Perché a Venezia non ci vado più   (e non sto parlando solo di Netflix…)

Premessa, per doverosa onestà: ho scritto mercoledì 12 settembre, appena dopo aver… visionato su Netflix, il primo giorno di programmazione, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, restandone ammirato:  sia per il rattenuto vigore/rigore del film di denuncia di una lucidissima precisione, sia per lo strepitoso quartetto di interpreti (Borghi, letteralmente superlativo; la bravissima Marigliano, l’appropriato Max Tortora, e Jasmine Trinca generosamente votata a una ruolo importante ma ingrato). Questo per dire che si può predicare discretamente e razzolare male: con riferimento a quanto penso sulle polemiche anteriori e posteriori all’ultima Venezia, aperta appunto da questo film collegato al colosso californiano divoratutto dello streaming mondiale, e conclusa coi massimi riconoscimenti assegnati ad altri due titoli -Cuaròn e i Cohen- ad esso riconducibili. L’amico Paolo Pasquale, che ha avuto il coraggio di programmare Cremonini in una sua sala in pari data, mi scuserà se non mi ha visto

Da qualche anno a questa parte, avendo scelto di condurre una vita decisamente più ritirata, le occasioni di incontri stradali o comunque fortuiti si sono venute rarefacendo. Tuttavia mi è capitato ancora, e certo mi ricapiterà fra un anno, lungo la prima decade di settembre, di imbattermi in qualche amico o conoscente che mi squadrerà trasecolando: «Ma non sei a Venezia?». Quasi ci fosse un obbligo di legge occulto, per chi in qualche modo e misura si occupi o si sia occupato di cinema, di dedicare quei dieci giorni di fine estate alla kermesse del Lido.

No, non “ero a Venezia” neppure un mese fa, ma tranquillamente in casa. A leggere (di qualcosa renderò conto magari qui), guardare (da ultimo Il filo nascosto di P.T. Anderson, perso al cinema: splendido, sebbene mi aspettassi ancora di più…), ascoltare (Bach e Mozart dalla prima all’ultima nota: inutile follìa?) e persino un po’ scrivere (questo pezzetto incluso).  Aggiungo anzi che il tempo dedicato da lontano alla Mostra, fra quotidiani e riviste, web e tv mi è risultato anche quest’anno decisamente assai ridotto. Non ci posso far niente: trovo deprimente che per la stampa e soprattutto le reti i giorni della Mostra siano soprattutto una sfilata di divi sbarcanti al consunto vecchio imbarcadero dell’Excelsior e/o sfilanti sorridenti e abbracciati sul red carpet, purtroppo ripristinato -con premi e smoking- da tempo immemorabile. E ancora più demoralizzante l’eterna sfilata giornaliera degli urlanti richiedenti autografi e -ahimé…- quasi mai rifiutati selfies.

Non ho più messo piede al Lido festival durante dal 2010, dopo l’ultima conferenza stampa all’Excelsior per “Ring!”, che inevitabilmente sono tuttora portato a connettere alla successiva tragedia impunita dell’amianto al “mio” Teatro Comunale di Alessandria. Che pure la città sembra ormai aver tranquillamente digerito senza colpo ferire: potrà forse mancare agli addetti della vicina banca, che ci pranzavano comodamente, il collegato “Caffé Marini” chiuso, ma il Teatro altrettanto defunto pare proprio a pochi, se non a nessuno: e le troppe sedie mobili vuote alla recente serata finale del “Pittaluga” (l’altra vittima diretta, con “Ring!”, dell’irreversibile fulmine a ciel sereno della chiusura otto anni fa!) paiono purtroppo confermarlo. L’anno scorso, addirittura, avevo toccato il punto limite difficilmente superabile di essere… veneziano per caso nei giorni della Mostra senza sbarcare al Lido (in compenso mia moglie Loretta ed io ci siamo imbattuti in Clint Eastwood che girava alla stazione S. Lucia le sequenze iniziali del suo ultimo, purtroppo non memorabile film). E stiamo per essere lì nuovamente nei prossimi giorni ma… per le mostre di Tintoretto!

Non sento proprio la mancanza di quella partecipazione. Per ragioni che io stesso non so spiegare fino in fondo, con la manifestazione clou della Biennale non sono mai riuscito a legare fino in fondo. Tanto mi impressionava nei telegiornali da bambino, quando l’allor giovane conte Volpi jr porgeva la Coppa omonima all’indicibile Maria Schell, quell’anno Gervaise di Clément (e il successivo Natalia, sempre al Palazzo del Cinema, per le Notti viscontiane), che a settembre del ’56, al mio primo viaggio veneziano coi miei, tanto feci che li indussi, perplessi, ad ammirare la costruzione del Lido anche se la mostra aveva già chiuso da un paio di settimane… Da adulto l’incantesimo non si sarebbe ripetuto: neppure nel remotissimo biennio (1975-76) in cui grazie ad  Angelo Humouda, Adelio Ferrero con Giacomo Gambetti e Francesco Bolzoni, ciascuno per la sua parte, vi ebbi un ruolo attivo, con la retrospettiva per il centenario di Griffith (Ruggero Orlando e Macha Meril tra gli spettatori d’ogni giorni in sala Volpi) e il convegno sul cinema spagnolo dopo la morte di Franco. Anche nelle edizioni in cui vi ho soggiornato a lungo, ho sempre teso a prendere alloggio in città piuttosto che al canonico “Quattro Fontane” prediletto dall’allora “critica militante” (altro de profundis!), e non è quasi mancato giorno in cui, al secondo, massimo terzo film, trovassi la scusa buona per riguadagnare anzitempo il pontile di S.M. Elisabetta e tornare a fare o vedere qualcosa delle mille offerte d’arte della città. Senza neppure una riga di invidia per gli amici e colleghi costretti, perché lì per lavoro giornalistico e recensorio, a due settimane da schiavi, in un luogo remoto e inospitale, dove si è costretti a girare su se stessi come criceti nella ruota, un panino con birra in piedi costa più che un normale pranzo a prezzo fisso altrove, e qualche addetto, se non sei spettatore pagante a biglietto con diritto all’ingresso principale, ti squadra ad ogni nuovo giro quasi fossi un pericoloso nemico. Non sono riuscito a recuperare neppure negli anni, reiterati e fortunatamente in corso, sperando che durino (governo giallo-verde -ovvero blu-Salvini: ricordate la mescolanza dei colori primarii?- permettendo…) della direzione dell’amico da sempre Alberto Barbera, complice oltretutto nelle prime, ormai mitizzate edizioni appunto di “Ring!”.  Il sacrosanto esasperarsi dei controlli negli anni successivi all’11 settembre e derivati ha fatto il resto.

Ma ancora di più mi ha sempre infastidito, devo ammetterlo, soprattutto l’espressione tronfia dei numerossisi parvenus che per due settimane si trascinano avanti e indietro dal Palazzo all’Excelsior e viceversa, con l’espressione di chi guarda il mondo dicendo silenziosamente: «hai visto dove sono riuscito ad arrivare?». Anche se devo ammettere di sentirmi toccato e coinvolto dalla considerazione di Claudio Magris: «La declamazione dell’autenticità individuale diventa una posa da parvenu quando si parla contro la massa dimenticando di farne parte»!. Negli anni universitari, peraltro, mi sono prodigato con tutte le forze per moltiplicare gli accrediti di accesso veneziano ai numerosissimi studenti che sembravano tenere più al debuttare al Lido che alla propria stessa sopravvivenza: senza permettermi minimamente di disilluderli, e confidando nel potere didascalico della realtà. Però mi sono sentito confortato nell’apprendere talvolta da amici e colleghi ben più autorevoli e accreditati di me, di cui non faccio i nomi, la condivisione di tanta serena rinuncia.

Reiterate quanto inutili le “conferenze stampa”: quando va bene regno incontrastato di banalità e incompetenze vertiginose. Invadenza RAI e nella comunicazione mediatica ai poveri abbonati che non c’entrano nulla (l’interminabile spot animato di quest’anno è stato sublime!) e nella gestione di selezione, luogo, calendario. Sopravvalutazione incontenibile della stampa quotidiana tutta, unanime nel dedicare ogni giorno due paginone piene di analisi descrittiva di film che il 95% dei lettori non vedranno mai in vita loro e, non paga, facendo precedere il tutto da intere settimane di anticipazioni “verso Venezia”, dove già si parla a scatola chiusa, con delizia dei rispettivi uffici stampa, di quelli stessi film di cui si ridirà come sopra. Quei medesimi quotidiani che, quando il grasso cola, faticano a trovare le dieci righe per uno spettacolo teatrale o un concerto o una mostra davvero importanti! E che, anche in questa nuova stagione, ogni giovedì o venerdì dedicheranno un corrispondente “spazio” a ciascuno dei pochi film selezionati che davvero gli spettatori potranno ritrovare nella realtà concreta della loro vita comune. Ovvero in quel poco che è sopravvissuto, in genere nelle periferie commerciali raggiungibili solo dagli automuniti e in sola fascia serale (no minorenni autonomi; no anziani non più tali, sempre più numerosi e isolati!) in luogo di quello che era una volta “il cinema sotto casa” anche di pomeriggio. Dove gli sparuti “film di Venezia” privilegiati –si fa per dire- dall’uscita immediata, sull’onda illusoria del battage di cui sopra, faranno sistematicamente flop nel giro massimo di una settimana, subito ingurgitati dall’oblio dissimulato prima delle tv digitali e satellitari, ora dei paynetwork spadroneggianti, alla faccia di dvd e blue ray divenuti fulmineamente obsoleti e che quasi nessuno acquista più. Speriamo non sia questa, oggi, la sorte immeritata di Cremonini: ma è toccata negli anni passati a nomi ben più sperimentati e altisonanti, come tutti ricordiamo. Mesi di ansia dalla primavera per sapere se “mi prendono il film a Venezia”, e oblìo inappellabile appena l’estate si fa autunno e le cabine lidensi sbaraccano.

Che senso ha poi, soprattutto, presentare orgogliosamente come l’anticamera degli Oscar per i film statunitensi, quella che ancora e per la 75^ volta si è chiamata “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica”, organizzata niente meno che dalla Biennale di Venezia? («Ma va là!», avrebbe concluso una volta tanto a proposito l’ineffabile conterraneo già on., ora forse sen. Niccolò Ghedini…). I film hollywoodiani, “arte” o non arte, non hanno già comunque per conto loro tali e tanti carburante promozionale in corpo e capacità di occupare manu militari gli spazi distributivi ad ogni livello, da rendere superfluo questo ulteriore lancio? Cui pure  “gli americani”, dopo decenni in direzione ostinata e contraria, sembrano ormai davvero tenere molto: forse perché cominciano ad avere anche loro sentore di fondo del barile come noleggio ed esercizio, almeno per quanto riguarda “il cinema” propriamente detto?

Poi, per carità, mi rendo assolutamente conto della concretezza inesorabile del discorso che tende a valorizzare più ancora l’indispensabilità che l’inevitabilità dei festival in generale: unico punto di resistenza rimasto in senso aggregatore, di fronte al moltiplicarsi frazionante e parcellizzante della molteplicità tecnologica delle fonti ormai infinite (anche in tasca a ciascuno) di irradiazione di immagini. Niente da dire, intendiamoci: ma, personalmente, manifestazioni più limitate e “familiari” (da Pordenone a Trieste, da Bologna a Torino) mi attraggono e parlano molto più delle fondamentali e portanti. Cinquant’anni fa, la contestazione a Cannes troncò sul nascere a Ventimiglia il mio viaggio -e la successiva “carriera”…- di “inviato speciale” nominato sul campo, per fortuiti motivi di forza maggiore (il concomitante ammalarsi dei due amici-maestri titolari…) dalla sera alla mattina, per un’accoppiata di quotidiani politici che non esistono più. Forse è per quello -o per la forma inusitatamente mostruosa del nuovo Palais?- che non ho più raggiunto la Croisette nelle fatidiche settimane di maggio. Deve proprio esserci alla radice qualcosa in me che non va: magari la stessa componente che mi ha spesso fatto trovare umanamente non proprio caldo ed esaltante l’ambiente di quanti si occupano di seguire e studiare il cinema, e le conseguenti relazioni umane che vi si impiantano (o no…). Poi mi viene un timore: non è che sotto sotto sono frustrato per non essere riuscito a far diventare la passione cinema un … lavoro retribuito? Ovvero, con maggiore linearità, bisogna anche francamente ammettere che col trascorrere degli anni il repertorio tende a restringersi, e si soggiace maggiormente alla tentazione di riapprofondire il già noto piuttosto che non di andare alla scoperta di ulteriori novità. Ma questa è tutta un’altra (e brutta?) faccenda.

A questo punto bisognerebbe cominciare a parlare sul serio del tema vero iniziale: l’autentico nodo problematico che questa edizione della Mostra ha fatto sorgere, in misura ancora più acuta di quanto già non fosse facilmente prevedibile. Quello ovviamente del rapporto festival-Netflix-circuito delle sale superstiti, che a Cannes Frémaux, confortato da una legislazione nazionale cui non è soggetto Barbera, ha affrontato in modo radicalmente diverso da lui. Il problema non è naturalmente il verdetto della giuria, contro il quale hanno protestato a scoppio ritardato le associazioni categoriali, sale cattoliche incluse, ma i criteri di selezione rispetto alla considerazione del cinema di circuito, fin che resisterà. Ma in realtà sappiamo che è fatica sprecata: i movimenti dell'”innovazione”  palpabile e soprattutto della finanza invisibile non si fermano di fronte a obiezioni critiche o idee divergenti. Se la premessa è (come ha scritto ad esempio l’amico Steve Della Casa sulla «Stampa» dell’11 settembre) che «chiedere ai prodotti pensati per una piattaforma “altra” di non partecipare a un festival solo perché non prevedono la proiezione in sala è davvero una forma di passatismo senza speranza», tanto vale davvero evitare di perder tempo tentando di avviare almeno una -sterile e patetica, ça va sans dire…- discussione sui “princìpi”. Per carità: ci si scopre proprio ad essere “ideologici”, la situazione peggiore possibile in questo Periodo Blu! Del resto agli sfoghi illividiti, anche se spero non “rancorosi”, di un vecchio provinciale dalla vita ritirata non fa più caso nessuno (ammesso e non concesso che “prima” fosse diversamente!).

 

(«Diari di Cineclub», 65, ottobre 2018)

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