C’è appena stata una svolta che potrebbe risultare storica. Anzi, benché sia venuta fuori attraverso una sceneggiata in cui se ne sono viste di tutti i colori, credo che sia iniziata una nuova era. Non è un’era proprio come “l’era fascista”, ma quantomeno come quella “berlusconiana” (italo-forzista), che sembrava impossibile, ma che nel 1994 s’impose, e poi durò vent’anni, segnati per dodici anni dalla presenza dell’attuale arzillo ottuagenario Silvio Berlusconi al governo.
Non enfatizziamo il senso degli ultimi accadimenti, che avrebbero potuto verificarsi come pure non verificarsi. L’era populista però sarebbe arrivata comunque, almeno dopo il “contratto” tra M5S e Lega. Se il governo Conte non fosse nato – e avrebbe potuto non nascere – ci sarebbero state le elezioni a luglio o ad ottobre, e gli attuali populisti, in specie leghisti, sarebbero andati al potere sul cavallo bianco. I sondaggi già davano a Salvini al 25% invece del 17% del 4 marzo, e il M5S appariva un po’ ridimensionato, ma sempre fortissimo. I due avrebbero potuto correre insieme oppure separati alle elezioni, ma per fare poi insieme un governo populista “più forte che pria”. Giorgia Meloni, capita l’antifona, era già pronta a governare insieme sin d’oggi, in vista di un’alleanza con la Lega nazionalista di Salvini alle elezioni prossime. “Populisti di tutto il mondo, unitevi”, a partire dagli “italiani innanzitutto”, s’intende.
Poche parole sul recente passato e poche altre sull’avvenire.
Nella politica ci sono atti spericolati che se falliscono trasformano chi li compie in una persona assolutamente incapace, e se riescono in una persona accortissima. Così è stato per il Presidente della Repubblica quando sembrava che il governo M5S e Lega non si sarebbe fatto a causa del suo “gran rifiuto” nei confronti dell’ottantunenne Paolo Savona. Il no secco del presidente Mattarella a Savona come ministro dell’Economia a mio parere è stato un incredibile azzardo, anche se “per fortuna” finito bene: un azzardo compiuto senza che fosse nemmeno sicuro, o probabile, che il governo M5S-Lega con Savona all’Economia avrebbe portato l’Italia fuori dall’euro, dal momento che i due partiti di governo non avevano chiesto ciò neanche in campagna elettorale e avevano scritto un “contratto” che non lo proponeva affatto, e lo stesso Savona, che oltre a tutto ha una vita che dimostra che non è uno sfascia carrozze, diceva di non volerlo. Comunque il Presidente della Repubblica aveva motivi di preoccupazione vera di cui era convinto, ed opponendo il suo no al nome di un ministro agiva in modo totalmente costituzionale. Ma operando a quel modo ha rischiato moltissimo. Se – come era parso sino a due giorni fa – il gioco dell’alleanza tra M5S e Lega non si fosse riaperto; se dunque fosse stato necessario varare il governo già pronto di Cottarelli (tecnico, “neutrale”, e questa volta persino senza maggioranza) – e ciò per votare tra qualche mese – la mossa del Presidente sarebbe risultata legittima, ma del tutto sbagliata politicamente. L’impedire il governo di due forze che insieme, il 4 marzo, avevano totalizzato il 50% dei voti, dando poi necessariamente vita all’ennesimo governo non sanzionato dal voto degli italiani, come accade da sette anni, sarebbe stato politicamente grave. E, oltre a tutto, dannoso per il Paese, che pure il buon Presidente col suo atto voleva di certo salvare, in base ad una consapevolezza etica e persino ad un “principio di precauzione” nobili.. Lo stato o di non-governo o di governo senza alcuna maggioranza (di Cottarelli) non poteva non aprirci immediatamente alle reazioni negative dei mercati, con raddoppio dello spread in pochi giorni: contesto che pare abbia subito spaventato anche Salvini. Ma, soprattutto, il no al governo M5S-Forza Italia, per respingere Savona come ministro dell’Economia, involontariamente “tirava la volata” proprio alla parte politica che aveva preteso “a tutti i costi” Savona all’Economia, ossia alla Lega. Questa aveva tutto l’interesse ad andare a votare presto, in base a tutti i sondaggi, che la davano in ulteriore crescita, dal 17 al 25% (oggi, 2 giugno 2018, Pagnoncelli sul “Corriere della sera” dice che i sondaggi la danno addirittura al 28%), senza però apparire minimamente come il partito che provocava le elezioni anticipate, ma anzi come il partito che pur partecipando ad una coalizione col 50% dei voti, che si era accordata, era stato tenuto “per forza” fuori dalla stanza dei bottoni del Governo, e costretto, col suo partner di governo, a cedere il passo a un altro governicchio tecnico, oltre a tutto senza maggioranza e di pochi mesi. Sarebbe stato sin troppo facile stigmatizzare l’atto di preteso arbitrio del Presidente della Repubblica dicendolo prono alla Banca d’Italia, alla Banca Centrale Europea, ai tedeschi, eccetera, contro il chiaro voto degli italiani e contro l’accordo tra i partiti più premiati dagli italiani il 4 marzo. Ciò avrebbe gettato un’ombra di insensatezza politica sul Presidente e avvantaggiato moltissimo la Lega.
Per fortuna il M5S, grazie a Grillo, che è esplicitamente intervenuto persino sul “Fatto quotidiano”, ha compiuto un’inversione a U dell’auto del M5S, che si era imbarcato nella demagogica e infantile richiesta di un impeachment senza fondamento contro il Presidente della Repubblica. La Lega non ha potuto dire di no, per non trasformarsi d’incanto in solo partito delle elezioni anticipate e dell’ingovernabilità. E questo ha riportato in vita il Lazzaro morto del governo M5S-Lega in vita: “Conte” è risorto, anche se nessuno si era accorto di lui.
É andata bene a Mattarella, e un po’ anche al Paese, tornato almeno governabile (magari malamente, ma senza baratri economici troppo vicini ai piedi). Ed è andata bene pure al PD “renziano” (cheto cheto), che potendo fare una maggioranza, almeno con appoggio esterno col M5S, dopo la prima rottura di un mese fa circa tra Di Maio e Salvini, non aveva voluto farlo. Anche a costo di far nascere un governo sovranista e xenofobo, che non ha comunque uguali dopo l’estate del 1960. La chiusura assoluta al M5S si è verificata per volontà di Renzi, però con ampio consenso del suo partito su questo punto. Ma se il PD tra qualche mese avesse dovuto andare a nuove elezioni, necessariamente polarizzate tra M5S e Lega, sarebbe finito ancora più malridotto di quanto non sia dopo la sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016 e dopo la grave sconfitta alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. E questo anche per non aver voluto fare maggioranza col M5S, magari tramite un appoggio esterno tecnico, dopo aver fatto maggioranza con Berlusconi o Alfano e, su certe cose, con Verdini. Renzi, in caso di nuovo scacco in elezioni anticipate, sarebbe scomparso come Sansone, ma con tutti i “filistei”, fossero essi filistei di Forza Italia o anche amici e avversari interni del PD. Lo stellone italico ha salvato non solo il nostro Presidente, ma il PD. Ma il PD di Renzi (o non di Renzi) saprà ora approfittarne? Sarà in grado di fare un congresso vero, con spirito “suo”, da sinistra riformatrice, e soprattutto di riconciliazione tra le sue anime, ora che ha tutto il tempo di farlo “a bocce ferme”?
Per farlo, a mio parere, il PD non abbisogna di progetti di Fronte Repubblicano, come quello proposto da Calenda, in cui c’è la Coalizione senza i “coalizzandi”, e che sembrano voler riformare un Grande Centro (tanto più che l’ormai minuscola sinistra esterna ha subito detto di no, e Forza Italia né vuole essere alleata né può essere accettata come alleata senza sputtanare la sinistra, che ove per assurdo mirasse a formare un nuovo Grande Centro con essa, da un lato non ci riuscirebbe e dall’altro realizzerebbe la profezia del farci morire democristiani, anche se certo Calenda non vuole questo). Il PD abbisogna, semmai, di ritrovare una vera identità democratica di sinistra: con un indirizzo neosocialista e rosso-verde, e con un’ispirazione pure cristiano solidale negli ideali; garante di governabilità, con una proposta forte e chiara, “di partito”, di un sistema elettorale basato tutto su piccoli collegi maggioritari in cui vinca il più votato, a due turni e con premio di maggioranza (ma senza i limiti “specifici” stigmatizzati a suo dalla Consulta nell’”Italicum”); e con un programma sociale tutto basato su una lotta senza quartiere contro la disoccupazione e la sottoccupazione, da condurre necessariamente insieme ai grandi sindacati confederali, e in parlamento, ma anche tra la gente. Anche la decisiva questione dell’elezione di un nuovo leader del PD avrebbe senso in tale contesto. In materia concordo con Veltroni, che in un’intervista di due giorni fa individuava “l’uomo giusto” per la leadership del PD come per un futuro Governo di alternativa democratica in Paolo Gentiloni. Ci vorrebbe uno molto capace a governare e stimato nel mondo, ma con la vocazione ad “aggiustare” e non a “rompere”, a ricucire e non a lacerare. A me è parso che uno così, di matrice renziana, con tutti pregi di Renzi senza alcuno dei suoi difetti “caratteriali” e di eccessivo “agonismo” politico, sarebbe stato Graziano Delrio, che però non lo vuole. A parte Delrio, tali tratti li vedo solo in Paolo. Gentiloni.
Ma oggi il “focus” del discorso non è il PD, purtroppo. Infatti sembra cominciata l’era di Salvini. Già l’espansività del movimento populista sotto la sua leadership è un forte indizio in tal senso. Ha trasformato la Lega da movimento padano a movimento “nazionale” (anzi, nazionalista). L’ha presa al 4 e l’ha portata al 17% e oggi è accreditata al 28, come si è visto. “Lui” ha ora solo il 17% e il M5S invece ha il 32%, ma il M5S ha dato la palmare dimostrazione di essere egemonizzato dalla Lega. Il M5S di Di Maio è risultato così ondivago, col gran finale della comica richiesta di impeachment del Presidente della Repubblica, da rischiare di disperdere rapidamente i talenti ricevuti dal popolo italiano. Si è salvato “in corner”. Siccome uno smottamento grave del M5S nella presente situazione avvantaggerebbe la Lega, e non la cosiddetta sinistra, non me lo auguro. Considero il M5S “ambiguo”, con un principio d’autorità del Capo che è di destra, però con istanze democratico-sociali, a favore delle grandi masse disagiate, che sono “di sinistra”. Questo per un PD che ricominci a “fare politica” dovrebbe pure dire qualcosa, almeno al fine di separare lì dentro “il grano dal loglio”. Per contro vedo la Lega di Salvini come una forma di “fascismo senza fascismo”, che è poi il fascismo del XXI secolo, il quale non ha bisogno di manganelli e olio di ricino né di sprangare i parlamenti per affermare il mix di nazionalismo e populismo che lo connota. Comunque il dirlo o non dirlo “fascismo” potrebbe anche contare poco o niente, in un contesto politico pratico, e non politico dottrinario. Potrebbe essere un movimento niente affatto fascista, ma omologo al fascismo, come un nipote diverso dal nonno, ma che gli assomiglia tanto: il che non è senza conseguenze. Comunque è un movimento nazionalista, populista e legato al suo “Capo”, e con la rapida espansione dei fenomeni del genere in seno al popolo. Non si deve perciò sottovalutare Salvini, o anche la “strana coppia” Di Maio-Salvini che oggi va al potere (col Conte come innocua foglia di fico). Operiamo come fossero avversari temibilissimi, anche se un giorno il polo di sinistra li batterà (ma solo a certe condizioni, che per ora latitano).
Può darsi che il potere del M5S e della Lega sia precario. Può darsi che quel “pallone” oggi pieno di voti si sgonfierà con la stessa rapidità con cui si è gonfiato. Può essere che i peggiori annunci antieuro e anti-Europa si avvereranno (e che i disastri connessi aprano presto gli occhi a tutti, ma a un prezzo economico-sociale spropositato). Ma mi permetto di non averci creduto e di non crederci affatto. Tutto il capitalismo del nord, che ha votato Lega e che dal 17 stava per portarla al 25 o al 28% in caso di elezioni anticipate, non vuole affatto uscire dall’euro (tanto più con questi chiari di luna, in cui l’Unione Europea è costretta ad una guerra dei dazi con gli Stati Uniti, che se condotta dagli Stati nazionali separati è persa in partenza). I “lorsignori” italiani borghesi nordisti – grandi, medi, piccoli e piccolissimi borghesi, che sono tanti e determinanti, e che in Italia, tramite la Valle Padana, sono decisivi dal 1848, e che trascinano pure, sotto le bandiere della Lega, frazioni rilevanti di proletari – sanno che cos’è lo spread e quanto conti l’aiuto della Banca Centrale Europea per salvare la nostra baracca. Tutti questi non vogliono certo né l’uscita dall’euro né dall’Unione Europea. Come non li vuole non solo il PD, ma pure Forza Italia. Perciò non dobbiamo confondere la propaganda con i programmi di governo, e neppure le riflessioni magari estremiste degli economisti con gli atti degli statisti. Non lo fanno neanche gli economisti audaci, o troppo audaci, con le loro stesse elaborazioni.
Posso sbagliarmi perché i due movimenti andati al potere – M5S e Lega – hanno fini molto diversi e potrebbero collidere rovinosamente anche in tre mesi. Non lo escludo, ma inclino a credere che non accadrà. Credo che il potere unisca chi ce l’ha. Il vero rischio è l’infantilismo organico o dilettantismo profondo di quelli del M5S che non partecipano direttamente al governo; ma siccome per liquidare il governo quelli del M5S “di lotta”, che sono tanti, dovrebbero spararsi sui piedi, forse non lo faranno. o qualcuno impedirà loro di farlo tirando il freno a mano in extremis qualora accadesse, come in questi giorni, dopo la buffonata dell’impeachment, ha fatto Grillo. Io, comunque, nei panni di Di Maio e compagni avrei paura soprattutto del fuoco amico. Se – come sospetto – non vorranno farsi del male da soli (tra l’altro per fare poi i donatori di sangue della Lega in prossime elezioni, che certo essa non teme), resteranno al potere. Perciò il governo M5S-Lega potrebbe pure essere durevole, anche se non potremmo scommettere che sarà così. Ma non realizzerà se non in minima parte i suoi mirabolanti e costosissimi annunci vuoi di detassazione molto spinta e vuoi di reddito di cittadinanza su larga scala; piuttosto presenterà il poco che potrà fare in materia come un che di “epocale”. Salvini farà il Minniti un po’ più duramente e soprattutto rumorosamente, con taluni atti isolati eclatanti, mostrando il brutto volto di un’Italia forte coi deboli e debole coi forti. Renderà la vita un po’ più dura agli immigrati irregolari e, una volta o due, come tanti anni fa aveva fatto la craxiana Boniver, potrà rimandare un paio di navi piene di clandestini indietro (forse). Di Maio raddoppierà il reddito d’inclusione, come già previsto da Gentiloni, e dirà che è il reddito di cittadinanza in corso di totale realizzazione. L’abolizione della Fornero consisterà nel mandare a casa chi non ha sessantasette anni, ma ha lavorato e pagato (o paghi) per quarant’anni di contributi. E ci sarà qualche tentativo demagogico contro i vitalizi degli ex parlamentari, che poi sarà stoppato dalla Corte Costituzionale. I giudici “forcaioli” saranno ulteriormente blanditi, come i veri “giusti”, specie dal M5S anche di governo. Davigo sarà fatto santo. Ci saranno pure polemiche più aspre con la Commissione Europea, ma ogni scontro sarà a base di scacciacani, molto più di facciata che di sostanza, sebbene per strappare qualche concessione, un po’ di sformamento in più, dato ad altri Stati in passato. Ma a mio parere non ci sarà niente di preoccupante per i giocatori di borsa e per la BCE, né tantomeno per la UE, che si rassereneranno moltissimo (e hanno subito cominciato a farlo dal primo giorno del governo M5S-Lega). “Ci conoscono”. Il rischio è che ciò basti a consolidare un nuovo blocco di potere populista di destra, che dopo le elezioni – consacrato elettoralmente nell’area che conta (quella di Salvini) – potrebbe – allora e solo allora – portarci alla “democratura”, al “lepenismo” o “putinismo” o “trumpismo” vero. Questo richiede una consacrazione elettorale che non c’è stata, tanto che Forza Italia vota contro la Lega (contro il governo Conte) e il populismo del M5S non è necessariamente “di destra” (anzi). I populisti-sovranisti per ora sono solo in cammino, anche se il governo in carica ha già una forte allure sovranista e populista. Hanno vinto un primo decisivo round.
Purtroppo solo il “terzo polo”, “di sinistra”, ci potrà salvare dal mix tra populismo e nazionalismo (o sovranismo), con Capo carismatico o Capo popolo al seguito, che ora ha conquistato il governo e che potrebbe inaugurare tutta un’epoca di “democratura” in Italia, in cui il premierato voluto da Renzi e battuto col referendum potrebbe ben presto tornare in forma di presidenzialismo di tipo sud-americano, più prossimo ai regimi di Putin o Erdogan che a quello neogollista di Macron. Solo il terzo polo – della sinistra – potrà impedirlo, dando una risposta progressiva alle istanze di forte governabilità, di ripresa economica e di contrasto del disagio sociale che i populisti sovranisti e iper-leaderisti andati ora al potere interpretano. Ma se il buon giorno si vede dal mattino, questo nostro terzo polo, della cosiddetta sinistra, non fa tanto ben sperare. Tuttavia magari i morti risorgeranno presto. Dicono che solo quelli che muoiono possano rinascere. Speriamo che “i nostri” non debbano morire; e, soprattutto, speriamo che possano rinascere. Vedremo. “Del doman non v’è certezza”. Datevi una bella mossa, “compagni cari”, tornando a muovervi tutti insieme e superando ogni sterile “splendido isolamento”, comunque motivato. Altrimenti presto si perderà “storicamente” tutto, anche l’onore della sinistra.
(franco.livorsi@alice.it)
Commenta per primo