Tempi duri per i governanti. Dai campus americani occupati dagli studenti filo-palestinesi torna a soffiare un vento di protesta che evoca i simboli del Sessantotto. La cosiddetta politica di massa, con le sue manifestazioni di piazza e le bandiere e gli slogan ben visibili. Ma non è di questo che Blinken ha parlato nella sua maratona di colloqui con i vertici cinesi a Pechino. Al cuore delle preoccupazioni americane c’è la partita a scacchi su Taiwan, snodo vitale del controllo del mercato globale dei semiconduttori.
I numeri non sono un mistero. La produzione di chip di Taiwan rappresenta il 60 per cento del volume totale del mondo e Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation) produce oltre il 90 per cento dei chip di punta. Il guaio è che questo semi-monopolio che, fino a un decennio fa, poteva essere considerato nell’ambito – importante ma delimitato – delle strategie commerciali, oggi è diventato il crocevia dei nuovi assetti geopolitici. Il micidiale combinato disposto della rivoluzione tecnologica e degli instabili equilibri multipolari, che si racchiude in un nuovo concetto, e chiave del potere mondiale: la sovranità digitale.
Mentre gli occhi degli elettori sono puntati – si fa per dire – sullo zero virgola percento in meno o in più sugli scaglioni irpef e sulle dispute accanite su se e quando si farà il ponte sullo stretto, la salute e la sopravvivenza di quel che resta degli stati nazionali è legata alla capacità di controllo della invisibile connettività che ormai lega ogni branca della vita associata. A cominciare dalle reti bancarie attraverso cui circola ogni euro o dollaro speso al bar o dal tabaccaio, proseguendo per i cruscotti informatici con cui ogni azienda – piccola, media o gigantesca – monitora h24 ogni transazione, e arrivando ai sistemi che presiedono al cyberspazio web e tracciano ogni nostro click quotidiano.
Il problema che sta minando alle radici le nostre democrazie è il progressivo scollamento tra una partecipazione elettorale sempre più distratta e assenteista e la centralizzazione del comando attraverso meccanismi – e stanze – che il grande pubblico fa fatica anche solo a intravedere. Tanto meno a capirne il ruolo fondamentale per il futuro di un paese. Per questo è doppiamente meritorio il libro con cui Roberto Baldoni spiega il funzionamento degli apparati di cybersicurezza che, nel corso dell’ultimo decennio, sono diventati l’avamposto – e la nuova frontiera – dei rapporti tra le potenze.
Informatico di vaglia internazionale, Baldoni ha messo in piedi in pochi anni l’Agenzia per la cybersicurezza italiana – di cui è stato fino a un anno fa responsabile – reclutando e organizzando oltre duecento superesperti, col compito di vigilare su quelle che sono le principali «cellule» di interscambio di dati, e i relativi settori di sviluppo. Dall’intelligenza artificiale al quantum computing, dal ransomware alla blockchain, passando per il circuito arterioso che regola le attività produttive, le supply chain che, quando si intasano, mandano in tilt qualsiasi fabbrica. Scritto con chiarezza esemplare, il volume è concepito come un manuale dei compiti – strutturali e funzionali – che ogni paese deve affrontare se vuole provare a difendere i propri cittadini e imprese nella giungla digitale globale. Pubblicato in inglese, si può accedere in italiano ai contenuti essenziali grazie alla recensione di Mauro Santaniello sulla Rivista di Digital Politics, edita dal Mulino online, ad accesso libero.
A guardare la bottiglia mezza piena, conforta scoprire i progressi straordinari che in così poco tempo l’Italia è riuscita a fare in una sfida decisiva per il nostro futuro. Al tempo stesso, diventa sempre più chiaro come – forse inevitabilmente – si allarghi il fossato tra le nostre coscienze e abitudini millenarie e le leve algoritmiche con cui le nostre vite sono governate. Assistiamo impotenti e incompetenti all’eutanasia della democrazia. Trasformata in digicrazia.
di Mauro Calise.
(“Il Messaggero”, 29 aprile 2024)
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