da decenni le due superpotenze che si contendevano, ma al tempo stesso si dividevano, il mondo dal 1945 (Unione Sovietica e Stati Uniti), o non ci sono più (URSS) o non sono più in grado, e spesso neppure vogliono, farsi valere nell’area europea e mediterranea, se non per forza maggiore (USA), anche perché le aree-chiave del pianeta sono ormai extraeuropee. Forse sorgerà un duopolio competitivo tra USA e Cina, ma per ora non è ancora così. Anzi, la Cina, saggiamente, preferisce espandersi, persino come potenza, attraverso gli affari, con cui rischia meno e ottiene vantaggi più concreti e duraturi, essendo oltre a tutto lo Stato più popoloso del mondo, abitato da oltre un miliardo di persone, che è già un’impresa titanica governare.

Inoltre la grande nuova rivoluzione informatica e robotica, che è solo agli inizi, e che si appresta ormai persino a modificare il DNA umano (e, ahinoi, anche se è “ingiusto” nel giro di qualche decennio al massimo lo si farà “normalmente”), ha fatto saltare tutte le barriere commerciali. Ha creato un mondo d’informazioni in cui tutti sono a contatto con tutti, addirittura dalla prima infanzia, con cellulari e tablet. Ha reso perciò comunicanti tutti i popoli, e dato una spinta a tutte le migrazioni dei poveri della terra verso le aree più sviluppate, in cui almeno possono “campare”, e se ci si sappiano fare e siano fortunati, anche più o meno bene.

Il risultato di questa crisi di superpotenze del mondo e della grande rivoluzione informatica e robotica è duplice. Da un lato, secondo tutti i rilievi, la globalizzazione – conseguente – ha fatto fare un gran passo in avanti a popoli sottosviluppati (anche se ci sono ancora 800 milioni di “affamati”); dall’altro ha ingenerato un grado ampio e preoccupante di anarchia – nel senso di anomia – internazionale, Questa è sempre più pericolosa per la tenuta del sistema-mondo. I marxisti sistemici, veri continuatori di Marx, e il cui fior fiore per me sono quelli un tempo detti operaisti (e che oggi potremmo dire post-operaisti, da Vittorio Foa, Raniero Panzieri e Mario Tronti sino a Antonio Negri), hanno provato a riproporre la visione, loro propria, pretesa “scientifica”, di un sistema capitalistico che – prescindendo dal substrato proletario antagonistico che l’incalza tramite la protesta molecolare dei lavoratori e ondate di movimenti delle masse diseredate9 – si autoregolerebbe come se lo muovesse una mano invisibile: nel che era il succo del fortunato libro Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2002) di Antonio Negri e Michael Hardt10. Ma l’idea che un equilibrio intrinseco tenga spontaneamente in piedi, secondo una logica unitaria, il capitalismo mondiale, non regge. Il mondo non è un poliedro in cui le diverse facce si implichino vicendevolmente – e in sostanza razionalmente – finché una rivoluzione di classe non lo dissolva (come sostengono ivi Negri e Hardt). È molto più simile a quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo, ma che oggi vale per il mondo: “nave sanza nocchiero in gran tempesta”11.

Questo capita per una ragione che contraddice l’interpretazione prevalentemente economica (o anche economico-sociale), che il marxismo chiama materialismo storico (ma che va ben oltre il marxismo). Nel mondo in cui viviamo c’è, molto pericolosamente, anomia perché l’economia non si autoregola affatto, ma è regolata dallo Stato (quando sia possibile regolarla; ma se è impossibile sono guai). Ciò naturalmente non significa che lo Stato sia il bene in terra (etico), come dire che il motore è la parte più importante dell’automobile non significa che le altre siano secondarie, e che lo strumento propulsivo non debba essere in funzione di chi lo usa, e che anzi chi lo usa ha tutta una vita sociale e culturale che va oltre, ed è persino più importante, dello Stato stesso. Ma ciò posto lo Stato è la chiave di volta nel divenire sociale. La regolazione del mondo è sempre stata legata, a mio parere, al sistema degli Stati in competizione e, nel territorio in cui è sovrano, dallo Stato. Si può persino dire che lo Stato sia la “struttura” della Storia (anche se la Storia, come le cipolle, non ha struttura, e di struttura si può parlare solo per delineare schemi ordinatori per capirla, ossia post rem). Marx, invece, riteneva che la struttura fosse l’economia; e oggi anche i suoi peggiori nemici generalmente gli danno, su ciò, ragione. Ma io sono tornato, su ciò, a Hegel: non ovviamente nell’ideologia politica borghese e prussiana, ma in quanto vedo ruotare la vita collettiva intorno allo Stato determinato ancor più che intorno all’economia, che “in ultima istanza” dipende da esso. L’economia è però decisiva, sicché uno potrebbe anche sostenere che chiedersi se sia più importante l’economia o la politica, l’incontro-scontro tra forze produttive (classi) o quello nello Stato (o lo Stato), sia come domandarsi se venga prima l’uovo o la gallina. Questo è vero, ma tra i due – politica ed economia, Stato e forze produttive – ce n’è uno “più uguale dell’altro”; e questo per me è lo Stato, il che ha conseguenze non piccole. L’economia ha sempre avuto bisogno di un potere territoriale che la protegga, l’aiuti ad espandersi o la guidi. Questo è l’opposto di quel che ha pensato il liberismo, per cui l’economia si autoregola come se la dirigesse una mano invisibile12 (ma ciò era vero anche nel capitalismo descritto da Marx, diverso da quello del “laissez faire laissez passer”, ossia dal libero mercato allo stato puro descritto da Smith e Ricardo, solo – anche se è moltissimo – perché Marx riteneva “storico”, cioè nato nel tempo e destinato nel tempo a essere dissolto dai lavoratori sfruttati, quel che per Smith e pure Ricardo era vero per ogni società umana civilizzata)13. Un tempo – secondo Marx – tutto sarebbe stato di tutti, nella preistoria e ancora presso gruppi di “primitivi”, ad esempio pellerossa, fermi al Neolitico presenti tra noi; e dopo il capitalismo, al più alto livello dello sviluppo invece che al più basso – tramite la fase intermedia del potere dei senza potere volto ad abolire le disuguaglianze – tornerà (o tornerebbe) ad esserlo14. Ma l’economia senza Stato è comunque informe e anomica come la società senza Stato. Perciò, se l’avesse pensata più o meno hegelianamente come la penso oggi io (vedendo la Forma-Stato come motore della vita collettiva moderna), Marx avrebbe fatto meglio a scrivere un’opera intitolata Lo Stato piuttosto che Il capitale. E se avesse ritenuto, magari totalmente a ragione perché lo Stato prevalente nel mondo “fete assai”, che bisogna fare un altro Stato, avrebbe potuto scrivere lui uno Stato e rivoluzione, ma dedicando a tutti i processi di nascita, dissoluzione e rinascita degli Stati, anche in vista dello Stato come autogoverno dei lavoratori-cittadini, gran parte del tempo e delle pagine dedicati al “Capitale”, e non le pagine abbastanza rare, e per di più iperpoliticistiche, dedicate allo Stato in momenti chiave della storia come La Comune di Parigi15. Non lo fece, nemmeno per trattare ampiamente e approfonditamente il tema della transizione economica al socialismo (su cui avrà scritto sì e no 50 pagine su 20.000), perché il “focus” dottrinario per lui era l’economia e non la politica; era quello che con Engels, nell’Ideologia tedesca, sin dal 1845-1846 chiamava il padrone della casa, e non “il cane della casa” (per lui lo Stato), “cane” che l’anarcoindividualista Stirner avrebbe a torto enfatizzato16.

Invece per me si sbagliava. Con uno Stato in frantumi il potere di una classe durerebbe pochi mesi. Il marxismo diceva che ciò accade perché lo Stato è la macchina che protegge la classe dominante (burocrazia polizia ed esercito professionale al servizio di chi comanda nell’economia). Ma in realtà è lo Stato che rende possibile una classe che domina stabilmente l’economia, e che la subordina sempre, anche se “gli conviene” dare mano più o meno libera a chi “fa ricchezza”, perché così l’economia fiorisce meglio, e lo Stato accresce consenso e stabilità. E quando lo Stato non può più dirigere l’orchestra sociale, anche l’economia va in malora. Ad esempio se oggi gli Stati Uniti riuscissero a mandare in crisi lo Stato cinese, questo si dividerebbe subito almeno in una decina di Stati; così le contraddizioni economiche, compresse e duramente governate, si farebbero esplosive (diverrebbero “sgovernate”) e loro si assicurerebbero (o consoliderebbero) il primato, anche economico. Del resto gli Stati si sono sempre fronteggiati per questo: sotto sotto sapendo che non solo il loro primato politico di potenza, ma il loro primato economico, si afferma dissolvendo o almeno ridimensionando la potenza “statale” concorrente.

Tuttavia quello che nel mondo in cui viviamo è saltato, è proprio la Forma Stato (o meglio, essa si è molto ridimensionata, in attesa di trovare la forma adeguata al nostro essere del mondo, il quale ultimo è del tutto diverso da quello dei secoli passati perché ora l’essere nel mondo si è davvero “mondializzato”). Il punto chiave da comprendere è che lo Stato, all’interno del territorio in cui è sovrano, ha perso o ha visto comunque ridursi decisamente quella che è sempre stata la sua vera arma segreta, o il segreto della sua potenza: la possibilità di dire sempre l’ultima parola nella politica economica; il suo potere di tenere sempre per un punto delicato del corpo umano maschile – che qui non starò a nominare – i produttori e distributori della ricchezza. Persino lo scontro interno tra produttori della ricchezza, da secoli tra borghesia e proletariato, ha sempre enfatizzato il ruolo di mediazione o sintesi dello Stato. Lo Stato nazionale ha sempre dominato nella politica economica, generalmente d’intesa con i proprietari (non tanto perché ne fosse la longa manus o clava, ma perché se la ricchezza cresceva anche il suo potere e prestigio erano più al sicuro). Ma le novità di cui si è detto – il fatto che l’economia dipenda letteralmente, e non solo in ultima istanza, dal mercato mondiale piuttosto che dal mercato interno, e che contro di ciò si possa fare, a livello nazionale, alias di Stato, ben poco – ha stravolto le cose. Stalin poteva ancora credere e puntare, nonostante le convinzioni internazionaliste innanzitutto di Trockij, nel e sul “socialismo in un solo Paese”; ma pure i laburisti, e poi i democratici alla Roosevelt al tempo della grande crisi economica del 1929 o dopo, o i keynesiani di molte generazioni, potevano puntare sulla pianificazione (in Russia fatta funzionare, sotto Stalin, coi plotoni d’esecuzione, il terrore di sinistra, e in sostanza l’economia di guerra), e in Occidente tramite la programmazione democratica o Welfare State. Ma nel momento in cui globalizzazione e rivoluzione informatica realizzano l’utopia di Adam Smith del libero mercato, è molto difficile sussumere la politica economica allo Stato. Ormai i prezzi vengono spinti in basso da costi di produzione ridotti all’osso, e il capitale compra la forza lavoro ovunque, ma questo deprezza la forza lavoro del vecchio mondo e impedisce allo Stato di usare la politica economica, come aveva sempre fatto dal mercantilismo del 1500 sino al Welfare State, per stabilizzare il suo potere e la sua ricchezza tramite i buoni affari e il connesso consenso sociale. Questo determina un problema sin qui mai visto: il deperimento degli “attributi” più importanti o comunque determinanti del “corpo” dello Stato: quelli economici. Ciò determina una situazione inedita dalla genesi dello Stato “moderno” dal XIV-XV secolo in poi, o addirittura dalla genesi di antichi imperi come quello egiziano di cinquemila anni fa in poi. Ma con quali conseguenze?

(Segue)

1 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali (1874/1876), a cura di M. Montinari, con un saggio di G. Baioni, Einaudi, Torino, 1981.

2 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1892), tr. di L. Scalero, Longanesi, Milano, 1979, al cap. Delle tavole antiche e delle nuove, pp. 274-298.

3 G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1907; Lineamenti di filosofia del diritto (1921), a cura di G. Marini, ivi, 1987.

4 K. MARX, Il capitale. Critica dell’economia politica, I (1867 e poi 1873), in tr. di D. Cantimori e con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962, in: Poscritto alla seconda edizione (1873), pp. 37-45.

5 Nella Prefazione, che è un vero “Prologo”, al cit. Così parlò Zarathustra, Nietzsche diceva: “In realtà l’anima è un sudicio fiume. Bisogna essere un mare per essere attraversati da un sudicio fiume senza divenire impuri.”

6 L. DEHIO, La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), Comunità, Milano, 1962. Si confronti con l’ottimo: S. PISTONE, Ludwig Dehio, Guida, Napoli, 1977.

7 G. E. RUSCONI, 1914. Attacco a Occidente, Il Mulino, Bologna, 2014. Sostiene che l’inizio si scatenò per decisioni non inevitabili. Altri storici dissentono richiamando il carattere ormai marcio dell’assetto di imperi, esploso perché non più gestibile. Il problema del rapporto tra decisione e determinazione storica è aperto.

8 Naturalmente mi riferisco a: W. SHAKESPEARE, Amleto (1600/1602), alla scena 1 dell’atto III, in cui compare il famoso monologo. Lo si veda nella tr- di E. Montale, con Introduzione di A. L. Zozo, Oscar Mondadori, Milano, 1988.

9 M. HARDT – A. NEGRI, Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004.

10 M. HARDT – A, NEGRI, Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004, e appunto soprattutto, degli stessi, Impero, Il nuovo ordine della globalizzazione, ivi, 2002.

11 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia (1308/1321), in: Purgatorio, canto VI.

12 A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Roncaglia, ISEDI, Roma, 1995. L’immagine dell’economia di mercato che si autoregola come se la dirigesse una mano invisibile è ivi. Ritorna più volte in Negri, rispetto ai movimenti molecolari delle masse nel capitalismo.

13 Marx si pone come “critico dell’economia”, praticamente in tutti i suoi testi economici, proprio perché vuol dimostrare non tanto che la dinamica del capitalismo sia diversa da quella indicata dagli “economisti classici”, quanto la storicità, o transitorietà, dell’assetto da essi anatomizzato, in riferimento ad ogni economia organizzata.

14 Marx teorizza in modo estremamente netto e motivato tali idee nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: Opere filosofiche giovanili (1844, ma 1932), a cura di G. DELLA VOLPE, Editori Riuniti, 1963. Sviluppa molto il tema anche in: K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845/1846, ma 1930), tr. di F. Codino, a cura di C. Luporini, Editori riuniti, 1969. Senza prendere totalmente sul serio l’idea del “salto di qualità della storia”, per cui tramite il potere dei proletari si va direttamente alla società senza classi in cui tutto è di tutti, la teoria marxista dello Stato sarebbe insensata.

15 L’opera Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918) è di LENIN (in “Opere complete”, XXV, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 361-477), ed è in gran parte un’analisi puntuale degli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, del 1871, espressi come Presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori o Prima Internazionale. Per un approfondimento di tutta questa tematica resta fondamentale: I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, a cura di D. ZOLO, Il saggiatore, Milano, 1977, con ampi brani dei maggiori teorici di tale tendenza, interpretati a fondo.

16 K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca, cit., pp. 338-339.

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