Ho pensato di proporre, a scadenza diversa – ora quotidiana, ora bisettimanale e ora settimanale – parole di innumerevoli autori per me fondamentali (su argomenti diversi, ma sempre decisivi), commentandole più o meno brevemente. Un giorno riunirò questi frammenti secondo un ordine logico, che nel frattempo anticiperò nell’ultima nota a piè di pagina di ogni frammento che verrò proponendo (o, più probabilmente, qualcuno lo farà al posto mio dopo la mia morte; o, ancora più probabilmente, non lo farà nessuno, e il tutto seguiterà a navigare su Internet sino al giorno del cosiddetto Giudizio Universale). La vasta silloge è pure in funzione di un vasto romanzo d’idee cui lavoro e che probabilmente mi impegnerà per molti anni, ammesso e non concesso che “il Non-so-Chi” questi anni me li dia. Siccome tra gli autori citabili a me cari ci sono anch’io (“absit iniuria verbis”), procedo proponendo una mia piccola riflessione su Gesù Cristo presente nel secondo capitolo (“Il mondo di Tom”) del mio romanzo d’idee, utopico e istopico, e alla fine con un pizzico di spy story, Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo.[1] In tal caso quasi non commento, perché io sono sempre io. E commentarmi mi parrebbe onanistico. Avverto che il modo spiccio con cui a tratti il personaggio, Tom Douglas, tratta temi tanto delicati e seri è quello che si confà alla forma del romanzo. Ecco comunque le pagine in questione del mio Kali Yuga:
“ I cattolici, e anche i protestanti – seppure questi ultimi ammettano almeno altri approcci – pretendono ancora che tutto [il cristianesimo] ruoti attorno alla crocifissione e soprattutto alla resurrezione di Cristo. La crocifissione è intesa come una sorta di sacrificio a un dio azteco in remissione del peccato originale. Si tratta di assurdità allo stato puro, nate in un clima barbarico teutonico seppure sotto un cielo mediterraneo. Quello di Cristo fu un assassinio bello e buono, e come tale lo presenta anche il Vangelo secondo Giovanni, parlando sì di una luce o Logos venuta tra noi col Cristo, ma stigmatizzando i cuori neri che l’hanno misconosciuta e che hanno assassinato persino l’uomo-dio.
Inoltre si pretende che si creda in senso non solo simbolico, o quantomeno paranormale, bensì “effettuale”, alla resurrezione di Cristo. E di tale pretesa resurrezione del Cristo in carne e ossa si fa addirittura “la base di tutto”. E siccome questa è una faccenda improbabile come quella di Babbo Natale, se uno insiste nel dirlo loro, allargano le braccia e si rifugiano nell’idea dei “misteri della fede” con i suoi oscuri dogmi veri, ma incomprensibili. Uno naturalmente potrà dirmi che con ciò io vengo a negare l’alfa e l’omega del cristianesimo. Ma – a parte il fatto che in tal caso parlo solo per me – io non lo credo affatto. Per me Gesù è stato non solo il più grande modello vivente di vita buona che ci sia mai stato, ma anche – ecco, io direi proprio così – l’uomo che scoprì di essere Dio, e che scoprì che ciascuno può farlo. Vi sembra poco? Che cos’è venuto a insegnarci?
Intanto il “Padre nostro”, cari miei! Ogni parola ha lì un senso infinito.
“Padre”, non uno “altro da me stesso”, ma il mio “genitore”, carne della mia carne e spirito del mio spirito (anche se forse l’ebraicità sua, o dei suoi “ascoltatori” anche migliori, metteva tremendamente in ombra il fatto che Dio è pure “Madre”, il che non è cosa da poco, benché poi i cattolici tramite Maria “madre di Dio” abbiano pateticamente cercato di reintrodurre il femminile nel divino). Non sarebbe affatto male recitare dopo ogni “Padre nostro” una “Madre nostra”, con le stesse identiche parole rivolte al “Padre”. Poi forse si potrebbe proseguire con un “Fratello nostro” e con una “Sorella nostra”. Non vi pare? – Comunque Gesù diceva Padre “nostro”: mica solo di Gesù, ma di tutti gli esseri umani!
E Padre “che sei nei cieli”, vale a dire che sei sì nel mondo di qui, e infatti “nostro”, ma pure “oltre il mondo”, come noi figli, immersi in una dimensione a sé, “celeste”, che non è dunque solo materiale, ma anche o soprattutto spirituale; non è solo somatica, ma anche psichica, “d’anima”. C’è un’altra dimensione nella vita, che è poi quella della vita puramente spirituale, di cui il “Cielo” per molte culture è il simbolo vivente per antonomasia. Ogni riferimento al “Cielo” è sempre stato rivolto a una dimensione diversa da quella terrena, seppure complementare.
“Sia santificato il tuo nome”, ossia sia riconosciuto il fatto che tu sei il Santo, il Sacro, l’infinito, l’eterno.
“Venga il tuo Regno”, ossia il regno dell’empatia che ci affratella tutti attorno a Te come nostro generatore (Padre, ma io direi anche Madre, Fratello, Sorella: alternativamente. Lo ribadisco). Giunga, insomma, il regno della pura fratellanza, in cui siamo interconnessi a Dio, con Dio e in Dio.
“Sia fatta la tua volontà”; e qui io ho qualche mia fortissima resistenza psicologica (lo ammetto), perché io chi sono? – Qui la cosa mi sa di “muslim”, di “abbandono alla volontà di Dio”, quasi che questa non fosse anche la mia (oltre che la sua, o nostra, o vostra volontà, di viventi nel Vivente). Anche se la volontà di Dio, come si sa, è poi che si sia – tutti quanti noi – esseri nell’essere; ossia è l’empatia universale di cui ho detto, che, vista così, appunto come empatia senza confini, mi sta invece magnificamente bene.
Sia fatta tale volontà “in cielo come in terra”, perché la spiritualizzazione della vita non concerne solo una sfera trascendente come il cielo o l’aldilà o una qualche visione mistica, che pure è stata messa al primo posto (come “celestialità” o “cielità” del mondo di Dio), ma concerne anche questa nostra vita terrena (o viceversa, a seconda che uno sia introverso o estroverso, in sostanza; e quindi più celeste, “spirituale”, oppure “terrestre”, materiale, ma sempre sapendo che terra e cielo, esterno e interno, materia e spirito, sono due facce della stessa medaglia). Le due forme di vita, la spirituale e la terrena, sono due in una. L’essere umano, anzi “l’essere”, è insomma terra e cielo, materia e spirito, che sono un continuum. Però il cielo non è meno vero della terra, e viceversa. Ossia siamo terreni e ultraterreni, cari miei, e non un unicum tra materia e spirito come se il sòma, il corpo, avesse inghiottito la psiche, o la materia avesse assorbito lo spirito (e viceversa, sia ben chiaro). Non possiamo dire che la materia, la pulsazione istintuale, il grido, il puro inconscio, la terra abbiano inghiottito il puro pensiero pensante, la parola, il Lògos, il Cielo. Quest’altra dimensione, in prima istanza psichica e umanamente tale, mi sembra il punto di partenza del mio stesso corpo, figliato dallo spirito, come vita da vita, tanto più se inteso come pensante-volente. Psiche e sòma sono due in uno, ma forse tra i due, in certo modo uguali, e complementari, il primo (o la prima) è “più uguale” dell’altro.
“Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ossia perdonaci, cancella i cattivi conti in sospeso che abbiamo con te come noi pure facciamo con tutti gli altri. Possiamo chiedere a Te di rimetterci i debiti, ossia il male commesso, perché noi stessi lo facciamo con gli altri, con tutti gli altri; e non con quei generici atti di perdono che non rimuovono affatto le antipatie e i risentimenti, propri delle anime perdute, che sotto sotto seguitano a coltivare il loro odio, il loro disprezzo, il loro rancore, la loro tendenza a detestare o escludere questo o quello, la loro vocazione alla maldicenza, la loro propensione a ferire gli altri, magari con stile untuoso e viscido, che immagino fosse già quello di coloro che accopparono Gesù stesso, come i farisei e la gentucola o gentaglia consimile, che evidentemente lo fecero soffrire sino allo spasimo, anche semplicemente con la loro incomprensione, come si vede in tanti punti dei Vangeli, prima ancora di aver deciso di accopparlo, e di iniziare gli atti volti a sopprimerlo.
“Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male” (o forse dal “Malo”, cioè dal diavolo, che con l’assenso di Dio tenta noi, come fece persino con Gesù nel deserto; o come analogamente fece cinquecento anni prima, col nome di Mara, con Buddha sotto l’albero della bodhi, proprio mentre stava irrompendo la sua illuminazione[2]: anche là proprio all’origine, dunque, della sua vicenda di “redentore”). “Amen”, ossia sia proprio così.
Tutto questo nel cristianesimo mi piace.
Del resto mi piace pure gran parte dell’insegnamento evangelico: le beatitudini, il tesoro nel campo o la perla nel mare, l’amore reciproco, le invettive contro gli arroganti della fede e gli ipocriti, il divieto di giudicare gli altri, e tante parabole. Tutto ciò mi basta e avanza. Che bisogno abbiamo di resurrezione fisica dell’uomo-dio? – Con buona pace di San Paolo, tutto ciò vale anche se Cristo non fosse affatto risorto. Vale perché è stato detto e fatto, e quando uno lo dica e soprattutto faccia “vale”. Cambia la vita sua e altrui. Altro che storie!
Tuttavia, badate, per me il Cristo non era solo un uomo. Non sto facendo solo l’elogio di un uomo buono o virtuoso, anche d’assoluta eccezione. Per me era proprio Dio. Solo che sono così anch’io. Siamo così tutti. Lui stesso lo disse agli scandalizzati farisei, che avendolo sentito accennare alla sua divinità lo volevano ammazzare, dicendo loro: “Non avete letto nella Bibbia la sentenza: voi siete dèi?”[3]. Nel Vangelo secondo Giovanni c’è scritto! Almeno in un qualche recesso del nostro essere più profondo c’è il divino. Non “abita” solo in noi, come per Sant’Agostino: “siamo” noi, uno per uno. Credo lo siano anche gli animali, sebbene per loro sfortuna del tutto inconsciamente. Anche se per loro fortuna sono in-separati dall’essere che tutti ci vive! Nel loro sentire più profondo, ovviamente del tutto inconscio, probabilmente vivono nell’uno-tutto in modo per noi inimmaginabile.
Per questo Gesù, comunque, pensando a noi umani, diceva “Padre nostro”. Era così anche il “santo bevitore” del racconto di Roth (o meglio la santa bambina che l’aiutava), o l’omino che si sostituisce al sosia Hitler (o che è il suo sosia, ma buono) alla fine del Grande dittatore di Chaplin, e che fa quel suo proprio, e indimenticabile, ”discorso delle beatitudini”, tra i più straordinari dopo quello “della montagna” del Cristo. Ma Cristo lo era certo più compiutamente di noi. Era più avanti di tutti noi, per sua grandezza psichica umana, nello svelamento dell’infinito, dell’eterno e dell’empatia senza limiti, cioè di Dio, in se stesso. Era come un Buddha dopo l’”illuminazione”: una bodhi che nel buddhismo faceva Siddharta in quanto Buddha, illuminato, superiore non solo a Mara (il diavolo), ma persino a Brahma e agli altri dèi. Il signor Gesù si accorse che il divino gli era più intimo del suo essere più intimo, e che quando lo appercepiva – non sempre, direi – tutto diventava possibile, mutabile, investibile e investito dalla luce dello spirito, trasformabile come la materia irrorata dall’energia creatrice, dallo “slancio vitale”. E diceva che così avrebbero potuto fare anche i discepoli, camminando come lui sulle acque a dispetto della gravitazione universale, risanando indemoniati o facendo risorgere individui già morti e muovendo le montagne, se veramente investiti – come accadeva a Lui, quando gli accadeva – dello spirito divino, infinito ed eterno. (Con suo sgomento non gli accadde in croce, tanto che a un certo punto lì si sentì abbandonato da Dio. Gli eventi straordinari non si fanno a comando).
Ma quel Cristo non è rimasto sempre lo stesso. Si può dire che l’immagine del divino che incarnava abbia seguito la nostra storia attraverso i millenni, essendo di noi stessi – più che di Dio o oltre che di Dio – “significatione” (come avrebbe detto Francesco d’Assisi, rispetto appunto a Dio, nel Cantico delle creature). Non solo l’umano è “significatione” del divino, ma anche il divino è “significatione” dell’umano: Also sprach Gesù Cristo. Tutto il dibattito cristologico senza fine, si può dire da San Paolo di Tarso – una generazione dopo Cristo – a noi stessi, lo attesta bene (seppure contraddittoriamente). Tra tutte le immagini del Cristo che si sono succedute nei secoli, quella che mi piace di più non è quella dei crocifissi più tremendi, come quello stupendo di Masaccio, per quanto siano commoventi nel loro rappresentare – per quella via – ogni uomo atrocemente sofferente, o ogni dio martirizzato (che siamo). A me quella mala sorte del divino nell’umano per tanti anni ha fatto perdere la fede. Mi irritava e ancora mi irrita. Profondamente! Mi fa rabbia. Se, infatti, da un lato ci dice che ogni sofferente ha il volto di Cristo (e questo è assolutamente essenziale, lo riconosco), dall’altro ci dice che persino il più buono, il più giusto, il più innocente, il divino più autorealizzato nell’umano e l’umano più autorealizzato nel divino, può, e anzi deve, finire così: martoriato dal male (o, ancor più precisamente, dal “malvagio”, dal “Malo”). E questo non mi piaceva e continua a non piacermi. Nietzsche diceva: “Non è la pietà la croce cui venne inchiodato colui che amò gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione.”[4] Parole sante! La crocifissione se la tengano! Non voglio né il deicidio né l’antropocidio, che sono poi la stessa cosa. E certo non li voleva neanche Gesù, né come vero uomo né come vero Dio. Ci mancherebbe altro! È vero che c’è poi la resurrezione, ma questa, con buona pace del Santo Paolo, che vi aveva riposto tutta la sua fede cristiana, mi è sempre parsa una soluzione da “deus ex machina”, un coup de théatre, un “Arrivano i nostri”. Come la credulità sul prossimo ritorno del Cristo reincarnato, nella sua gloria, da parte delle prime generazioni di cristiani.
Invece il Cristo che piace a me è quello che ci comunicano, ci testimoniano, le icone degli “ortodossi”: il volto del Logos, il Maestro umano-divino, il Cristo che non è mai in croce, o perché è “il Maestro” o perché è “il risorto”, a dispetto – per me, e credo per Giovanni Evangelista, ma potrei sbagliarmi, e però non me ne importa – della “croce”. È il Cristo “pantocratore” appunto degli ortodossi: il kràtor (“l’energia”) pantòs (“del tutto”), simbolo che è poi ben contiguo allo “slancio vitale” di Bergson; è Dio nella Natura e nell’interiorità umana. Bisogna ritrovare il divino nella psiche e nella natura, avant tout. E ça suffit, cari miei!.[5]”
Post Scriptum. Anche oggi, come diceva un tale, “Nulla da rettificare”. Solo, ho letto che la Chiesa cattolica vuol sostituire il “Non c’indurre in tentazione” con una formula più rassicurante. Così persino la cosiddetta “parola di Dio” diventa un optional per preti che credono di rendere più “potabile” la fede trasformandola in camomilla, come uno che pensi che la minestra più buona sia senza sale. Come se Dio non avesse mai tentato Abramo o lasciato tentare Giobbe, e, nel deserto, persino “il suo unico Figliolo”, e come se Timore e tremore e Scuola di cristianesimo del caro vecchio Sören Kierkegaard[6] non fossero mai stati scritti.[7]
di Franco Livorsi
- Franco LIVORSI, Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014. ↑
- G. TUCCI, Il trono di diamante, De Donato, Bari, 1967, al cap. “La vittoria su Mara”, nome indù del diavolo, pp. 195-201. ↑
- Vangelo secondo Giovanni, cap. 9 e soprattutto 10. ↑
- F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883/1891), a cura di L. Scalero, Longanesi, Milano, 1979, p. 38. ↑
- F. LIVORSI, Kali Yuga, cit., pp. 70-75. ↑
- S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Lirica dialettica di Johannes de Silentio (1843), Comunità, Milano, 1983; Scuola di cristianesimo, Comunità, Milano, 1950. Ma ora si veda soprattutto, dello stesso: Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di C. Fabro, con Prefazione di G. Reale, Bompiani, Milano, 2013, ↑
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In caso di pubblicazione, presumibilmente postuma, di questi frammenti, il titolo del libro dovrà essere: Parole e pensieri. Questo frammento andrà nella “Parte seconda”, intitolata “Essere nell’essere”, al capitolo uno, intitolato “L’immersione nell’essere. Religiosità”. ↑
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